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La Repubblica Rassegna Stampa
30.04.2018 La Repubblica concede due pagine senza contraddittorio a un portavoce di Hamas
Un ignobile esempio di disinformazione

Testata: La Repubblica
Data: 30 aprile 2018
Pagina: 14
Autore: Fadi Abu Shammalah
Titolo: «Per la libertà di Gaza la mia marcia è pacifica»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/04/2018, a pag. 14, con il titolo "Per la libertà di Gaza la mia marcia è pacifica", il commento di Fadi Abu Shammalah.

Repubblica concede oggi due intere pagine, senza contraddittorio, a Fadi Abu Shammalah, "direttore dei centri culturali di Gaza". Tradotto: un uomo di Hamas, l'organizzazione terroristica che vuole la distruzione di Israele e lo sterminio degli ebrei che vi abitano.

Non stupisce, dunque, che Shammalah sostenga la natura esclusivamente pacifica della "manifestazione" che ogni venerdì porta folle violente al confine di Israele. Parimenti, il terrorismo di Hamas e di altri gruppi arabi palestinesi non viene neanche citato.

Nel finale, Shammalah insiste ancora sostenendo che continuerà a "lottare" per un "Paese libero". Tradotto: continuerà a propagandare le azioni di Hamas, cioè il terrorismo, per cancellare Israele e edificare una "Palestina" senza ebrei, che presto diventerebbe un dominio del clero fanatico che imporrebbe la legge della sharia. Ma Repubblica concede ampio spazio a questa propaganda.

Ecco l'articolo:

 

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Fadi Abu Shammalah

Il 30 marzo, al mattino presto, mio figlio di 7 anni, Ali, ha visto che mi preparavo per uscire: una cosa insolita a casa nostra di venerdì. «Dove vai, papà?». «Al confine. Voglio partecipare alla Grande marcia del ritorno». Grande marcia del ritorno: questo è il nome che hanno voluto dare ai 45 giorni di proteste lungo il confine tra Gaza e Israele. È iniziata il 30 marzo, nella Giornata della Terra, che ricorda l’uccisione nel 1976 di sei palestinesi che avevano protestato per le confische di terre e terminerà il 15 maggio, 70° anniversario della Nakba, l’espulsione di massa dei palestinesi durante la guerra del ‘48 che portò alla creazione di Israele. «Posso venire?», mi ha pregato Ali. Gli ho detto che era troppo pericoloso. «Perché vai se rischi che ti uccidano?», incalzava. La domanda mi ha accompagnato mentre andavo, ho continuato a pensarci il venerdì successivo e aleggia su di me anche ora. Amo la mia vita. Sono padre di tre bambini meravigliosi (Ali ha un fratello di 4 anni, Karam, e un fratellino appena nato, Adam), e sono sposato con una donna che considero la mia anima gemella. I miei timori erano giustificati: sono stati uccisi 39 manifestanti dall’inizio della marcia, migliaia sono i feriti. Anche due giornalisti sono morti.

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Terroristi di Hamas

Perché, dunque, sono disposto a rischiare la vita partecipando? Ci sono varie risposte alla domanda di Ali. Credo pienamente nella tattica della marcia, un’azione di massa, diretta, di cittadini disarmati. Mi ha stimolato anche vedere come l’iniziativa abbia unificato il popolo di Gaza, così diviso politicamente. La marcia, inoltre, è un modo per evidenziare le insopportabili condizioni di vita nella Striscia: quattro ore di elettricità al giorno, l’economia e le frontiere sotto assedio, la paura che bombardino le nostre case. Ma la ragione principale per la quale partecipo è che tra qualche anno voglio poter guardare negli occhi Ali, Karam e Adam e dire loro: «Vostro padre partecipò a quella lotta storica e non violenta». I media occidentali hanno parlato della Grande marcia del ritorno concentrandosi sulle immagini di giovani che lanciavano pietre e bruciavano pneumatici. L’esercito israeliano ha presentato l’iniziativa come una violenta provocazione di Hamas, e molti analisti hanno accettato ciecamente questa definizione. La mia esperienza sul campo la contraddice totalmente: alcuni rappresentanti dell’Unione generale dei centri culturali, l’organizzazione non governativa di cui sono direttore, hanno partecipato agli incontri per coordinare la marcia.

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C’erano tutti i segmenti della società politica e civile di Gaza. Sul confine non ho visto una sola bandiera di Hamas, né uno striscione di Fatah o un cartello del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Abbiamo innalzato una sola bandiera, quella palestinese. È vero, partecipano anche membri di Hamas, ma questa partecipazione indica che, dall’insistere sulla liberazione militare della Palestina, potrebbero forse passare ad abbracciare una protesta popolare e disarmata. La Grande marcia del ritorno, comunque, non è una iniziativa di Hamas. È di tutti noi. E la nostra manifestazione è stata molto di più di quegli pneumatici bruciati o dei giovani che hanno lanciato dei sassi. La resistenza negli accampamenti è stata creativa e bella. Ho ballato la dabka, la danza nazionale palestinese. Ho assaggiato le specialità culinarie tradizionali. Ho intonato canti tradizionali con altri manifestanti e mi sono seduto con gli anziani che raccontavano come si viveva nei villaggi prima del 1948. Nei venerdì, a volte abbiamo fatto volare degli aquiloni, altre volte issato bandiere su pali di circa 25 metri per renderle ben visibili dall’altra parte del confine. Tutto questo si è svolto sotto le armi da fuoco dei cecchini israeliani che si trovavano a circa 700 metri di distanza. Eravamo tesi, impauriti, ma felici. Il canto, la danza, i racconti, le bandiere, gli aquiloni e il cibo sono più che simboli di un patrimonio culturale. Dimostrano che noi esistiamo, che resteremo, che siamo esseri umani che meritano dignità e abbiamo il diritto di tornare alle nostre case. Vorrei tanto dormire sotto gli ulivi di Bayt Daras, il villaggio dove sono nato. Voglio mostrare ad Ali, Karam e Adam la moschea dove pregava mio nonno. Voglio vivere pacificamente nella mia casa con tutti i miei vicini: cristiani, musulmani, ebrei o atei. Chi si trova a Gaza ha vissuto una tragedia dopo l’altra: gli sfollamenti di massa, la vita in squallidi campi profughi, un’economia “catturata”, l’accesso limitato alle zone di pesca, un assedio soffocante e tre guerre negli ultimi nove anni. Israele pensa che, morta la generazione che ha vissuto la Nakba, i giovani rinunceranno al sogno di tornare. Ma la marcia dimostra che la mia generazione non ha nessuna intenzione di abbandonare i sogni del nostro popolo. La marcia ha riacceso il mio ottimismo, ma sono anche realista: da sola non porrà fine all’assedio e all’occupazione, ma il nostro impegno continuerà finché tutti nella regione non avranno gli stessi diritti. Ogni venerdì, fino al 15 maggio, continuerò ad andare negli accampamenti. Ci andrò per mandare un messaggio sulle condizioni devastanti in cui sono costretto a crescere i miei figli. Se Ali mi chiede perché torno alla Grande marcia del ritorno, nonostante il pericolo, gli dirò questo: amo la mia vita. Ma più di questo, amo te, Karam e Adam. Se rischiare la mia vita significa che tu e i tuoi fratelli avrete la possibilità di avere un futuro dignitoso, di vivere in pace con tutti i vostri vicini, nel vostro Paese libero, questo è un rischio che devo affrontare.

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