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La Repubblica Rassegna Stampa
18.05.2018 Le utopie dei pacifisti non servono alla pace
Invece sì per Marco Ansaldo

Testata: La Repubblica
Data: 18 maggio 2018
Pagina: 14
Autore: Marco Ansaldo
Titolo: «Eli, il profeta che inventò lo Stato della pace»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 18/05/2018 a pag. 14 il commento di Marco Ansaldo dal titolo "Eli, il profeta che inventò lo Stato della pace".

Quella di Eli Avivi è una delle utopie che non servono alla pace. Ci si chiede da dove venga l'interesse di Repubblica per questa vicenda, una storia analoga se non avesse avuto luogo in Israele non sarebbe mai stata ripresa.

Ecco l'articolo:

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Marco Ansaldo

La sua terra — uno Stato minuscolo, e non riconosciuto — aveva un inno nazionale (il rumore del mare). La bandiera, tre strisce (azzurro, oro e blu). La Costituzione recitava: “Il presidente è democraticamente eletto dal proprio voto”. Un solo voto. Perché Eli Avivi, capo di Stato del quasi impronunciabile Akhzivland, le elezioni le aveva vinte per una sola scheda a zero, nella sua prima e unica chiamata alle urne nell’anno della fondazione, il 1971. Avivi è ora morto a 88 anni in quello che aveva definito «il Paese più pacifico del Medio Oriente». Un record, insomma. Però aveva avuto la vista lunga, sbarcando qui: perché il futuro Stato libero dell’Akhzivland era un piccolo parco naturale al confine tra Israele e Libano, nominato nella Bibbia, piazzato sul mare e circondato da una splendida baia abitata nei secoli da fenici, crociati, arabi ed ebrei. Un paradiso, all’epoca, dove negli anni d’oro sbarcarono prima Paul Newman nelle pause di “Exodus”, e Sophia Loren quando girò “Judith”, film girato in Israele che la vedeva protagonista. Più di recente, ci è arrivata la top model israeliana Bar Refaeli. Era “l’altra Israele”, o “il terzo Stato” dopo quello ebraico e quello palestinese. Il suo presidente se n’è andato l’altro giorno per una polmonite, una malattia antica che oggi si cura con un paio di settimane di antibiotici.

 

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Akhzivland

Ma ad Akhzivland, dove lui continuava a coltivare l’aspetto di un profeta biblico, capelli lunghi, barba bianca e la jalabyah (la tunica lunga), non c’è mai stata luce elettrica né acqua corrente. Nato in Iran, la famiglia trasferitasi in Israele un anno dopo, Eli all’età da militare si arruolò come marinaio partecipando a incursioni di guerra. Dopo aver girovagato fra la Norvegia, la Groenlandia e gli eschimesi, il giovane avventuroso andò infine a trovare la sorella, che viveva nel villaggio a pochi chilometri dal Libano. E lì ebbe il colpo di fulmine per la bellezza del posto. Cominciò a restaurarlo, impossessandosene. Combattendo burocraticamente le autorità israeliane, rivendicando l’area fino a richiedere il passaporto, stampando di persona i visti di ingresso. Un luogo così, il decennio dopo gli anni Sessanta, divenne automaticamente il cuore della Bohème locale e la valvola di sfogo di chi era in cerca di trasgressioni fatte di sesso e droga, tutte cose in contrasto coi valori puritani del Paese. L’enclave, abitata esclusivamente da lui e dalla moglie Rina, conosciuta nei dintorni, entrò poi seriamente in contrasto con le istituzioni governative. Fu chiusa, e poi riaperta. Avivi ne dichiarò l’indipendenza. Agli ospiti italiani spiegava: «Siamo un po’ come il Vaticano». E la moglie diceva, ridendo: «Avete tutti il passaporto?». Le comodità del villaggio erano ai minimi termini, come gli abiti che coprivano gli ospiti. Fissi erano soprattutto hippies profughi degli anni ’60, o ragazzi in lite con le famiglie. Sulla spiaggia, le serate finivano immancabilmente fra chitarre, erba per le canne, e tabacco. Al mini-museo archeologico che Eli aveva messo su con reperti trovati sul posto e una collezione di fotografie, molto belle, il soggetto principale era sua moglie: con pochi o niente vestiti addosso.

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