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Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/05/2018, a pag. 31, con il titolo "Stato d’Israele, dal sogno all’incubo", la risposta di Corrado Augias a un lettore; a pag. 33, con il titolo "Quella ferita infinita", il commento di Bernardo Valli, entrambi preceduti da un nostro commento. LA REPUBBLICA oggi presenta in prima pagina la notizia dell'attacco di Hamas - e dell'inevitabile difesa di Israele - con il titolo "Festa e sangue per l'ambasciata Usa a Gerusalemme. Rivolta dei palestinesi, più di 50 morti e 2400 feriti" e l'immagine di un anziano a terra (non c'è traccia di sangue nella foto). In questo modo continua la demonizzazione di Israele, che tocca il grottesco con l'accostamento di termini dalla valenza opposta come "festa" e "sangue", come se il secondo fosse conseguenza del primo e non, come è, una conseguenza del terrorismo di Hamas. Anche nelle pagine interne la Repubblica continua a presentare i fatti di Gerusalemme e di Gaza in modo speculare. LIBERO titola a pag. 1 "L'ambasciata Usa a Gerusalemme provoca 55 morti. Ed è solo l'inizio". Come Repubblica, anche Libero istituisce una consequenzialità tra i due fatti che non esiste, se non nella misura in cui ogni pretesto è buono per i terroristi di Hamas per scatenare violenza e cercare più morti possibili, meglio se arabi palestinesi, in modo da imputarli a Israele con la complicità dei media. Lo stesso è presente sul FATTO QUOTIDIANO, che apre con il titolo "Se Gerusalemme festeggia, a Gaza c'è una nuova Nakba" (sulla stessa lunghezza d'onda gli articoli nell'interno). Nel riassunto che segue il titolo il Fatto scrive: "Oggi viene ricordata la catastofe del 1948 quando 700 [sic!] palestinesi furono cacciati dalle loro terre con la nascita dello Stato ebraico". Viene omesso che la grande maggioranza di coloro che diventeranno i profughi arabi palestinesi non vennero cacciati, ma lasciarono spontaneamente le proprie abitazioni su invito degli Stati arabi che attaccarono il neonato Stato di Israele poche ore dopo la sua fondazione, per distruggerlo, promettendo a chi lasciava la propria casa che si sarebbe impadronito di quelle dei ebrei cacciati in mare. Ecco gli articoli:
Corrado Augias: "Stato d’Israele, dal sogno all’incubo" La lettera a cui Augias risponde è corretta, così come quasi tutta la risposta. L'ultima frase, però, è totalmente disinformante e in un solo colpo rovescia il senso complessivo dell'articolo: "Questo era il sogno. Dopo 70 anni non s’è ancora realizzato, per più di un aspetto è diventato un incubo". Nessuno degli obiettivi raggiunti e delle sfide di Israele viene citato, resta soltanto il termine "incubo" a descrivere una realtà che è di fatto ben diversa. Ecco lettera e risposta:
Gentile Augias, si celebrano in questi giorni i 70 anni dello Stato d’Israele. La sua nascita fu proclamata da David Ben Gurion il 14 maggio del 1948. Poco prima, con una risoluzione Onu, la vecchia Palestina dal mandato britannico era stata divisa in due, un territorio ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Da qui una serie di conflitti arrivati fino a oggi. C’è sicuramente il diritto del popolo ebraico a uno Stato proprio, a un territorio in cui vivere in sicurezza, però ci fu ancora una volta l’errore di disegnare su una mappa dei confini calati dall’alto, imponendoli, anche con l’uso della forza, alle popolazioni sul territorio. La decisione dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme suona come una provocazione. Tralascio gli aspetti umanitari, che pure sono fondamentali. Anche dal punto di vista strettamente politico questa decisione non fa che accrescere la preoccupazione per le sorti di un’area centrale negli equilibri geopolitici non solo mediorientali.
Valerio Mantovani, Torino La risposta di Augias: La più bella descrizione di ciò che accadde in quella notte di maggio di 70 anni fa l’ha data Amos Oz nel suo Una storia d’amore e di tenebra, uno dei capolavori letterari del XX secolo. Quando la radio annunciò che l’assemblea Onu a New York aveva accolto la proposta di far nascere uno Stato per gli ebrei (33 sì, 13 no, 10 astenuti), nel minuscolo quartiere in cui il futuro scrittore abitava: «Scoppiò un primo urlo tremendo che lacerò le case, il buio e gli alberi, un urlo che si lancinò da solo, un urlo non di gioia, nulla a che vedere con il grido dei tifosi, non assomigliava a nessun furor di popolo, piuttosto una specie di esclamazione di orrore e sconcerto, un grido da cataclisma che spaccava le pietre, raggelava il sangue » . Per ragioni di politica regionale antibritannica, perfino l’Unione Sovietica aveva votato a favore. Israele nasceva con quel grido sgomento quasi contenesse il presagio di tutte traversie che ne avrebbero accompagnato la vita. Un mio amico fiorentino, poco più vecchio di me, s’era laureato in agraria perché voleva emigrare in Israele a coltivare campi, voleva redimere la terra ed esserne redento. Invece, appena sbarcato, gli misero in mano un fucile perché Israele nasceva nell’incertezza dei confini e della sua stessa natura, mentre a New York si votava, ai margini di Tel Aviv si scavavano già le trincee. Il nuovo Stato era una casa per gli ebrei? O era uno Stato Ebraico, con i pericolosi connotati che una fede ha quando si mescola alla politica? Già prima del 1948 i coloni volevano un pezzo di terra dove gettarsi alle spalle secoli di ghetti, pogrom, mestieri umilianti, rintanati negli shtetl della Galizia miseri, mal tollerati. Il nuovo ebreo, il sabra, voleva dimenticare i milioni di morti, lavorare dall’alba al tramonto, cotto dal sole del deserto che avrebbe trasformato in giardino. Questo era il sogno. Dopo 70 anni non s’è ancora realizzato, per più di un aspetto è diventato un incubo. Bernardo Valli: "Quella ferita infinita" Anche Bernardo Valli mette a confronto la festa per i 70 anni di Israele e la "catastrofe" degli arabi palestinesi. Quello che omette sistematicamente è che gli arabi palestinesi devono imputare soltanto a se stessi e alla propria classe politica inetta e corrotta questa "catastrofe". Ecco il pezzo:
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