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La Repubblica Rassegna Stampa
12.01.2018 Iran: la voce dei dissidenti...
... e il commento ambiguo di Lucio Caracciolo

Testata: La Repubblica
Data: 12 gennaio 2018
Pagina: 12
Autore: Sasan Sedghinia, Moslem Mahdavi - Lucio Caracciolo
Titolo: «E' il momento della libertà per il nostro Paese oppresso - L'Occidente che si divide pure sull'Iran»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 12/01/2018, a pag.12, con il titolo "E' il momento della libertà per il nostro Paese oppresso", il l'intervento di Sasan Sedghinia, Moslem Mahdavi, esuli persiani; a pag. 31, con il titolo "L'Occidente che si divide pure sull'Iran", il commento di Lucio Caracciolo.

A destra: "Non ci piace avere prigioni in Iran... perciò li impicchiamo!"

Importante l'intervento degli esuli persiani all'estero, che denunciano i crimini del regime degli ayatollah e auspicano un intervento dell'Occidente per rovesciare la dittatura del clero sciita a Teheran. Pieno di distinguo, invece, il commento di Lucio Caracciolo: da una parte critica la posizione dell'Europa e dell'Iran, mettendo in dubbio il rispetto degli accordi di Vienna sul nucleare, dall'altra però critica anche la posizione di Donald Trump e degli Usa. Il problema per Caracciolo è la divisione all'interno del mondo occidentale, ma non sottolinea a sufficienza la situazione dei diritti umani calpestati in Iran, la corsa al nucleare e il sostegno del terrorismo internazionale. Potrà dispiacere ai 'criticoni sempre e comunque' del presidente americano, ma, oltre a Israele e i regimi sunniti della regione mediorientale, Trump è l'unico fra i capi di stato occidentali ad avere avuto il coraggio di dire la verità. Ci rendiamo conto che la parola "coraggio" non è di moda in un occidente votato al suicidio, ma le cose stanno così, piaccia o non piaccia.

Ecco gli articoli:

Sasan Sedghinia, Moslem Mahdavi: "E' il momento della libertà per il nostro Paese oppresso"

Immagine correlata
Una manifestazione a Roma di esuli persiani

Le proteste di questi giorni nascono dalle mobilitazioni contro il sistema di alcune banche fallite, le quali, per mesi e mesi, non hanno pagato neppure pensioni e stipendi ai pensionati e ai lavoratori che vivono sotto la soglia di povertà: la lotta, perciò è anche contro carovita e corruzione. Le proteste si sono diffuse a macchia d’olio in tutto l’Iran, e hanno oltrepassato le rivendicazioni economiche per individuare come bersaglio principale il regime della teocrazia islamica in vigore dal 1979. La lotta e gli slogan sono diretti tanto verso l’apparato militare e le forze di intelligence - incarnate dai Guardiani della Rivoluzione quanto contro le decisioni delle élite politiche sia in politica interna che in politica estera. Elemento centrale delle mobilitazioni è la loro completa spontaneità. Rispetto alle manifestazioni del 2009, quelle degli ultimi giorni sono di proporzioni maggiori, ma qualcosa in comune c’è: accanto ai giovani e a coloro che vivono sotto la soglia della povertà, ci sono anche le persone che erano in piazza allora, la classe media. L’esplosione di rabbia cui stiamo assistendo è il prodotto di due decenni di testardaggine governativa rispetto richieste della popolazione. Questa rivolta ha avuto un duplice effetto: da un lato ha fatto risuonare la campana della morte per la dittatura dei mullah, dall’altro dovrebbe rappresentare la possibilità per la nascita della democrazia, della giustizia e della sovranità popolare. Bisognerebbe accorgersi che anche in Iran la fame di libertà sta divorando il regime. Bisognerebbe accorgersi che il governo dei mullah non ha portato altro che inflazione, povertà e corruzione, oppressione, torture ed esecuzioni. Bisognerebbe accorgersi che mentre la maggioranza del popolo iraniano soffre, la maggior parte delle ricchezze del Paese è spesa o per la repressione e l’esportazione del terrorismo e della guerra, o negli apparati militari. Fino a che questo regime resterà al potere, le condizioni economiche e di vita del popolo peggioreranno. L’unica soluzione è la fine del regime teocratico. Gli autori di questo intervento sono due attivisti iraniani che vivono in esilio per le loro idee politiche

Lucio Caracciolo: "L'Occidente che si divide pure sull'Iran"


Lucio Caracciolo

C’era una volta l’Occidente. Categoria geopolitica e mediatica che ebbe il suo culmine durante la guerra fredda, ma che oggi appare un residuato bellico. Non c’è quasi crisi in cui i cosiddetti “occidentali” – la “famiglia euroatlantica” – non colgano l’opportunità di dividersi. Il caso più attuale è l’Iran. Washington distribuisce moniti e minacce al regime di Teheran, con la promessa che prima o poi l’accordo sul nucleare finirà nel cestino. E ogni volta che i “falchi” americani alzano tono e tiro, i loro omologhi europei prendono le distanze. O si chiudono in eloquente silenzio. La rivolta popolare che nelle ultime settimane ha scosso la Repubblica Islamica è stata l’ennesima occasione per misurare la diversità degli approcci. Mentre Trump e i suoi tifavano – e non troppo sotterraneamente operavano - per il rovesciamento del regime, le maggiori diplomazie europee, italiana inclusa, si schieravano con il governo del presidente Hassan Rohani. Se n’è avuta riprova ieri quando Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera europea (che non esiste, ovviamente, ma è d’uso fingere esista) ha convocato a Bruxelles il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e i suoi tre omologhi di Francia (Jean-Yves Le Drian), Regno Unito (Boris Johnson) e Germania (Sigmar Gabriel). Vertice al termine del quale lo scaltro Zarif, massimo architetto per parte iraniana dell’accordo 5+1, ha trionfalmente twittato: «Oggi forte consenso a Bruxelles: l’Iran conforme all’accordo sul nucleare; il popolo iraniano ha tutti i diritti sui propri dividendi». Con accenti variabili, la sostanza di queste affermazioni è confermata sia da Mogherini che dai ministri francese, britannico e tedesco. Salvo la postilla che esprime “preoccupazione” per lo sviluppo di missili balistici iraniani e l’invito a calmare le proprie pulsioni imperiali. Giacché da quando, per la gioia di Teheran, George W. Bush decise di liquidare l’ex alleato Saddam Hussein – arcinemico dell’Iran – fino al limitato quanto fallimentare impegno di Obama contro la Siria filoiraniana di al-Assad, Washington non ha fatto che asfaltare autostrade geopolitiche su cui corrono le ambizioni della Repubblica Islamica a determinarsi egemone regionale. Questo non significa che l’Iran possa dormire sonni tranquilli. Non sono certo gli europei che decideranno della sfida fra la Repubblica Islamica e gli Usa. Comunque, se un giorno o l’altro il regime andrà a gambe all’aria, ciò accadrà per l’esplodere delle sue mille contraddizioni domestiche. Giacché i moti di piazza, scoppiati per la frustrazione di non vedere l’ombra dei “dividendi della pace” evocati da Zarif, sono stati cavalcati da gruppi di pasdaran, basiji, hezbollah. Insomma, dai “difensori della rivoluzione” scatenati contro le derive riformatrici e moderniste. Lo stesso presidente Rohani si è lasciato sfuggire il sentimento delle élite moderate: «Il problema che abbiamo oggi è la distanza fra noi e i giovani. Noi vogliamo che i nostri nipoti vivano come noi abbiamo vissuto, ma non possiamo imporglielo». Verità evidente, cui i maggiori paesi europei e Stati Uniti reagiscono in modo opposto. I primi si preoccupano che Rohani non venga travolto dagli ultraconservatori. Perciò puntano su una svolta riformatrice. I secondi sperano che con Rohani crolli il regime e magari – perché no? – lo Stato iraniano. Vittime in entrambi i casi dell’illusione di poter decidere dall’esterno il futuro dell’Iran.

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