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La Repubblica Rassegna Stampa
16.12.2017 Klarsfeld, storia di una famiglia
Commento di Anais Ginori

Testata: La Repubblica
Data: 16 dicembre 2017
Pagina: 36
Autore: Anais Ginori
Titolo: «Continueremo a dare caccia ai nazisti, anche a quelli di oggi»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/12/2017, a pag.36, con il titolo "Continueremo a dare caccia ai nazisti, anche a quelli di oggi" la storia di Beate e Serge Klarsfeld, la famiglia francese da sempre citata come 'cacciatori di nazisti'. Una mostra importante, che segnaliamo a chi andrà a Parigi.

 «Volevamo ad andare a Teheran, purtroppo non abbiamo ottenuto il visto».dichiarano Serge e Beate. Come volevasi dimostrare, la dittatura iraniana lascia entrare solo gli 'amici'- come Gianni Vattimo-  non chi potrebbe testimoniarne in loco i crimini.

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Anais Ginori                                  Serge e Beate Klarsfeld

Serge e Beate Klarsfeld camminano mano nella mano nel Mémorial de la Shoah, in una stradina nel Marais, per illustrare Les combats de la mémoire, le battaglie della memoria. È così che s'intitola la mostra appena inaugurata nella quale si possono scoprire fotografie d'epoca, documenti ma anche cimeli della loro vita avventurosa. Chiavi d'albergo, lettere, travestimenti. Uno squarcio nell'intimità di una coppia unica, i più famosi "cacciatori di nazisti".

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Mémorial de la Shoah, Parigi

Si sono conosciuti sui binari della metropolitana all'inizio degli anni Sessanta. Lei tedesca venuta nella Ville Lumière per fare la ragazza alla pari. Lui ebreo francese sopravvissuto per miracolo a un rastrellamento. «Non abbiamo mai cercato vendetta, solo giustizia» ripetono con pudore a tutti quelli che parlano di "coraggio", "eroismo". Beate non è stata mossa dal senso di colpa. «Mi sono sempre detta: colpevole no, responsabile sì». Sui muri c'è la sequenza dello schiaffo di Beate al cancelliere Kiesenger nel 1968 al Bundestag. Il primo di tanti colpi eclatanti della loro militanza contro l'oblìo. Il cancelliere si era ritrovato con un occhio marrone. Lei non rinnega affatto quel gesto, anzi. «Serviva un choc. Dopo quello schiaffo, molti hanno finalmente aperto gli occhi sui tanti nazisti che c'erano in Parlamento, al governo». Poi aggiunge: «Era importante che quello schiaffo fosse dato da una donna tedesca non ebrea». Serge: «Beate voleva svegliare la Germania e riabilitarla agli occhi del mondo». Nella mostra ci sono i volantini del Sessantotto, in cui la coppia chiama a mobilitarsi per fare giustizia, mischiandosi fra i trotskisti. Beate ha tentato una breve carriera politica nell'estrema sinistra tedesca e poi una fugace candidatura alla presidenza federale con Die Linke nel 2012. Serge puntualizza: «Ma non abbiamo mai ragionato in termini ideologici o di schieramento politico». Ecco l'immagine del blitz a un comizio dell'estrema destra a Monaco. Inutile dire che non erano i benvenuti. «Eravamo soprattutto molto soli - aggiunge Beate - la comunità ebraica all'epoca era prudente, non voleva creare sconquassi». Diversi arresti, processi, due tentativi di omicidio, quattro espulsioni dalla Siria quando cercavano di stanare l'ex gerarca nazista Alois Brunner, mai catturato. Hanno subito ogni tipo di accusa. Serge: «In Francia ci consideravano agenti dell'Est, in Cecoslovacchia dicevano che eravamo pagati dalla Cia». Beate: «La nostra forza è venuta soprattutto dalla fortuna di essere una famiglia unita». Mostrano la foto dei figli Amo e Lidia, ormai grandi. La loro azione più famosa resta l'arresto di Klaus Barbie, l'ex capo della Gestapo di Lione nascosto in Bolivia. I Klarsfeld hanno lavorato per anni alla ricerca del nazista latitante. Alla fine sono andati a prenderlo con lo scrittore Régis Debray, già guerrigliero al fianco di Che Guevara e con una fitta rete di conoscenze in America Latina. «Regis ci ha anche aiutato a convincere Mitterrand» ricorda Beate. L'ex Presidente socialista aveva la sua parte d'ombra e compromissione con il regime di Vichy. Per convincerlo, i Klarsfeld avevano mostrato all'Eliseo un telex nel quale Barbie annunciava di aver arrestato e deportato quarantaquattro bambini. Poi ci fu la pressione su Jacques Chirac, che portò al famoso discorso del 1995 nella quale il presidente riconosceva la responsabilità della Francia nelle deportazioni. Il Memoriale sulla Shoah di Parigi custodisce tutti gli archivi di quel Centre de Documentation Juive Contemporaine costituito durante la guerra in clandestinità per mettere al sicuro le prove delle persecuzioni degli ebrei. I Klarsfeld non hanno mai smesso di cercare tra i faldoni. È grazie a questo archivio che hanno potuto denunciare il ruolo dei gerarchi nazisti Kurt Lischka e Herbert Hagen, fino a farli processare. Ed è nel centro di documentazione parigino, servito anche al processo di Norimberga, che il giovane Serge Klarsfeld aveva potuto ricostruire il viaggio di suo padre Arno dal campo di Drancy ad Auschwitz. Ricorda la prima volta che è arrivato a Birkenau. «Non c'erano ancora i turisti. Ero solo, è lì che ho sentito la vocazione». Un dovere. «Siamo una generazione eccezionale due volte, perché siamo sopravvissuti ai campi e perché abbiamo visto nascere Israele». Serge è partito volontario per la guerra di Sei Giorni. I Klarsfeld hanno preso la cittadinanza israeliana ma non hanno mai pensato di trasferirsi, come alcuni ebrei francesi hanno fatto negli ultimi anni. «Se avesse vinto Marine Le Pen allora sì, saremmo partiti». Durante la campagna elettorale, la coppia ha comprato pagine sui giornali per chiedere alla sinistra di votare Emmanuel Macron contro il Front National. Il pericolo è scampato, eppure si parla di un nuovo antisemitismo, di una banalizzazione dell'odio contro gli ebrei. «I ragazzi si devono impegnare, come abbiamo fatto noi» dice Serge che resta, malgrado tutto, ottimista. Il negazionismo? «Oggi gli archivi ci sono, non è come qualche anno fa. Si tratta di far vivere e trasmettere la Memoria». La Francia è ancora una terra accogliente per gli ebrei? «Non dimentichiamo che questo Paese ha tentato di salvare due terzi degli ebrei». A ottantadue e settantotto anni, Serge e Beate Klarsfeld non pensano di fermarsi. Girano nelle scuole per testimoniare, sono ambasciatori dell'Unesco, hanno fatto tradurre Primo Levi in arabo. Il prossimo viaggio? «Volevamo ad andare a Teheran, purtroppo non abbiamo ottenuto il visto».

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