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La Repubblica Rassegna Stampa
21.03.2018 Yemen: la responsabilità della guerra non è dell'Arabia Saudita, ma dell'espansionismo iraniano
Il commento fazioso e disinformante di Francesca Caferri

Testata: La Repubblica
Data: 21 marzo 2018
Pagina: 14
Autore: Francesca Caferri
Titolo: «Tra i più disperati della terra Yemen, la guerra senza uscita»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 21/03/2018, a pag. 14-15, con il titolo "Tra i più disperati della terra Yemen, la guerra senza uscita" il commento di Francesca Caferri.

Caferri, come sempre, privilegia nei suoi commenti quello che può servire per accusare l'Occidente e i Paesi della coalizione voluta da Donald Trump.
Caferri dimentica volutamente che il conflitto tra Arabia Saudita e Yemen è iniziato per volontà dell'Iran di volersi impadronire attraverso una guerra di conquista dell'Arabia Saudita vacendo base proprio nello Yemen. Le vittime yemenite - enumerate lungamente da Caferri - devono ringraziare quindi l'Iran, non l'Arabia Saudita che si difende. Il commento di Caferri dimostra ancora una volta quanto gli articoli di politica estera di Repubblica siano schierati con i Paesi che rinnegano i valori delle democrazie.

Ecco l'articolo:

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Francesca Caferri

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Il fornitore di armi

Tutto quello che Khalid Saef è riuscito a portare via dalla sua casa di Dhamar, a sud di Sana’a, sono un lenzuolo, un materasso e due cuscini. Gettati a terra nella tenda che la famiglia occupa in uno dei campi profughi di Marib, circa 150 chilometri a Ovest della capitale dello Yemen, sono l’unico ricordo della vita di un tempo: una vita da contadini, racconta il signor Saef, dignitosa grazie soprattutto a un pozzo, proprietà di famiglia da tre generazioni e garanzia contro le frequenti siccità. Proprio il pozzo, secondo il signor Saef, ha segnato il suo destino: «Quando gli Houthi sono arrivati, i miei vicini si sono uniti a loro e ci hanno denunciato. Hanno detto che eravamo sostenitori del presidente Hadi: non era vero, ma nessuno è stato a sentirci. Sono arrivati di notte e ci hanno buttato fuori, senza darci il tempo di prendere nulla. I vicini ora hanno la mia casa e il mio pozzo». Il signor Saef, la moglie e sette dei loro otto figli, vivono nella tenda dove li incontriamo. La maggiore, 15 anni, è stata fatta sposare qualche mese fa perché il padre non ce la faceva a sfamare anche lei. Nessuno qui lavora: gli aiuti umanitari sono l’unico mezzo di sussistenza. Per quanto possa apparire misera, la sorte del signor Saef e dei suoi familiari è migliore di quella della maggior parte delle persone intorno a lui: più di otto milioni di yemeniti, il 30% della popolazione di questo Paese, sono sull’orlo della carestia secondo le Nazioni Unite: in ventidue milioni hanno bisogno di aiuti umanitari. Undici milioni di bambini – praticamente ogni bimbo yemenita – avrebbero urgente necessità di cibo e assistenza medica: di questi 400mila sono a rischio carestia. E la guerra ha portato qui la più grande epidemia di colera della storia moderna. «La peggiore crisi umanitaria del mondo», per usare la definizione dell’Onu, è iniziata nel 2014 come una lotta di potere interna. In quell’anno gli Houthi, un gruppo sciita da tempo in conflitto con il governo, abbandonarono le loro roccaforti nel Nord per conquistare Sana’a. Il presunto appoggio fornito loro dall’Iran fu alla base, nel 2015, dell’intervento di una coalizione internazionale a guida saudita, che ha trasformato il Paese più povero del mondo arabo nell’ennesimo teatro di scontro a distanza fra Riad e Teheran. E travolto la vita di milioni di civili come il signor Saef.

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Mohammed bin Salman (a sinistra)

Visitando lo Yemen oggi è impossibile sfuggire all’entità del disastro: anche nella zona di Marib - antica capitale di Bilquis, la mitica regina di Saba - considerata una delle più sicure del Paese, la guerra ha cambiato la geografia della città. La periferia è punteggiata dalle tendopoli dei profughi: spianate di tende bianche, fornite – come la maggior parte degli aiuti umanitari – dall’Arabia Saudita, preoccupata dal danno di immagine che la guerra in Yemen e il suo altissimo numero di vittime civili le stanno causando. Parlare con quelli che le abitano è fare un giro nell’orrore: tredicenni sfuggiti al reclutamento come soldati, insegnanti costretti ad imbracciare le armi, donne rimaste vedove e buttate fuori da casa. Dopo qualche notte qui, chi può permetterselo si sposta in città e affitta un appartamento: prima della guerra, Marib aveva 40mila abitanti, oggi due milioni. Fra le aule dell’università, si ascoltano accenti di tutto il Paese: Sana’a, Taiz, Sada’a, Dhamar. Zone sotto il controllo degli Houthi da cui molti sono fuggiti per la relativa tranquillità di Marib. Ma la vera tranquillità in Yemen non esiste: gli Houthi si nascondono sulle montagne a pochi chilometri da qui e conducono attacchi sulla città o sull’unica strada che la collega a Sana’a. Eppure in teoria la linea del fronte corre a 100 chilometri da Marib, lungo le montagne alle spalle di Sana’a, ad appena 30 chilometri dai suoi minareti. Dalla cima del monte al Manara si vedono i villaggi alla periferia della capitale ed è facile immaginare il profilo di quella che era una delle città più magiche del mondo arabo, capace di rubare il cuore a Pier Paolo Pasolini e a tanti dopo di lui. Di quel sogno oggi resta poco: «Sana’a è una città fantasma – dice parlando da lì Radhya Al Mutawakel, presidentessa della Mwatana organization for human rights – I bombardamenti sauditi hanno colpito scuole, ospedali, case: qualunque cosa. E poi c’è la fame: il cibo viene usato come arma di guerra da entrambi i lati, la popolazione lasciata a morire. Dal 2015 abbiamo registrato circa 200 bombardamenti in cui civili sono stati feriti o uccisi: tutte le volte i sopravvissuti ci hanno chiesto perché erano stati colpiti, visto che non c’erano obiettivi militari vicino. Non abbiamo risposte: solo l’impressione che la coalizione a guida saudita si stia vendicando dei civili più che colpire gli Houthi». Vista dal campo, la guerra sembra a un punto morto: dopo aver ucciso l’ex presidente Ali Abdallah Saleh, ex alleato diventato nemico, a dicembre, gli Houthi hanno consolidato il potere a Sana’a, ma non sono riusciti a fare avanzamenti significativi. I sauditi e i loro alleati sono a un passo dalla capitale, ma non riescono ad andare avanti, bloccati dalla mancanza di una fanteria e – sostengono i loro generali – dalle severe regole di ingaggio adottate per ridurre il numero di vittime civili. Nel Sud, intorno ad Aden, infuria la battaglia fra gli uomini fedeli al presidente Hadi e le milizie sostenute dagli Emirati arabi uniti, alleati dei sauditi e quindi – in teoria – dello stesso Hadi. Nel vuoto, cercano di insinuarsi lo Stato islamico e Al Qaeda, che nello Yemen ha da sempre una delle sue basi più importanti. Il risultato sono tre guerre che si incrociano in una, e in cui nessuno sembra avere una soluzione: non Hadi, confinato a Riad. Non Mohammed Bin Salman, ministro della Difesa ed erede al trono saudita, che ha voluto l’offensiva in Yemen e su essa si gioca buona parte della credibilità internazionale. Non gli Houthi e il loro protettore iraniano, finora incapaci di essere un partner credibile per i negoziati. «I due lati di questo conflitto continuano a dare la colpa l’uno all’altro senza assumersi la responsabilità di ciò che hanno provocato – dice Kristine Beckerle, ricercatrice di Human Rights Watch – da entrambe le parti ci sono stati crimini gravissimi. Ma la coalizione a guida saudita è sostenuta dall’Occidente e i governi occidentali continuano a fornirgli armi: sono complici. E questo deve fermarsi». Difficile pensare che accada mentre la Casa Bianca stende il tappeto rosso ai piedi di MBS e Donald Trump enfatizza l’accordo per la vendita di 110 miliardi di “belle armi” (testuali parole) firmato a Riad nel maggio scorso. Sotto la tenda bianca però Khalid Saef non perde la speranza: «Tutti i miei figli vanno a scuola – dice con orgoglio – anche le femmine. Voglio che diventino dottori o insegnanti. Ci sarà bisogno di gente così quando la pace tornerà in Yemen». Se tornerà.

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