Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

La Repubblica Rassegna Stampa
15.05.2018 Gerusalemme e Gaza: ecco chi disinforma
Disinformazione totale sulla Repubblica, i commenti disonesti di Corrado Augias, Bernardo Valli, titoli ignobili di Libero, Fatto Quotidiano

Testata: La Repubblica
Data: 15 maggio 2018
Pagina: 31
Autore: Corrado Augias - Bernardo Valli
Titolo: «Stato d’Israele, dal sogno all’incubo - Quella ferita infinita»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/05/2018, a pag. 31, con il titolo "Stato d’Israele, dal sogno all’incubo", la risposta di Corrado Augias a un lettore; a pag. 33, con il titolo "Quella ferita infinita", il commento di Bernardo Valli, entrambi preceduti da un nostro commento.

LA REPUBBLICA oggi presenta in prima pagina la notizia dell'attacco di Hamas - e dell'inevitabile difesa di Israele - con il titolo "Festa e sangue per l'ambasciata Usa a Gerusalemme. Rivolta dei palestinesi, più di 50 morti e 2400 feriti" e l'immagine di un anziano a terra (non c'è traccia di sangue nella foto). In questo modo continua la demonizzazione di Israele, che tocca il grottesco con l'accostamento di termini dalla valenza opposta come "festa" e "sangue", come se il secondo fosse conseguenza del primo e non, come è, una conseguenza del terrorismo di Hamas. Anche nelle pagine interne la Repubblica continua a presentare i fatti di Gerusalemme e di Gaza in modo speculare.

LIBERO titola a pag. 1 "L'ambasciata Usa a Gerusalemme provoca 55 morti. Ed è solo l'inizio". Come Repubblica, anche Libero istituisce una consequenzialità tra i due fatti che non esiste, se non nella misura in cui ogni pretesto è buono per i terroristi di Hamas per scatenare violenza e cercare più morti possibili, meglio se arabi palestinesi, in modo da imputarli a Israele con la complicità dei media.

Lo stesso è presente sul FATTO QUOTIDIANO, che apre con il titolo "Se Gerusalemme festeggia, a Gaza c'è una nuova Nakba" (sulla stessa lunghezza d'onda gli articoli nell'interno). Nel riassunto che segue il titolo il Fatto scrive: "Oggi viene ricordata la catastofe del 1948 quando 700 [sic!] palestinesi furono cacciati dalle loro terre con la nascita dello Stato ebraico". Viene omesso che la grande maggioranza di coloro che diventeranno i profughi arabi palestinesi non vennero cacciati, ma lasciarono spontaneamente le proprie abitazioni su invito degli Stati arabi che attaccarono il neonato Stato di Israele poche ore dopo la sua fondazione, per distruggerlo, promettendo a chi lasciava la propria casa che si sarebbe impadronito di quelle dei ebrei cacciati in mare.

Ecco gli articoli:

Immagine correlata

Corrado Augias: "Stato d’Israele, dal sogno all’incubo"

La lettera a cui Augias risponde è corretta, così come quasi tutta la risposta. L'ultima frase, però, è totalmente disinformante e in un solo colpo rovescia il senso complessivo dell'articolo: "Questo era il sogno. Dopo 70 anni non s’è ancora realizzato, per più di un aspetto è diventato un incubo". Nessuno degli obiettivi raggiunti e delle sfide di Israele viene citato, resta soltanto il termine "incubo" a descrivere una realtà che è di fatto ben diversa.

Ecco lettera e risposta:

Risultati immagini per Corrado Augias
Corrado Augias

 

Gentile Augias, si celebrano in questi giorni i 70 anni dello Stato d’Israele. La sua nascita fu proclamata da David Ben Gurion il 14 maggio del 1948. Poco prima, con una risoluzione Onu, la vecchia Palestina dal mandato britannico era stata divisa in due, un territorio ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Da qui una serie di conflitti arrivati fino a oggi. C’è sicuramente il diritto del popolo ebraico a uno Stato proprio, a un territorio in cui vivere in sicurezza, però ci fu ancora una volta l’errore di disegnare su una mappa dei confini calati dall’alto, imponendoli, anche con l’uso della forza, alle popolazioni sul territorio. La decisione dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme suona come una provocazione. Tralascio gli aspetti umanitari, che pure sono fondamentali. Anche dal punto di vista strettamente politico questa decisione non fa che accrescere la preoccupazione per le sorti di un’area centrale negli equilibri geopolitici non solo mediorientali.

 

Valerio Mantovani, Torino

La risposta di Augias:

La più bella descrizione di ciò che accadde in quella notte di maggio di 70 anni fa l’ha data Amos Oz nel suo Una storia d’amore e di tenebra, uno dei capolavori letterari del XX secolo. Quando la radio annunciò che l’assemblea Onu a New York aveva accolto la proposta di far nascere uno Stato per gli ebrei (33 sì, 13 no, 10 astenuti), nel minuscolo quartiere in cui il futuro scrittore abitava: «Scoppiò un primo urlo tremendo che lacerò le case, il buio e gli alberi, un urlo che si lancinò da solo, un urlo non di gioia, nulla a che vedere con il grido dei tifosi, non assomigliava a nessun furor di popolo, piuttosto una specie di esclamazione di orrore e sconcerto, un grido da cataclisma che spaccava le pietre, raggelava il sangue » . Per ragioni di politica regionale antibritannica, perfino l’Unione Sovietica aveva votato a favore. Israele nasceva con quel grido sgomento quasi contenesse il presagio di tutte traversie che ne avrebbero accompagnato la vita. Un mio amico fiorentino, poco più vecchio di me, s’era laureato in agraria perché voleva emigrare in Israele a coltivare campi, voleva redimere la terra ed esserne redento. Invece, appena sbarcato, gli misero in mano un fucile perché Israele nasceva nell’incertezza dei confini e della sua stessa natura, mentre a New York si votava, ai margini di Tel Aviv si scavavano già le trincee. Il nuovo Stato era una casa per gli ebrei? O era uno Stato Ebraico, con i pericolosi connotati che una fede ha quando si mescola alla politica? Già prima del 1948 i coloni volevano un pezzo di terra dove gettarsi alle spalle secoli di ghetti, pogrom, mestieri umilianti, rintanati negli shtetl della Galizia miseri, mal tollerati. Il nuovo ebreo, il sabra, voleva dimenticare i milioni di morti, lavorare dall’alba al tramonto, cotto dal sole del deserto che avrebbe trasformato in giardino. Questo era il sogno. Dopo 70 anni non s’è ancora realizzato, per più di un aspetto è diventato un incubo.

Bernardo Valli: "Quella ferita infinita"

Anche Bernardo Valli mette a confronto la festa per i 70 anni di Israele e la "catastrofe" degli arabi palestinesi. Quello che omette sistematicamente è che gli arabi palestinesi devono imputare soltanto a se stessi e alla propria classe politica inetta e corrotta questa "catastrofe". 
Valli termina scrivendo di "repressione" della "disperata marcia del ritorno" da parte di Israele, mentre si è trattato di una difesa dei confini di Israele dal tentativo di sfondamento da parte di terroristi. Quali stragi avrebbero compiuto una volta raggiunte le abitazioni degli israeliani è facile immaginarlo.

Ecco il pezzo:

Immagine correlata
Bernardo Valli

Per gli israeliani la proclamazione dello Stato ebraico è il grande anniversario da celebrare; per i palestinesi è la Nakba, la Catastrofe, l’esodo forzato o spontaneo da città e villaggi della loro gente. Questo accadde settant’anni fa, nel 1948. Sul presente che conta nuovi morti pesa quel passato, le cui ferite sono sempre più profonde. Né si pensa possano cicatrizzarsi nel futuro scrutabile vista la tenzone che continua a dividere i due popoli, non certo risparmiati dalla Storia. I quali si contendono la stessa terra. Su posizioni ineguali. Nettamente impari. Le due facce del dramma, in questa fase, sono ben visibili nelle immagini offerte dalla cronaca nelle ultime ore: da un lato i manifestanti di Gaza, ma anche della Cisgiordania, mobilitati dalla patetica “marcia del ritorno” cominciata il 30 marzo, la quale già conta in pochi giorni un centinaio di morti e migliaia di feriti; dall’altro l’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme, trasferita da Tel Aviv, avvenuta con una festosa cerimonia cui hanno partecipato gli stretti familiari di Donald Trump appena arrivati da Washington. L’apertura della rappresentanza degli Stati Uniti ha assunto il chiaro significato di un riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte della superpotenza. Dopo averli ignorati uscendo da solo dall’accordo sul nucleare iraniano, l’agitato inquilino della Casa Bianca ha ancora una volta trascurato quelli che dovrebbero essere i suoi alleati Il mandato britannico sulla Palestina finì ufficialmente il 15 maggio 1948, ma la data coincideva con un sabato e l’allora primo ministro David Ben Gurion per accontentare i rabbini, gelosi del giorno dedicato al riposo, anticipò di ventiquattro ore la proclamazione dello Stato di Israele. I palestinesi non spostarono invece la Nakba, il loro giorno di festa è il venerdì. A parte la differenza di poche ore, la coincidenza di fatto a metà maggio delle due commemorazioni, l’indipendenza per gli uni la catastrofe per gli altri, è adesso resa ancora più sensibile dal trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, in conformità alla decisione di Trump. Il Parlamento americano si era già adeguato a quanto aveva decretato il Parlamento israeliano nell’ 80 e aveva dichiarato in precedenza Ben Gurion, nel ’ 49. Fin da allora il Parlamento israeliano, già insediato a Gerusalemme, e il primo ministro laico Ben Gurion avevano riconosciuto la città santa come capitale dello Stato ebraico. Ma l’applicazione del riconoscimento restava in sospeso per gli americani perché la sorte di Gerusalemme, contesa come capitale da palestinesi e israeliani, doveva essere decisa con negoziati, come era stato deciso dall’accordo di Oslo del ’ 93. Cosi è stato per la maggioranza dei paesi che hanno mantenuto le rappresentanze a Tel Aviv. Anche nel rispetto della decisione dell’Onu che nel ’47 aveva esortato alla creazione di due Stati (rifiutata dagli arabi), e al tempo stesso dichiarato Gerusalemme un “ corpus separatum”. Ossia un’entità internazionale sotto la sorveglianza (gli “auspici”) delle Nazioni Unite. Durante la guerra del ’ 67 c’è stata la conquista israeliana di Gerusalemme Est, e ben presto, dopo qualche imbarazzo dei laici israeliani, è stata realizzata l’unificazione della città e quindi l’annessione e la promozione a capitale dello Stato ebraico. Città santa per tre religioni, ognuna delle quali vanta diritti, in realtà Gerusalemme è il terzo luogo santo dell’Islam, dopo Mecca e Medina, e i suoi legami con il cristianesimo sono più legati alla figura di Cristo che ai luoghi. Mentre per gli ebrei, al di là della Storia, Gerusalemme è stato per millenni il punto di riferimento. Per la diaspora è stato il centro dell’universo. C’è dunque una priorità ebraica, anche se questo può irritare gli altri monoteismi. Ma nel frattempo Gerusalemme, e in particolare le moschee della spianata, soprattutto quella di Al Aqsa, sono diventate simboli di identità non solo religiose per molti palestinesi. Come l’immagine di Gerusalemme ha ispirato gli ebrei della diaspora, così l’immagine di Al Aqsa, appesa nelle case palestinesi, ha assunto un forte valore simbolico. Come i suoi predecessori Donald Trump poteva rinviare il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, e comportarsi come quasi tutti gli altri paesi, mantenendola a Tel Aviv. Poteva insomma attendere un negoziato, anche se per la verità l’attesa dura da troppo tempo. Come quando si è ritirato dall’accordo sul nucleare iraniano Donald Trump si è allineato sulle posizioni del governo israeliano, abbandonando ancora una volta il ruolo di mediatore, che i predecessori avevano a stento mantenuto, pur non nascondendo l’alleanza con Israele. Barack Obama è stata una parentesi che Donald Trump ha chiuso. I manifestanti di Gaza, ai quali i soldati israeliani non hanno risparmiato proiettili veri, sono spesso indicati dalla propaganda come miliziani di Hamas legati agli iraniani. Tra chi affrontava i soldati israeliani, nel compiere la disperata “ marcia del ritorno”, non mancavano le donne, e chi aveva la possibilità di distinguerli non ha individuato tra gli uomini molti militanti di Hamas. Ma pochi osano escludere che l’Iran, del quale sono noti i rapporti con i reparti armati di Hamas, sia in grado e ansioso di alimentare gli scontri. Colpiti in Siria gli iraniani risponderebbero al confine tra Gaza e Israele. Un’iniziativa che non può andare oltre un’azione di disturbo ma che è parte del conflitto tra lo Stato ebraico e il regime degli ayatollah. Uno scontro che provoca una dura repressione ai danni dei palestinesi. Che ne pagano il prezzo.

Per inviare la propria opinione alla Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui