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La Repubblica Rassegna Stampa
04.10.2015 Tutto Bernard-Henry Lévy
Intervistato da Giuseppe Videtti

Testata: La Repubblica
Data: 04 ottobre 2015
Pagina: 46
Autore: Giuseppe Videtti
Titolo: «Bernard-Henry Lévy»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 04/10/2015, a pag.46, con il titolo "Bernard-Henry Lévy" l'intervista di Giuseppe Videtti.

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Bernard-Henry Lévy                                         Giuseppe Videtti

Napoleone postmoderno,torvo, pensoso, scarmigliato, abito nero con pantaloni da torero, la nuca incoronata dal collo altissimo della camicia bianca abbondantemente sbottonata per rivelare un’abbronzatura caraibica, una nuvola di Habit Rouge, Bernard- Henry Lévy, BHL per cultori e detrattori, ostenta eleganza da sera anche alle tre del pomeriggio. Altezzoso per definizione. Aggressivo di natura, poi per necessità. Umile mai, neanche nella sua onorevole carriera di tombeur des femmes (l’ultima delle tre mogli, Arielle Dombasle, sfinita femme fatale del cinema francese, arriva con un set di valigie di Vuitton che neanche la Dietrich). Filosofo, giornalista, imprenditore, saggista, troppo colto e distaccato per star lì a chiedersi il perché di tanto odio e amore. O per concedersi alla fiera delle vanità. Ma che gli piaccia o no a sessantasei anni suonati è ancora un’icona di stile. Sempre nella lista degli uomini meglio vestiti del mondo (nonostante quel paio di bottoni assassini che non ne vogliono sapere di restare ancorati alle asole; un particolare più da Califano che da Bryan Ferry). «Me ne fotto, onestamente me ne fotto. Il mio non è un look, il look è calcolato, io mi vesto senza pensarci», sbuffa. Mente, ovvio. «È chic naturale», gli fa eco Gilles Hertzog, fascinoso amico-ombra da trentacinque anni, compagnon d’avventure e spericolati reportage. «È da mio padre che ereditato l’amore per l’essenziale, l’eleganza. E poi Je suis comme je suis », borbotta. BHL è nervoso, concentrato, ma non tradisce fragilità neanche di fronte alla prova d’attore nella quale si cimenta da pochi mesi. «È un momento importante della mia vita perché ho partecipato a uno dei più bei festival del mondo, Spoleto ha fatto conoscere alcuni dei testi più importanti del teatro contemporaneo. È un grande onore per me aver presentato qui il mio Hotel Europa », dice ora che è entrato, come Bob Wilson e Baryshnikov, nella cerchia degli amici di Spoleto, tessendo lodi a Giorgio Ferrara, che continua in questi anni della cultura in ristrettezze la gloriosa tradizione di Gian Carlo Menotti (e si fa in quattro per scovare nella provincia umbra una dimora all’altezza del Carlyle, il lussuoso albergo di Manhattan dove BHL è un habitué). Hotel Europa è il monologo che recita con una verve che neanche un urlatore televisivo come Sgarbi riuscirebbe a interpretare con la stessa spavalda abilità teatrale, memoir di una notte di vent’anni fa a Sarajevo e riflessione polemica sul fallimento delle politiche europee. «Il palcoscenico è la situazione più pericolosa in cui mi sia mai trovato. L’ansia comincia ad assalirmi il giorno prima. Non mi succede certo quando devo tenere una conferenza o un meeting politico o parlare sulla Haydn Platz di Vienna o sulla Maidan di Kiev davanti a centinaia di migliaia di persone». Sono anni che lo va predicando: il Vecchio continente trovi un’unità politica. E insiste: «Il dramma è che neanche ci prova. Questa pièce è un grido d’allarme: senza l’unità politica finiremo sconfitti da tre imperi, quello commerciale cinese, quello politico euroasiatico con a capo Putin e quello folle dell’Is. Questo testo non è solo un grido d’allarme ma una tattica, una strategia di lotta». Il suo pensiero può anche essere opinabile, ma BHL non polemizza dai salotti, che pure non disdegna. Quando è tempo d’investigare è lì in prima linea, anche e soprattutto nei frangenti critici e pericolosi; in Bangladesh, in Pakistan, in Libia e più recentemente a Kobane, in una situazione da panico. «Panico non è la parola giusta», protesta, «anche se ho certamente avuto paura. Sarei un incosciente se non fossi consapevole dei rischi, come nel 1992 a tiro degli sniper serbi, o in Pakistan nel 2002 a stretto contatto coi talebani, o nel 2011 tra i ribelli di Bengasi. Ma la paura non m’impedisce di agire. Chi assiste al terrore ha il dovere di testimoniarlo». Il nuovo totalitarismo, come lo chiama, e il crescente sentimento antisemita in Francia potrebbe trasformarlo in un facile bersaglio. «Ci sono ormai attentati dell’Is ogni giorno, il pericolo è ovunque, per tutti», minimizza. «Tutti siamo minacciati, non io in particolare. È un asse che lavora contro la democrazia, un tentativo di creare panico, seminare terrore, destabilizzare le istituzioni, spingere i governi a prendere misure antidemocratiche. Poi ognuno agisca secondo coscienza. Posso immaginare un filosofo che voglia fare della filosofia pura, uno scrittore che decida di vivere recluso in biblioteca. Non voglio impartire lezioni a nessuno, ma io sono un filosofo impegnato ». Critiche, minacce, polemiche, come quando ha difeso a spada tratta Strauss-Kahn arrestato a New York per violenza sessuale o quando si è ripetutamente scagliato contro la comunità internazionale per non aver agito contro i genocidi. «Le critiche? Per me la vera critica nasce dal dibattito intellettuale, produce anticorpi, rafforza le idee, fuori e dentro di me. Le critiche superficiali non hanno importanza, non mi indeboliscono né mi rafforzano, non contano, le dimentico subito, continuo il mio lavoro». Difficile indagare sul privato, le passioni, le temps perdu . «Non ho memoria di quel che volevo fare da ragazzo», taglia corto guardando altrove, «non saprei… probabilmente qualcosa che assomiglia a quel che faccio oggi. Di sicuro leggevo molto, moltissimo. Ho imparato a vivere dai libri. Sono stati la mia prima e seconda scuola, come la vita, la realtà e la lotta sono state la terza». Idoli ne aveva da ragazzo? «Tutto questo è molto lontano e confuso. Quel che ero allora non sono più io, non ho ricordi vividi di quel periodo. Le persone che davvero ammiravo erano i grandi avventurieri, Cristoforo Colombo, Lawrence d’Arabia, Albert Schweitzer, chi ha fatto della sua vita qualcosa di totalmente diverso da quello per cui sembrava destinato ». Ricorda invece con esattezza il momento in cui decise che sarebbe diventato un combattente di parole. In Bangladesh, nel 1971, uno dei pochissimi stranieri al seguito di una colonia di guerriglieri contro il Pakistan. «Assistetti a scene orribili, e decisi di consacrare un po’ del mio tempo e della mia vita a raccontare quella inclinazione alla violenza e alla sopraffazione che è insita nella natura umana», mormora. «Lì compresi che la forza di cui avevo bisogno per affrontare quelle situazioni mi arriva dai personaggi che m’ispirano, desaparecidos , grandi scrittori, grandi giornalisti, grandi resistenti, uomini che si sono battuti per la libertà. Grazie a loro la scrittura è diventata un momento di esaltazione, esco da me stesso e entro in uno stato d’assenza, di grande godimento spirituale, di profonda gioia interiore». Tutto il resto è futile. Musica? Cinema? Non lo interessano. «Suonavo il pianoforte e ho ascoltato molta musica da bambino e da adolescente, ma poi un bel giorno ho incominciato a scrivere e il lavoro sulle parole ha letteralmente rimpiazzato il lavoro sulle note e non ho più ascoltato musica. Così, naturalmente, da un giorno all’altro». Ne ha per tutti. Per l’Italia dove «gli intellettuali sono finiti nelle catacombe durante i vent’anni di Berlusconi» e per Renzi che cita Dante, Goethe, Vaclav Havel e poi fa inciuci: «Cosa vuol fare? Dove sta andando?». Per il dopo Charlie Hebdo : «Bisogna restare Charlie . È facile dire Je suis Charlie sull’onda dell’emozione, bellissima, magnifica solidarietà, ma ora al di là dello slogan chi è pronto a dire “ Io resto Charlie ?” ». Per gli strateghi del terrore: «Questi signori sono deboli, l’Europa e le democrazie sono molto più forti. L’Italia ricordi gli anni di piombo, quando tremava sulle sue fondamenta, la loggia P2, i fascisti, un partito comunista in ascesa, eppure avete vinto, la società civile ha vinto, i giudici hanno vinto, la polizia ha vinto, gli studenti hanno vinto, i politici hanno vinto. Io non ho paura, noi non dobbiamo avere paura».

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