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La Repubblica Rassegna Stampa
01.09.2015 Raccontare Auschwitz, una mostra a Cracovia
Cronaca e commenti di Wlodek Goldkorn

Testata: La Repubblica
Data: 01 settembre 2015
Pagina: 40
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «Ma l'arte può davvero raccontare Auschwitz ?»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 01/09/2015, a pag.40, con il titolo " Ma l'arte può davvero raccontare Auschwitz ? " l'articolo di Wlodek Goldkorn.

Molto interessante il pezzo di Goldkorn, da leggere e condividere nella cronaca e nei commenti. Si rimane però doppiamente sbalorditidi fronte alla parola che chiude l'articolo: Guantanamo.

Un'immagine della mostra
in basso: Wlodek Goldkorn

 

 Ma l’arte può davvero raccontare Auschwitz? come possono gli artisti, affrontare un tema del genere, in un momento in cui, a settant’anni dall’apertura dei cancelli del Lager nella Slesia (e dalla scoperta dei campi della morte dove i sopravvissuti erano pochissimi perché i deportati venivano condotti direttamente nelle camere a gas), stanno per mancare i testimoni diretti? Una fondamentale mostra al Mocak, il Museo dell’arte contemporanea a Cracovia, intitolata Polonia- Israele-Germania. L’esperienza di Auschwitz oggi tenta di dare una possibile risposta a queste domande, tra polemiche e inevitabili proteste. Nella mostra, curata da Delfina Jalowik e Jürgen Kaumkötter, storico tra i più interessanti dell’arte dell’Olocausto sono state radunate opere di una ventina di artisti prodotte negli ultimi vent’anni. Il punto di partenza è radicale e di per sé controverso: Auschwitz, intesa come ex Lager ha oggi una duplice natura, luogo della memoria, teatro di celebrazioni ufficiali e gite scolastiche, ma anche parte di un circuito turistico commerciale e una specie di “Disneyland dell’orrore”. E basti vedere i manifesti delle agenzie di viaggio di Cracovia per accorgersene. Ecco quindi che al centro di una grande sala e che ricorda l’interno di una fabbrica (il museo si trova sul terreno della ex fabbrica di Schindler), si vede una dozzina di paia di scarpe, forgiate nel bronzo, “perché di bronzo sono fatti i monumenti” è scritto nella didascalia, disposte in un cerchio. Ma a contrastare il bronzo e la monumentalizzazione della morte, sono le normali stringhe che legano le scarpe, per ricordare che si trattava di esseri umani, di nostri nonni e nostre zie e non di eroi mitologici caduti in un’epoca remota. L’opera è intitolata Oh, miei amici, non ci sono amici , ed è stata realizzata da Sigalit Landau. Landau, a sua volta, è allieva di Yehuda Bacon, padre ideale di tutti gli artisti che affrontano l’Olocausto ed ex prigioniero di Auschwitz. In un’altra saletta, in un video registrato, con il sorriso ironico che illumina i suoi occhi verdi, Bacon spiega in un impeccabile tedesco, che «nonostante Adorno, dopo Auschwitz, abbiamo continuato a far arte e poesia». Ma torniamo nella sala principale. Volgendo lo sguardo a sinistra dalla sofisticata elaborazione di lutto della Landau, c’è un video delle dimensioni di una gigantografia. Vi si vede, al rallentatore una limousine nera, con vetri oscurati, con una dozzina di guardie del corpo, attorno. Al primo sguardo potrebbe essere un’auto di un mafioso russo o di un capo dello Stato, ma il luogo è Auschwitz e l’automobile è di papa Ratzinger. L’autore, Miroslaw Balka, dimostra come l’ex Lager sia diventato un posto di cupa esibizione del potere, ma anche come l’esibizione del potere sia legata alla paura del terrorismo. E paradosso massimo: in un luogo dove morirono oltre un milione di persone per mano di tedeschi, si ha paura per la vita di un potente tedesco. Auschwitz non è immaginabile e le opere realistiche che cercano di riprodurla sono per lo più dei fallimenti, perché la loro simbolica e semantica non è adeguata alla dimensione dell’orrore. È questa la tesi del curatore Kaumkötter. Ecco perché non ci rimane che immaginare l’indicibile. È quanto tenta di fare, nell’opera più controversa mai concepita sul tema, Artur Zmijewski. Dietro una parete di carton gesso, e con l’avvertenza che si tratta di immagini che possono urtare la sensibilità dello spettatore, ecco il video Berek . In una cantina, tre uomini e tre donne nudi si rincorrono per acchiappare l’un l’altro. All’inizio i loro movimenti sono lenti e giocosi, ma man mano che si procede si fanno sempre più violenti e tragici. A un certo punto siamo in una vera camera a gas, sigillata. I perfomer sono quattro, tutti maschi e il gioco è violentissimo e rapidissimo. Il tocco della mano sulla natica o sulla spalla nuda, equivale a una condanna a morte. Appena viene esibito, Berek (è del 1999) provoca proteste, spesso viene ritirato dalle mostre. Si possono profanare le camere a gas? Intanto, diciamolo, le camere a gas sono stati strumenti della morte, non luoghi da venerare; per gli ebrei il martirio non equivale alla santità. E sicuramente sono luoghi che sfuggono a ogni tentativo di categorizzazione di stampo metafisico. Jerzy Halbersztadt, storico dell’arte con una lunga esperienza al Museo dell’Olocausto a Washington dice: «Si pensi alle foto delle donne ebree svestite, un attimo prima di essere fucilate, esibite in vari musei della Shoah. Quelle foto riproducono lo sguardo dei nazisti. Il loro intento è togliere la dignità alle vittime, ma passano per la “verità storica”. E allora, meglio l’immaginazione estrema di Zmijewski». Interpellato, Zmijewski commenta: «Penso che non bastano gli storici per raccontare Auschwitz, occorrono anche gli artisti. Magari in dialogo gli uni con gli altri». Riassume la direttrice del museo Maria Potocka: «Compito dell’arte è mettere in questione ogni stanco paradigma, compreso il paradigma del discorso sulla Shoah». Si esce dal box maledetto e si guarda il catartico video di Jane Korman Dancing Auschwitz . L’artista ha portato suo padre, reduce del Lager e i tre figli nei luoghi della morte. La famiglia, tre generazioni di ebrei, con il papà che indossa davanti a un forno crematorio la maglietta con la scritta “Survivor”, ballano al ritmo della canzone I will survive di Gloria Gaynor. Può sembrare violazione di ogni tabù, ma è un inno alla vita, all’avvenire: l’oblio, ma non perdono, come strumento indispensabile della memoria. In un angolo, alla fine della mostra un foglio bianco, con la scritta: “Non ho mai fatto un’opera sull’Olocausto”, firmato Oskar Dawicki. Come dire: si può fare un discorso attorno ad Auschwitz, non su Auschwitz. E non è arrendersi, ma prendere coscienza. Si esce dalla mostra e in un sala accanto ci si imbatte in un’opera che riproduce la gabbia di un detenuto di Guantanamo.

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