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La Repubblica Rassegna Stampa
11.05.2018 Sana sgozzata dai famigliari. Scontro di civiltà? Noooo...
Analisi di Raimondo Bultrini

Testata: La Repubblica
Data: 11 maggio 2018
Pagina: 16
Autore: Raimondo Bultrini
Titolo: «'Sana morta per volere di Allah'. Le bugie del padre in carcere»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/05/2018, a pag.16, con il titolo "'Sana morta per volere di Allah'. Le bugie del padre in carcere", l'analisi di Raimondo Bultrini.

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Raimondo Bultrini

Mentre parla con noi nell’ufficio di polizia di Kunjah, con un poliziotto armato di schioppo alle spalle, il comandante della stazione e un nugolo di poliziotti attorno, il 55enne Ghulam Mustafa Cheema non ha nessun tentennamento, non ha l’aria sconvolta né triste. Anzi, sembra sicuro di sé, come se lì fosse solo un ospite temporaneo, pronto a chiarire e uscirsene dalla celletta dov’è rinchiuso da pochi giorni sdraiato sul pavimento di marmo. Nemmeno suo figlio Adnan che è rinchiuso con lui separato dagli altri detenuti, lo sguardo serio e un italiano quasi fluente, ammette il delitto. Nega — a dispetto di alcune notizie rimbalzate ieri dal Pakistan — di aver raccontato alla polizia i dettagli terribili del delitto che appena pochi minuti prima ci aveva riferito il capo degli investigatori Waqar Ahmed Gujjar. Nega, anche se ormai è inchiodato da prove che in Italia sarebbe impossibile smontare. «Non è vero che abbiamo confessato», dice Ghulam. «Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto è perché deve aver battuto contro il bordo del letto o del divano».

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Sana Cheema

Peccato che per la polizia di Mangowal le cose siano andate in modo molto diverso: Adnan avrebbe addirittura tenuto stretta sua sorella con una mano sulla bocca per non farla gridare mentre il padre la strangolava. Eppure anche il giovane cerca di dissimulare: «Io amavo mia sorella, come avrei potuto ucciderla?», chiede. Anche il padre dice di avere «un sasso pesante sul cuore e nel petto». E aggiunge che se le cose sono andate così «è stato solo per un disegno di Allah». I conti non tornano. Perché se non l’avete uccisa voi non avete subito comunicato la notizia, magari ai vicini di casa? «Perché ormai era morta, e dopo tanti anni passati in Italia non abbiamo molta confidenza con l’altra gente del villaggio. Ma quella sera (la morte sarebbe avvenuta tra le 4 e le 5 del pomeriggio, ndr) molta gente è venuta in casa, e abbiamo vegliato il suo corpo l’intera notte...». E perché il mattino dopo l’avete sepolta in tutta fretta senza avvisare la polizia? «Eravamo confusi, disperati», dice. L’incontro con i due uomini accusati dell’omicidio della ragazza pachistana vissuta 15 anni a Brescia e morta il 18 aprile scorso è di quelli che in Italia non sarebbero mai potuti avvenire. C’è un’indagine ancora in corso, ma riusciamo a incontrare entrambi nonostante siano detenuti dal 9 di maggio — giorno del risultato dell’autopsia che certifica che Sana è stata strangolata — in una cella della caserma di Kunjah in Gujrat, dopo due settimane agli arresti domiciliari nel villaggio della famiglia a Kot Ghulam, epicentro di un dramma che attraversa due continenti, due comunità, due modi di vedere e giudicare il mondo. Da una parte Brescia, dove tutti quelli che frequentavano Sana hanno capito subito che era stata uccisa perché non voleva sposare un uomo imposto dalla famiglia, ma il giovane pachistano con passaporto italiano di cui era innamorata. Dall’altra un villaggio e un distretto dove tra il bianco e il nero esiste una più vasta gradazione di colori e giudizi, fatti di credenze e tradizioni, di abitudini all’obbedienza filiale e di punizioni esemplari per chi come Sana cercava di liberarsene. «È vero Sana era ormai più italiana che pachistana, aveva ormai una mentalità diversa dalla nostra», dice il padre. Poi torna a mentire: «Ma nessuno voleva imporle nulla, solo farle capire che il ragazzo che lei diceva di amare era già promesso sposo di un’altra donna e che non voleva saperne di lei. Mia moglie ha provato a mettere quel ragazzo alle strette: o la sposi o smettete di vedervi, gli aveva detto. E infatti dopo quel colloquio anche Sana si è convinta a tornare qui al villaggio, non solo perché anche lei cominciava a dubitare del suo innamorato, ma anche perché l’intera comunità del nostro quartiere a Brescia stava cercando in tutti i modi di boicottare i suoi affari, l’autoscuola per stranieri che andava a gonfie vele e la scuola di lingue, anche questa sempre piena. Andava tutto così bene che molti concorrenti italiani avevano fatto pressioni sul sindaco, sulla comunità italiana e sulla polizia per farci chiudere. E ci sono riusciti, anche se Sana aveva investito 5 milioni di rupie pachistane (36mila euro, a Brescia». Il distretto dove Sana è nata e cresciuta prima del trasferimento in Italia nel 2003 non è poverissimo anche se gran parte della popolazione è contadina. Una grande superstrada che in meno di 4 ore porta alla capitale Islamabad attraversa gli isolati fatti di case basse di mattoni e campi con rare fabbriche da archeologia industriale. Il comandante Waqar, lo stesso che ha autorizzato il nostro incontro con i sospetti assassini («Purché non parliate in italiano perché vogliamo capire che cosa vi dicono») è più che convinto della loro colpevolezza, ma a sua volta in dubbio sull’esito finale del processo. «Il referto medico dopo la riesumazione del cadavere — spiega — dice che l’osso del collo era dislocato, anche non chiarisce in modo definitivo quelle che a noi pare evidente. E cioè che c’erano grumi di sangue sotto al pomo d’Adamo e che i polmoni avevano tracce d’aria dovute al tentativo della ragazza di respirare mentre suo padre le stringeva il collo con una sciarpa». Vuol dire che il tribunale potrebbe dar ragione al padre? Il poliziotto allarga le braccia. «Cercheremo di evitarlo, ma ci vorrebbe una nuova perizia...». Semmai ci sarà. Il poliziotto giura che la confessione in effetti c’è stata. Il primo ad ammettere il delitto è stato Adnan con tutti i dettagli macabri e perfino le parole grosse volate durante l’ultimo tentativo del padre di convincerla a prendere una decisione e sposare uno dei tanti candidati locali che — giura Ghulam — piano piano stavano abbandonando la trattativa dii matrimonio per via dell’atteggiamento sprezzante di Sana che non voleva saperne di sposare un uomo locale. Infatti Ghulam ammette che sua figlia voleva comunque ritornarsene in Italia con il biglietto aereo già fissato per il 19 aprile, il giorno dopo la sua morte, anche se il business era ormai compromesso e lei stessa si lamentava delle discriminazioni subite. Gli chiediamo: discriminazioni basate sul razzismo? «Può metterla anche cosi — risponde — ma non creda che nei paesi arabi, a Dubai per esempio dove molti emigrano, i pachistani siano trattati molto meglio». Quando l’incontro nella stazione di polizia finisce ormai a sera inoltrata, gli ultimi contadini tornano a casa con bufali e attrezzi da lavoro in spalla e i pensieri ben lontani dal caso che sta dividendo la stessa gente del Gujrat. Due donne anziane dicono che un tempo nessuno si sarebbe sognato di disobbedire ai genitori, ma ora coi tempi che cambiano il mondo è diverso. Tra la gente nel villaggio e nelle campagne del distretto con cui abbiamo parlato sono pochi a osare una giustificazione del delitto, soprattutto perché l’Islam non ammette il delitto in nessuna circostanza, e l’ultimo giudice è solo Dio. Ma un’anziana venditrice di un piccolo emporio e l’addetto alla sicurezza di una fabbrica tessile sono meno scandalizzati. «Ogni ragazza è libera di scegliere — dice Parveen — ma se l’uomo che lei ha scelto è un poco di buono allora esistono due sole alternative, l’allontanamento dalla famiglia, la fine di ogni rapporto della comunità con gli sposi, oppure la morte». «Una figlia — dice Muhammed Asif — dovrebbe sempre obbedire ai genitori». Poi ha un ripensamento. «Ma non è giusto ucciderla per questo».

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