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La Repubblica Rassegna Stampa
27.03.2017 'In Between': un film che si poteva girare solo in Israele
Recensione di Natalia Aspesi

Testata: La Repubblica
Data: 27 marzo 2017
Pagina: 30
Autore: Natalia Aspesi
Titolo: «In Between: tra quelle donne che sognano un mondo senza radicalismo»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/03/2017, a pag. 30, con il titolo "In Between: tra quelle donne che sognano un mondo senza radicalismo", la recensione di Natalia Aspesi.

Non abbiamo ancora visto il film, che verrà distribuito dal 29 marzo. La recensione di Natalia Aspesi è colta e intelligente.  La vicenda del film è ambientata in Israele, un Paese dove ebrei, musulmani e cristiani vivono insieme naturalmente e senza discriminazioni. Una vicenda analoga sarebbe impossibile in un Paese arabo musulmano, in cui invece esistono sia leggi sia prassi altamente discriminatorie, quando non apertamente persecutorie. E, soprattutto, in molti, judenrein.

Ecco l'articolo:

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Natalia Aspesi

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La locandina

Se il luogo fosse in talia o in Francia, la regista e gli interpreti italiani o francesi, il film sarebbe una piacevole commedia come tante. Ma In between, nei nostri cinema col titolo antipatico Libere, disubbidienti e innamorate, si svolge a Tel Aviv, nella comunità arabo israeliana, quasi ventimila persone su più di un milione di abitanti: ambiente borghese di origine palestinese e di religione musulmana (ma anche arabo cristiana e drusa), tra laicità e tradizione. Forse per molti di noi Islam vuole dire donne chiuse nella hiyab o sepolte nel burka, migranti da respingere, vittime di Boko Haram, muri per isolare la Palestina, e soprattutto terrorismo ovunque. Per questo, oltre che per la grazia della sue interpreti e la bellezza dei suoi giovani maschi (breve barba nera molto di moda anche da noi, occhi azzurri), questo film è molto interessante, rivelandoci un mondo sconosciuto, almeno a me ma credo anche a molti, che non è tanto diverso da quello di Sex and the city, ambientato a New York, serie ormai vecchia di quasi vent’anni e di cui si sta girando il terzo film.

L’autrice di questo suo primo lungometraggio di produzione franco israeliana, è Maysaloun Hamoud, 37 anni, nata a Budapest e cresciuta a Dur Hana, un villaggio in Israele, con un padre comunista e innamorato della poesia araba. Il film è già carico di premi, conquistati ai festival di Toronto e di San Sebastian: all’anteprima romana il 29 marzo, al cinema Quattro Fontane, ci saranno la regista e delle tre protagoniste, Mouna Hawa, presentate dalla presidente della Fondazione Cinema per Roma Piera Detassis. Laila (Mouna Hawa), è una bella donna dall’immensa chioma crespa, di professione avvocata della difesa al tribunale della capitale, Salma (Sana Jammelieh) è una ragazza malinconica dai lunghi capelli lisci che lavora nella cucina di un ristorante e vorrebbe fare il dj. Le due donne vivono nello stesso appartamento, e le raggiunge Nour (Shaden Kamboura), che viene da una famiglia e da un paesino molto osservanti, è giovane, graziosa e grassoccia sotto il rigido abito che la cancella, e ha folti e lunghi capelli neri che però nasconde sotto la niqab, la sciarpa che le avvolge in modo complicato la testa: studia all’università, è sempre attaccata al pc, immagina un futuro professionale. Laila e Salma fanno parte di una nuova cultura underground palestinese, nata più o meno dalla seconda Intifada nel 2000 e dice la regista, sempre più diffusa nel mondo arabo, che rifiuta guerre e terrorismo e vuole liberarsi da ogni oppressione patriarcale, dai codici tradizionali religiosi.

Con i loro amici, le due amiche passano le sere ballando, fumano marijuana come tutti e non rifiutano ogni tanto la cocaina, si vestono arditamente, non saprebbero neppure come velarsi alla musulmana. Ma desiderare la libertà e cercare di viverla non è così semplice, come del resto non lo è per tante donne ovunque. In fondo le tre giovani donne vogliono anche l’amore, ma non solo per loro musulmane, non è così facile. Gli uomini, come li racconta Maysaloun, apparentemente moderni e paritari in una società come quella laica di Israele, ebraica o musulmana, nascondono dietro la loro ipocrisia un maschilismo ancestrale anche religioso, di cui anche noi occidentali conserviamo non poche tracce. La seducente e agguerrita Laila non si fa illusioni, e ha imparato a difendersi, a controllare i suoi desideri e i suoi sentimenti; lei sa che il collega ebreo che la corteggia non la presenterà mai alla sua famiglia sia pure molto aperta; lei sa che il bel regista musulmano per niente osservante, che ama e l’ama, non accetterà mai di sposare una donna che si veste come vuole, che fuma, che pretende di non adeguarsi ai lacci della tradizione femminile e vuole essere se stessa; lei sa che Salma ha il diritto di non sottomettersi alla famiglia (arabo cristiana), di rifiutare matrimoni combinati e seguire le sue inclinazioni d’amore verso un’altra giovane donna; lei sa che l’innocente Nour va aiutata a liberarsi dal fidanzato che ringrazia continuamente Allah, che una volta sposati le impedirà qualsiasi autonomia, e che si rivela un mascalzone.

Tra le tre giovani donne resta l’amicizia, resta la dignità, la complicità, nessun pensiero che forse era meglio sottomettersi per non restare isolate: l’uomo moderno ma non troppo che lei lascia le dice, “ma davvero credi che qui per noi le cose cambieranno? Non succederà mai”. Ma la momentanea solitudine che le amiche affrontano insieme una notte sul balcone, passandosi una sigaretta, bevendo una birra, consente loro sentirsi sicure che il futuro che sognano ci sarà.

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