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La Repubblica Rassegna Stampa
08.10.2015 Ravensbrück: il cielo sopra l'inferno
Wlodek Goldkorn recensisce il libro di Sarah Helm

Testata: La Repubblica
Data: 08 ottobre 2015
Pagina: 50
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «C'era una volta a Ravensbrück il lager delle donne»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 08/10/2015, a pag. 50-51, con il titolo "C'era una volta a Ravensbrück il lager delle donne", la recensione di Wlodek Goldkorn.

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Wlodek Goldkorn

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Donne internate a Ravensbrück

La prima donna uccisa a Ravensbrück era una zingara (così veniva definita nei documenti ufficiali) costretta in una camicia di forza in un bunker per malati di mente: la donna era impazzita quando le strapparono dal seno il bimbo di sei mesi. “Il cielo sopra l’inferno” di Sarah Helm, in uscita con Newton Compton, racconta, per oltre 700 pagine, una vicenda che finora non ha avuto molta eco nella pur ricchissima storiografia dei campi di concentramento e dello sterminio. Helm, giornalista inglese, ha deciso di narrare la realtà di Ravensbrück, l’unico lager nazista, destinato a sole donne. Una storia dunque di genere, ma anche di persone concrete.

A Ravensbrück erano state imprigionate donne importanti per i nazisti: la sorella del sindaco di New York Fiorello La Guardia, una nipote del generale De Gaulle, contesse polacche con legami con l’aristocrazia di mezza Europa, tutte eventuali merci di scambio, ma anche donne fondamentali per la storia del secolo scorso: Milena Jesenská e Margarete Buber- Neumann, per citarne due. Jesenská è nota come “la fidanzata di Kafka”, una definizione riduttiva, visto che si trattava di una delle più importanti intellettuali ceche ed europee, giornalista e scrittrice, militante della sinistra (lasciò il Partito comunista nel 1937) e si legga il suo In cerca della terra di nessuno , pubblicato da Castelvecchi. Buber- Neumann a sua volta è stata anche lei un’intellettuale e scrittrice, a Ravensbrück arrivò, quando nel febbraio 1940 Stalin in un gesto di amicizia che confermava la sua alleanza con Hitler, consegnò ai nazisti un gruppo di comunisti tedeschi rifugiati in Urss e nel frattempo finiti in un Gulag. Buber- Neumann, dalla sua esperienza trasse uno stupendo e istruttivo libro Prigioniera di Stalin e Hitler , edito da il Mulino e un altro, pure quello bellissimo, Milena , uscito con Adelphi, dedicato alla sua amica del lager.


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La copertina

La forza e l’eccezionalità del lavoro di Helm sta nell’aver saputo raccontare la storia di Ravensbrück, partendo dai dettagli della vita quotidiana e ricostruendo le biografie delle prigioniere, delle guardie, dei medici del campo; tutto questo senza omettere il contesto storico della sua narrazione. Ravensbrück dunque è una specie di buco nero della storiografia, sostiene l’autrice (e un po’ esagera), perché è un lager che poco ci può raccontare della Shoah, dello sterminio degli ebrei, oggetto invece di ricerche, commemorazioni, discussioni. Infatti, il campo di concentramento istituito a una ottantina di chilometri a nord da Berlino nel maggio 1939, era destinato all’internamento, in condizioni durissime (la natura del campi di concentramento sta nel loro essere luoghi in cui la legge è sospesa) di donne testimoni di Geova, che consideravano Hitler l’anti-Cristo e delle cosiddette “ asociali”: prostitute, indigenti, rom e sinti.

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L'autrice Sarah Helm

Le ebree rinchiuse erano poche, circa il 10 per cento. All’apice del suo funzionamento, il campo era popolato da 45 mila detenute; in tutto vi sono passate 130 mila donne; il numero delle vittime è difficile da stabilire e viene stimato tra le 30 e le 90 mila persone. Niente in paragone con le fabbriche della morte di Auschwitz- Birkenau o di Treblinka. E poi, dice Helm, la storia delle sole donne, con episodi di lesbismo, cui l’autrice accenna, non interessa. Ecco perché se ne parlava poco. In questi ultimi settant’anni è stato stabilito un canone estetico della narrazione dei lager; è un modo di raccontare da forti sfumature pedagogiche, di stampo illuminista che evita, per paura di kitsch e pornografia, di parlare dell’ordinario ma al contempo patologico sadismo dei carnefici; come se si volesse evitare l’estrema e perversa attrazione per il Male. Helm rompe anche questo tabù. Lo fa con misura, tatto ma senza risparmiare al lettore i fatti; scrive insomma come una giornalista vera e provetta. Un episodio: una bambina zingara non si sveglia all’ora dell’appello mattutino (alle cin- que cioè); una SS la preleva dalla branda, la tiene per i capelli, come si tiene per la coda un ratto schifoso, e la annega in un laghetto, accanto. Moltissimo spazio è dedicato all’uso dei corpi delle detenute.

Le donne sono costrette in continuazione a spogliarsi davanti agli uomini in divisa, che le umiliano, deridono. Ma la parte più dura del libro è il racconto delle prigioniere usate come cavie per gli esperimenti effettuati dai medici del campo. Sono pagine di difficile lettura, ma indispensabili, nell’economia del racconto. E in proposito occorre un’annotazione filologica. Le donne oggetto delle sperimentazioni (si voleva capire come guarire le fratture alle gambe, le cancrene e simili), vengono chiamate dall’autrice “conigli”, così anche nell’originale inglese. In realtà erano cavie, e l’equivoco è dovuto al fatto che in polacco, la dizione “coniglio da laboratorio” sta per cavia; le donne oggetto erano quasi tutte polacche. Si diceva che il campo fosse istituito per le “asociali”. E anche questo era un problema nella commemorazione delle vittime a guerra conclusa. Come si fa a parlare bene delle prostitute? Come si fa a raccontare il loro eroismo quotidiano, in una società che contempla solo l’eroismo maschile, e per lo più asessuato, oppure un sacrificio femminile, ma da donne verginali, simili all’icona di una Madonna?

L’autrice del libro invece cita esempi di ragazze di vita, reduci di bordelli ed esperte in pratiche sessuali strane, che seppero essere solidali, talvolta eroiche, nonostante fossero guardate male dalle prigioniere politiche, per lo più comuniste. E, parlando delle comuniste, Helm racconta quanto Buber- Neumann e Jesenská venivano ostracizzate, perché eretiche e nemiche di Stalin, ma anche che fine fecero le donne dell’Armata Rossa. Ce n’erano molte, di soldatesse russe, prigioniere a Ravensbrück; alcune con funzioni di sorveglianza che venivano assegnate alle detenute ( la zona grigia è un altro aspetto narrato bene nel libro). Nel lager hanno tenuto un comportamento più che dignitoso; un giorno inscenarono addirittura una specie di parata militare. Tornate in Urss, vennero spedite nei gulag, in quanto collaboratrici dei fascisti. La loro guida morale e politica, Yevgeniya Klemm, si impiccò.

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