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La Repubblica Rassegna Stampa
09.09.2014 La minaccia dei reduci: quei jihadisti italiani che sono andati a combattere in Siria e Iraq e adesso tornano in Italia
Cronaca e commento di Giuliano Foschini, Fabio Tonacci

Testata: La Repubblica
Data: 09 settembre 2014
Pagina: 26
Autore: Giuliano Foschini - Fabio Tonacci
Titolo: «Jihadisti di ritorno»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 09/09/2014, a pagg. 26-27, con il titolo "Jihadisti di ritorno", l'articolo di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci.

Giuliano Foschini         Fabio Tonacci

Jihadisti in preghiera
Ammar Bacha è tornato in città. Siede di nuovo ai tavolini del bar nel centro di Cologno Monzese, con gli altri della comunità siriana. Ha storie da raccontare che potrebbe andare avanti per ore. Due anni di combattimenti contro il regime di Assad, passati a sparare «per i miei fratelli e le mie sorelle, senza chiedere il permesso a nessuno», gli hanno lasciato una ferita alla gamba sinistra e il rispetto incondizionato di chi la pensa come lui. Ammar, 37 anni, ex commerciante, ora è uno “speciale”, un “veterano”. Uno di quelli che laggiù, nelle lande inzuppate del sangue dei soldati lealisti freddati con un colpo alla nuca, degli occidentali sgozzati come capretti, degli innocenti e dei ribelli, c’è stato per davvero.
È un reduce, Ammar. Il che lo rende un problema per il nostro servizio di Antiterrorismo. Perché con l’Iraq e la Siria in fiamme e con la propaganda dilagante dello Stato Islamico, il jihadista che ritorna preoccupa molto di più del jihadista che parte. Lo dice la cronaca. Era un reduce siriano Medhi Nemmouche, l’attentatore col passaporto francese che a maggio ha ucciso a colpi di kalashnikov quattro persone al Museo ebraico di Bruxelles. E reduce era anche Ibrahim B., arrestato a marzo a Mandelieu La Napoule, vicino a Cannes, perché nascondeva un chilo di esplosivo Tatp nel suo appartamento. «Il rientro dei miliziani può costituire una grave minaccia — scrivono i carabinieri del Ros in un recente dossier — possono utilizzare in chiave anti-occidentale le competenze e la preparazione militare acquisita e certamente godranno di un forte carisma». Volenti o nolenti diventano punti di riferimento. Ammar Bacha, per i suoi, lo è già.
«Non sarebbe qui con noi se non fossimo orgogliosi di lui», dice l’uomo che gli siede accanto, durante la breve intervista che Bacha ha concesso al Tgr Lombardia qualche giorno fa. Ex braccio destro di Haisam Sakhanh, l’elettricista 41enne che nel 2012 guidò l’assalto all’ambasciata siriana a Roma prima di riparare ad Aleppo e unirsi ai ribelli (in un video appare tra i killer di sette soldati di Assad), Bacha è rientrato a Cologno da poche settimane. «Non sono qui per fare casino», assicura. Se anche fosse, non lo ammetterebbe. Non certo davanti a una telecamera.
Quanti Bacha ci sono in Italia? Quanti miliziani hanno fatto il viaggio andata e ritorno dal Medio Oriente? I numeri ci sono ma portano con sé una intrinseca fragilità. Distinguere tra chi torna in patria solo per controllare se la sua casa è ancora in piedi e chi va per uccidere è terreno scivoloso. Si sa però che Ros e Ucigos hanno stilato una lista di 40 nomi di jihadisti “italiani”: non italiani di nascita, ma stranieri residenti nel nostro Paese, perché qui hanno ottenuto il permesso di soggiorno o un visto. Di questi, 8 sono ancora segnalati in zone di guerra, quindi ce ne sono 32 che sono tornati. Ammar Bacha è uno di loro. Di alcuni si sono perse le tracce, qualcuno è morto in battaglia. A questi, secondo fonti della nostra intelligence, ne vanno aggiunti altri 15-20: sono siriani, marocchini, tunisini, che non esibiscono documenti con il timbro delle nostre autorità. Delle due l’una: o sono clandestini o non sono partiti dall’Italia. Senza usare la certezza dell’indicativo, sarebbero una cinquantina i “veterani” presenti sul territorio. Stime più prudenti riducono la cifra a venti.
Non tutti sono stati arruolati dall’Is o da al-Nusra, i due gruppi definibili, secondo il diritto internazionale, di matrice “terrorista”. Qualcuno si è unito con i miliziani di Jaysh al-Muhajirin, altri con le varie sigle della galassia della Guerra Santa come al-Sham al-Islamiyya, Liwa al-Umma, Harakat Sham al-Islam, Kalibat Suqur al-Izz.
Tecnicamente chi torna in Italia dopo aver combattuto non è accusato di niente. Il reato previsto all’articolo 270 bis del codice penale scatta solo in presenza di indizi che il soggetto abbia fatto parte di fazioni terroristiche. Lo sforzo degli investigatori si traduce così nel continuo monitoraggio del confine sloveno e di alcuni porti “caldi”, per esempio quello di Bari. Si controllano i passeggeri dei voli low cost in arrivo dal Medio Oriente (non si vola mai direttamente dalla Siria o dall’Iraq), si tengono sott’occhio i barconi sospetti che approdano sulle coste non siciliane, soprattutto quelli con pochi migranti a bordo. Agenti sotto copertura vengono mandati a bazzicare luoghi di ritrovo meno “scoperti” delle moschee, quali le macellerie islamiche o i call center. Roma, Milano, il nord est, le aree a maggior presenza di “veterani”.
Ci siamo già passati, del resto. Il reducismo jihadista — secondo gli analisti della Polizia di Prevenzione — inizia negli anni Novanta. Il nome dell’egiziano Arman Ahmed El Hissiny Helmy, pronunciato oggi, dice poco. Era un mujaheddin che aveva combattuto in Bosnia. Arrivato a Milano subito dopo il conflitto, era diventato una figura chiave dell’Istituto Culturale islamico della città: smistava e coordinava volontari musulmani da mandare nella carneficina afgana del dopo l’11 settembre. Stesso sentiero percorso dal tunisino Jarraya Khalil, ex colonnello del Battaglione dei mujahiddin di Zenica, giunto a Bologna e subito arrestato. Gli ci vollero appena venti giorni per manipolare psiche e coscienza di Kammoun Walid, il giovane connazionale che si ritrovò in cella. Quando uscì dal carcere, Walid era convertito all’ideologia salafita. Ecco perché gli istituti penitenziari possono diventare covi di reclutamento.
«Stiamo assistendo a un fenomeno politico-militare che nulla ha a che fare con la religione — sostiene Foad Aodi, presidente della Comunità del mondo arabo in Italia — il reclutamento fa presa sui musulmani che non si sentono integrati. Va sicuramente condannato, ma evitiamo pericolose generalizzazioni». Come dire, non è da qualche decina di reduci imbevuti di fanatismo che si può, né si deve, giudicare l’intera comunità islamica.
I “veterani” arrivano, si fermano, mostrano le ferite di battaglia, le “stellette” sulla pelle. I “veterani” passano. L’Italia è una terra di mezzo anche in questo. Stime ferme a qualche mese fa indicavano tra i 396 e i 1.937 i foreign fighter europei. Francesi, inglesi, tedeschi e belgi sono i più numerosi. Chi torna — secondo le rotte ricostruite dagli investigatori — passa comunque dall’Italia. Non è un caso quello che è accaduto nel 2009 quando il jihadista francese Raphael Gendron fu fermato «per immigrazione clandestina » al porto di Bari. Sul suo camper trasportava 5 persone, tre siriani e due palestinesi. Gendron fu condannato per terrorismo in primo grado e poi assolto. Da libero è tornato in Siria a combattere ed è stato ucciso lo scorso anno. «Quei cinque migranti di passaggio — rivela oggi un inquirente — non erano semplici clandestini. Forse erano terroristi ».
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