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La Repubblica Rassegna Stampa
26.09.2018 Start-up: oltre 300 centri di ricerca a Tel Aviv, 6500 le startup in Israele
Commento di Jaime d'Alessandro

Testata: La Repubblica
Data: 26 settembre 2018
Pagina: 4
Autore: Jaime d'Alessandro
Titolo: «Tel Aviv un mondo a parte»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA - Lab di oggi, 26/09/2018, a pag. 4, con il titolo "Tel Aviv un mondo a parte" il commento di Jaime D'Alessandro.

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Il paradosso ha una sua personificazione e ci viene incontro sorridente. Un signore giovane dalla barba nera con kippah in testa. Si chiama Moshe Friedman, a capo di Ampersand a Tel Aviv. È uno spazio di lavoro collettivo, in un grattacielo ai margini del quartiere di Beni Barak, pensato per gli ebrei ultraortodossi. « Qui sia gli uomini che le donne possono accedere al digitale in un ambiente consono alle nostre tradizioni » , racconta lui mentre mostra gli uffici fra vetrate che guardano la città e pavimento in legno industriale. Gli ultraortodossi rifiutano buona parte della contemporaneità, basta dare un’occhiata al documentario One of us su Netflix per avere un’idea del grado di chiusura. Ora però in Israele hanno deciso di includerli nella rivoluzione digitale, tentando quel che sulla carta sembra impossibile. «Se non risolviamo questo nodo in prospettiva avremo un problema bello grosso», spiega Efrat Makin- Knafo del comune di Tel Aviv. «La città rischia di spaccarsi fra ricchi e poveri, fra religiosi e minoranze da un lato e la sempre più danarosa comunità hi- tech dall’altro. È una frattura pericolosa. Per questo stiamo cercando di portare tutti dentro il movimento delle startup aprendo spazi per il coworking e offrendo corsi gratuiti di formazione » . La Makin- Knafo nell’amministrazione cittadina ricopre la carica di " Chief Resilience Officer", dirige il dipartimento dedicato alla resilienza, ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzarsi dinanzi alle difficoltà. E la difficoltà, qui come in Europa o negli Stati Uniti, sono le disparità sociali che si stanno acuendo anche grazie all’hi-tech. Il flusso di denaro che arriva nella " nazione delle startup", o Start- up Nation come l’hanno chiamata Dan Senor e Saul Singer nell’omonimo saggio del 2009, si va ingrossando.

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Il miracolo economico somiglia ad una bomba ad orologeria. Arabi israeliani e ultraortodossi, che hanno un tasso di fertilità ben superiore agli altri, sono esclusi per motivi diversi dal servizio militare. Ed è l’esercito la prima forma di " networking" per i futuri imprenditori e una delle entità tecnologicamente più all’avanguardia della società. I ventenni imparano responsabilità, apprendono tecnologie, vengono messi in condizione di prendere decisioni, indirizzati nelle varie unità secondo la propria attitudine. Se si è abbastanza bravi da finire in divisioni come la 8200, dedicata al digitale e alla cybersecurity, una volta finita la leva è difficile restare senza lavoro. Ma ci sono fette della società che restano indietro. « La scommessa oggi, crescita economica per tutti, è quindi inevitabile benché difficile », sostiene la Makin-Knafo. Nel Paese ci sono 6500 startup e oltre 330 centri di ricerca di grandi multinazionali, quasi tutti a Tel Aviv. Lo scorso anno, grazie ad acquisizioni straniere di aziende hi-tech, sono piovuti 23 miliardi di dollari. Mobileye, comprata da Intel per 15 miliardi, detiene il record. Ma la lista è lunga e include anche Waze, di proprietà di Google dal 2013 (sborsò 1,3 miliardi). I residenti nell’area di Tel Aviv sono 3,8 milioni sugli 8,5 totali. Il reddito pro capite dello stato ebraico, stando all’Ocse, è più basso di quello italiano: 38 mila dollari l’anno contro 39 mila. Ma qui però è del 40 per cento più elevato. Quasi la metà del prodotto interno lordo israeliano viene da Tel Aviv. La città è una bolla, un’oasi, un’isola. Basta metterci piede per capire di essere un universo a parte a 200 chilometri da Beirut, 70 da Gerusalemme, 400 dal Cairo. Prospera sul filo del rasoio in un mondo ostile che guarda con sospetto ai suoi costumi liberali anche all’interno dei confini israeliani. I ragazzi che solcano la città su monopattini elettrici sono distanti secoli dai religiosi di Gerusalemme. Il governo di Benjamin Netanyahu detesta il comune guidato da 20 anni dal laburista Ron Huldai. Al quale però può dir poco visto il potere economico della città. « Diciamo che ci sono state fasi difficili nel dialogo fra noi e il governo», scherza lo stesso Huldai al City Summit, mentre dialoga con la sua collega Hanna Gronkiewicz-Waltz che guida Varsavia dal 2006 e ha problemi analoghi. L’evento è parte del Tel Aviv Innovation Festival ( Dld) dove si ripete di continuo che l’unica via per una società più moderna è quella di far entrare tutti nella crescita economica evitando i paradossi statunitensi. Ma di Moshe Friedman o di altri ultraortodossi al Dld non si vede nemmeno l’ombra. E pochi sono gli arabi. In una giornata calda e dal cielo limpido, il festival dell’innovazione è ancora appannaggio dei ragazzi dal monopattino. Tutti giovani, tutti ovviamente ebrei. « Non so se il modello della " nazione della startup" è esportabile da noi», commenta l’ambasciatore italiano, Gianluigi Benedetti, che ha organizzato una delegazione di aziende del nostro Paese. «Ma certo, si impara molto guardando come si sta muovendo questa città » . Soprattutto quando tenta di coniugare l’impossibile, dando vita a paradossi per evitare un futuro peggiore del presente.

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