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La Repubblica Rassegna Stampa
22.05.2018 Odio e diffamazione di Israele in un articolo di Mario Vargas Llosa
Un attacco feroce allo Stato ebraico, scelto da Repubblica con richiamo in prima pagina

Testata: La Repubblica
Data: 22 maggio 2018
Pagina: 29
Autore: Mario Vargas Llosa
Titolo: «Dov'è finita la mia Gerusalemme»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/05/2018, a pag. 29, con il titolo "Dov'è finita la mia Gerusalemme", il commento di Mario Vargas Llosa.

IL MANIFESTO titola oggi un commento di Giuliana Sgrena "In Arabia Saudita i diritti delle donne finiscono in cella". Da quando il quotidiano comunista si interessa dei diritti delle donne nel mondo islamico? E perché solo in Arabia Saudita e proprio adesso, quando Riad ha una politica di netta contrapposizione all'Iran, dunque convergente per alcuni aspetti con l'Occidente?

L'articolo di Vargas Llosa su REPUBBLICA - lo scrittore peruviano non è nuovo a interventi unidirezionali contro Israele - è un concentrato di ostilità contro lo Stato ebraico, addirittura accusato di "rinchiudere" e "massacrare" gli arabi palestinesi.

Per coprirsi le spalle, Vargas Llosa afferma di avere "molti amici israeliani" che condividono le sue idee. E' un argomento che ricorda da vicino gli antisemiti che sottolineano di avere "molti amici ebrei".

Vargas Llosa, inoltre, ritiene che "i veri amici di Israele non devono appoggiare la politica suicida di Netanyahu". Israele però, con buona pace di Vargas Llosa, non può fare a meno di difendersi quando attaccata dai terroristi che ne vorrebbero la fine. La conclusione del pezzo racchiude tutto quanto scritto in precedenza: "non sono i palestinesi il pericolo maggiore per il futuro di Israele, ma Netanyahu e i suoi seguaci, e il sangue che spargono".
Quando un Premio Nobel è un mascalzone, come il quotidiano che lo pubblica.

Ecco l'articolo:

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Mario Vargas Llosa

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Pacifici manifestanti?

Mentre Ivanka Trump, avvolta in un vaporoso vestito che dava di che parlare ai presenti, scopriva la targa che inaugurava la nuovissima ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, l’esercito israeliano uccideva a colpi d’arma da fuoco sessanta palestinesi e ne feriva altri mille e settecento mentre cercavano di avvicinarsi, lanciando pietre, ai reticolati che separano Gaza dal territorio di Israele. La coincidenza dei due eventi non è un caso: il secondo è conseguenza del primo. La decisione del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele rompe con 70 anni di neutralità degli Usa. Questa nazione, come gli alleati in Occidente, aveva sostenuto finora che il ruolo di Gerusalemme, rivendicato sia dai palestinesi che dagli israeliani, dovesse essere deciso con un accordo fra le due parti e la creazione di due Stati in grado di coesistere uno accanto all’altro. Di tanto in tanto la teoria dei due Stati riaffiora, ma nessuno ormai crede che sia praticabile, di fronte alla politica espansionista degli israeliani, che con gli insediamenti in Cisgiordania divorano territori e isolano i villaggi e le città che dovrebbero formare lo Stato palestinese: se esistesse, oggi sarebbe poco meno che una caricatura dei bantustan sudafricani dei tempi dell’Apartheid. Trump ha affermato che la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele era « realista » , e che non avrebbe ostacolato un accordo, ma al contrario lo avrebbe facilitato. Forse non solo lo ha detto, ma nella sua ignoranza delle questioni internazionali su cui si esprime in modo irresponsabile, lo crede. Però dubito che siano in molti a crederlo, a parte lui e la manciata di fanatici che ha applaudito quando Ivanka ha scoperto la targa e Netanyahu ha esclamato: « Che giorno glorioso! » . In verità Trump ha aperto il vaso di Pandora, e oltre allo sconcerto in cui ha sprofondato gli alleati, ha provocato in gran parte il massacro crudele che si è aggiunto al supplizio che da tempo è la vita per gli sventurati abitanti di Gaza. La creazione di due Stati era la formula più sensata per mettere fine alla guerra strisciante che esiste da 70 anni in Medio Oriente, e molti israeliani ci hanno creduto. Per disgrazia, ai tempi di Arafat, i palestinesi rifiutarono un progetto di pace in cui Israele faceva concessioni, come restituire parte dei territori occupati e accettare che Gerusalemme diventasse la capitale comune dei due Stati. Da allora, l’enorme movimento dell’opinione pubblica israeliana che voleva la pace si è assottigliato ed è cresciuto il numero di quelli che, come Sharon, pensavano che il negoziato fosse impossibile e la soluzione sarebbe potuta venire solo da Israele, ed essere imposta ai palestinesi con la forza. E c’è molta gente al mondo, come Trump, che crede la stessa cosa e appoggia questa politica insensata, che non risolverà mai il problema e continuerà a riempire di tensione, sangue e cadaveri il Medio Oriente. Questo processo ha reso possibile il governo Netanyahu, il più reazionario e prepotente che Israele abbia mai avuto, e il meno democratico, perché, convinto della propria superiorità militare, incalza gli avversari, ruba ogni giorno territorio in più e, accusandoli di essere terroristi e di mettere in pericolo l’esistenza del piccolo Stato ebraico d’Israele, spara loro addosso, li ferisce, li assassina con il minimo pretesto. Vorrei citare un articolo di Michelle Goldberg, sul New York Times il 15 maggio, intitolato “Uno spettacolo grottesco a Gerusalemme”. Descrive la concentrazione di estremisti israeliani ed evangelisti fanatici americani che hanno festeggiato l’apertura della nuova ambasciata, e lo schiaffo che ha rappresentato per i palestinesi questo nuovo affronto inflitto dalla Casa Bianca. L’autrice non dimentica l’intransigenza di Hamas né il terrorismo palestinese, ma ricorda la condizione in cui sono condannati a vivere gli abitanti di Gaza. Io l’ho vista con i miei occhi e conosco il grado di abiezione in cui sopravvive a stento la popolazione senza lavoro, senza cibo, senza medicine, con ospedali e scuole in rovina, edifici distrutti, senza acqua, senza speranza, con bombardamenti indiscriminati ogni volta che c’è un attentato. La Goldberg spiega che lo spostamento a destra dei governi israeliani ha intaccato il prestigio del sionismo e che parte degli ebrei americani non sostiene più Netanyahu. Credo che valga anche per il resto del mondo, per milioni di uomini e donne che, come chi scrive, si identificano con un popolo che aveva costruito città moderne e fattorie modello dove c’erano deserti, creando una società democratica e libera, e dove una parte consistente della popolazione desiderava una pace negoziata con i palestinesi. Quella Israele sfortunatamente non esiste più. Ora è una potenza militare e coloniale, che crede solo nella forza, soprattutto ora, grazie all’appoggio del Paese più potente incarnato da Trump. Il potere non serve a molto se una società resta sul chi vive, in attesa di attaccare o di essere attaccata, armandosi ogni giorno di più perché sa di essere odiata dai suoi vicini e perfino dai suoi cittadini, e punisce con ferocia chi non ha altra colpa che vivere lì da secoli quando arrivarono gli ebrei espulsi dall’Europa dopo gli atroci massacri nazisti. Questa non è una vita civilizzata né auspicabile, per quanto potente possa essere uno Stato. I veri amici di Israele non devono appoggiare la politica suicida di Netanyahu. Sta facendo del Paese, che era amato e rispettato, un posto spietato. Ho molti amici in Israele, soprattutto scrittori, e ho difeso molte volte il suo diritto all’esistenza, dentro frontiere sicure, e ho auspicato un modo di coesistere pacificamente con il popolo palestinese. Mi onora aver ricevuto il premio Gerusalemme e mi rallegra che nessuno dei miei amici israeliani abbia preso parte allo “ spettacolo grottesco” che ha avuto come protagonista Ivanka Trump, e sono sicuro che hanno provato la mia stessa indignazione per il massacro ai reticolati di Gaza. Rappresentano una Israele che sembra scomparsa. Ma la nostra speranza è che ritorni. In nome loro e della giustizia, dev’essere proclamato che non sono i palestinesi il pericolo maggiore per il futuro di Israele, ma Netanyahu e i suoi seguaci, e il sangue che spargono.

 

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