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La Repubblica Rassegna Stampa
29.09.2014 Nelle mani di John il boia
Commento di Carlo Bonini

Testata: La Repubblica
Data: 29 settembre 2014
Pagina: 15
Autore: Carlo Bonini
Titolo: «Torture e crocifissioni nelle celle jihadiste: 'Anche un'americana e un russo prigionieri'»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 29/09/2014, a pag. 15, con il titolo "Torture e crocifissioni nelle celle jihadiste: 'Anche un'americana e un russo prigionieri' ", il commento di Carlo Bonini.



Carlo Bonini

John "il boia" nel video in cui decapita il giornalista americano James Foley

C’è un
 capitolo ancora da scrivere dell’orrore scavato da “John il boia” e i suoi
 “Beatles” nella coscienza dell’Occidente. Di cui non esistono riprese video (almeno per quel che se ne sa), ma che è impresso nel ricordo di chi ha avuto la fortuna di essere risparmiato un istante prima di essere avviato al mattatoio. Nei “debriefing” cui i Servizi alleati hanno sottoposto nella primavera scorsa, al momento della loro liberazione, quattro ostaggi francesi (Didier Francois, Edouard Elias, Nicolas Henin, Pierre Torres), due spagnoli (Javier Espinosa, Ricardo Garcia Vilanova) e il nostro Federico Motka, si scopre infatti — come riferiscono due diverse qualificate fonti dei nostri apparati di sicurezza — che le mani dell’Is si sono macchiate nei mesi scorsi anche del sangue di un ostaggio russo, del cui sequestro e scomparsa nulla si sapeva. E ancora: che nelle celle di John sono transitate diverse donne. «Una almeno americana. O comunque dall’accento americano ».
Di Johnny e della sua banda di assassini, Scotland Yard e l’MI5 conoscono ormai con ragionevole certezza l’identità da diverse settimane. A cominciare dall’ex rapper ventitreenne Abdel Mayed Abdel Bary, partito dal Regno Unito per la Siria nel luglio del 2013 e cresciuto a West London. «Lo stesso quartiere — aggiunge una fonte della nostra Intelligence — da cui si sono mossi almeno una parte degli uomini della sua banda». «Una decina di elementi in tutto — prosegue la fonte — che, nell’arco di nemmeno due anni, hanno avuto nelle mani almeno 40 ostaggi occidentali e a cui, nel tempo, si sono andati aggregando foreign fighters di cittadinanza francese e anche spagnola». Non è un caso, del resto, che del gruppo facesse parte il francese Mhedi Nemmouche (autore della strage al museo ebraico di Bruxelles e, una volta arrestato, riconosciuto come suo carceriere da Nicolas Henin). Né è un caso che nei ricordi di tutti gli ostaggi, quelle tre lingue europee vengano descritte come parlate «con buona proprietà». Sia durante le paranoiche sessioni di interrogatori individuali alla ricerca di indizi che consentano di battezzare o meno un prigioniero come spia. Sia nell’analisi altrettanto ossessiva dei file delle memorie dei computer portatili sequestrati alle vittime catturate. Sia nella predisposizione dei testi da inviare come prova dell’esistenza in vita durante le trattative per il rilascio dei prigionieri.
Sono poliglotti i macellai di John. Come può e sa esserlo solo chi in Occidente è cresciuto. E sadici. Come sa e può esserlo con un occidentale solo chi è cresciuto in Occidente e dunque ne conosce le paure più recondite. Nei protocolli dei carcerieri — così come ricostruiti dagli ex ostaggi nelle loro testimonianze rese ai Servizi alleati — accade così che le torture abbiano cadenza quotidiana e si consumino regolarmente per l’intera notte. In stanze attigue a quelle dove gli altri prigionieri dovrebbero prendere sonno e dove, al contrario, vengono lasciati in compagnia delle urla strazianti di chi, tra loro, è stato sorteggiato per i tormenti. Un’Arancia Meccanica più che una tortura rituale. Pensata per lasciare tracce indelebili nella psiche del prigioniero e insieme appagare la fantasia disturbata dei suoi carnefici. In una ferocia che se da un lato deve evocare nella vittima l’idea del contrappasso per le colpe di Guantanamo (gli ostaggi inglesi e americani sono stati regolarmente sottoposti al waterboarding, l’annegamento simulato), dall’altro è semplice furia sadica. Crocifissioni, pestaggi sistematici agli arti, elettrificazioni, finte esecuzioni. Inflitte talvolta dietro il travisamento di una kefiah. Spesso a volto scoperto.
Un inferno che ha appunto attraversato anche il nostro Federico Motka, insieme all’amico e collega di lavoro David Haines, l’ostaggio inglese che con lui viaggiava al momento della cattura e che era responsabile della sua sicurezza. I due hanno trascorso insieme l’intera prigionia e insieme sono stati trasferiti dall’una all’altra delle 7 prigioni dell’Is che hanno conosciuto. Fino al rilascio di Federico (il 26 maggio scorso), quattro mesi prima dell’esecuzione di Haines. Ebbene, è davanti ai loro occhi che è apparso per un breve periodo un compagno di prigionia russo, prima che i suoi carnefici lo facessero scomparire. Ed è ancora davanti ai loro occhi che sono sfilate a un certo punto un gruppo di “prigioniere”. Una di loro, dall’accento americano.
Erano divise dagli altri ostaggi occidentali — ha raccontato Motka a chi lo ha interrogato dopo la sua liberazione — e trattate come esseri impuri. Il loro numero e la loro sorte resta ancora un punto di domanda. Ma la loro presenza nelle prigioni dell’Is, insieme a quella di ostaggi inglesi e americani, è stata evidentemente la ragione che, ai primi del luglio scorso, aveva convinto la Casa Bianca a tentare un blitz della Delta Force in quella che, sulla base delle indicazioni degli ostaggi francesi, spagnoli e italiano rilasciati tra aprile e maggio, era ritenuta l’ultima delle prigioni in cui sorprendere John e la sua banda.
Sappiamo, per quanto riferito dal Pentagono nelle scorse settimane, del fallimento di quello “strike” notturno nel deserto di Raqqa. Ma sappiamo anche che la caccia continua ad avere priorità massima negli obiettivi dell’intelligence militare alleata. Perché se esiste ancora una possibilità di salvare gli ostaggi nelle mani di John è trovarlo. Magari costringendolo a un errore che ne sveli la posizione sul terreno. O quella di chi è con lui e su cui — volutamente — l’Intelligence americana ha deciso nei giorni scorsi di mettere pubblicamente pressione annunciando al mondo: «Conosciamo i vostri nomi».
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