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La Repubblica Rassegna Stampa
12.08.2013 Gershom Scholem - La Stella di David. Storia di un simbolo
la recensione di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 12 agosto 2013
Pagina: 31
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Così la Stella di David è diventata ebraica»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 12/08/2013, a pag. 31, l'articolo di Susanna Nirenstein dal titolo "Così la Stella di David è diventata ebraica".


Gershom Scholem, La Stella di David, (ed. Giuntina)

L’associazione è immediata: la Stella di David, in ebraico il Magen David (Scudo di David), vuol dire “ebrei”. Campeggia sulla bandiera d’Israele, sulle sinagoghe degli ultimi secoli, sui libri di preghiera, nelle comunità, al collo dei fedeli, l’abbiamo vista come marchio di vergogna e di condanna a morte durante il nazismo, e ancora oggi gli antisemiti la bruciano, la sfregiano. Ognuno, davvero ognuno, è convinto che racchiuda il mondo, il cuore di questo popolo, da sempre, anche se ha fatto la sua comparsa in altre culture. E invece no. Un interessantissimo libretto appena uscito del grande filosofo israeliano Gershom Scholem (nato in Germania nel 1897, immigrato a Gerusalemme nel 1923) che allo studio del misticismo e al sionismo ha dedicato la vita, ci dice il contrario: al di là di quello che è diventato, perché è indubbio che oggi rappresenti Israele e l’ebraismo, e vedremo come ci è arrivato, l’esagramma, documenta Scholem, non è un simbolo ebraico, non esprime niente della carica spirituale dell’ebraismo, della sua eredità intuitiva, e nemmeno della sua storia: non parla affatto di un supposto sigillo di Salomone, come si è spesso detto, o delle guerre del regno di David, non rappresenta l’armonia della Creazione descritta nella Torah, né l’unione dei contrari e della loro neutralizzazione nell’unità, nel Dio unico, non richiama alcunché dell’ebraismo biblico o rabbinico. Anzi, è tutt’altro. Non è che un segno magico di protezione, una sorta di talismano diffuso in numerosi popoli, fenici, assiri, indiani, tra gli zoroastriani... e molto più tardi, come sappiamo, nelle chiese bizantine, e anche nelle moschee. In una delle sue prime comparse nel mondo ebraico, quella sulla sinagoga di Cafarnao nel II o III secolo, è un evidente ornamento, sottolinea Scholem, niente meno che messo accanto a una svastica! E così in molti altri luoghi, magari vicino a una stella a cinque punte. Scholem non esita, la sua determinazione a demolire il mito appare all’inizio totale: fino alla metà dell’Ottocento, scrive, citando ogni traccia possibile da massimo esperto qual è, nessuno studioso o cabalista ha mai pensato di indagare il significato ebraico della Stella, nei libri sulla vita religiosa o in tutta la letteratura chassidica non se ne parla affatto. I suoi strali si rivolgono contro chiunque abbia cercato di procurare al Magen David un’illustre genealogia, come Moses Gaster o Max Grunwald. Non è vero che il grande Rabbi Akiva l’abbia usata nel secondo secolo come simbolo messianico nella guerra di liberazione di Bar Kokhba contro l’imperatore Adriano, e ancor meno vero è che l’emblema compaia nello Zohar (letteralmente, Splendore, uno dei testi fondamentali della Cabbala, XIII secolo), né negli scritti del grande cabbalista cinquecentesco Yitzhak Luria. Fantasie debordanti, le chiama Scholem, che rivendica come unico simbolo ebraico legittimo, apparso invece con costanza fin dall’emergere del popolo, la Menorah, il candelabro a sette braccia che Dio stesso ordinò a Mosè perché lo ponesse accanto all’Arca. Ma allora com’è andata? Perché oggi la Stella di David significa ebraismo? Lo vedremo tra poco, ma prima cerchiamo di capire perché un sionista come Scholem mette tanta carica distruttiva verso quello che sta diventando il simbolo degli «ebrei che entrano nella storia», che si fanno Stato. Scholem aveva scritto questo lungo articolo nel ‘48 (ora pubblicato dalla Giuntina, La stella di David, pagg. 134, euro 10, con un’approfondita introduzione di Saverio Campanini, che l’ha anche curato insieme a Elisabetta Zevi), per una rivista di nicchia all’indomani della discussione (durante cui probabilmente l’aveva concepito) che aveva posto il segno al centro della bandiera di Israele. Il fatto è che il filosofo e storico immaginava la rinascita di Israele dovesse essere in aperta discontinuità con le esperienze assimilazioniste e fallimentari della diaspora. E la scelta del Magen David lo deludeva, proprio perché si rifaceva a un segno non esclusivo, vuoto di significati, che gli ebrei diasporici avevano iniziato a usare a man bassa dall’Ottocento in poi, a suo parere, quasi scopiazzando la croce dei cristiani o la mezzaluna degli mussulmani. Le tracce della Stella che Scholem aveva trovato in maniera crescente tra gli ebrei europei gli sembravano nate dal mondo trasversale della superstizione, e più tardi imposte dai governanti per distinguere i “giudei” dai fedeli in Cristo, come “confine”, nel modo in cui sospetta sia accaduto nell’architettura sinagogale ottocentesca affidata spesso ai “gentili”, o prima, a Praga e in Boemia quando, dal ‘400, divenne l’emblema di uno stendardo concesso alle comunità ebraiche, o ancora a Vienna, nel 1656, quando venne disegnata sulla pietra che segnava la divisione tra la parte ebraica e quella cristiana indicata con la croce. Tracce che si moltiplicano all’infinito nell’Ottocento, in un momento in cui, evidenzia Scholem, l’ebraismo aveva perso ogni forza religiosa. A Scholem piaceva fare così, muoversi tra i cieli della trascendenza intessendoli con i parametri della Storia, in cerca degli elementi davvero vivificanti dell’ebraismo, come sempre certo che i fatti obbiettivi fossero il primo passo per giungere alla verità. Ed è per questo in realtà che nelle ultime pagine cambia del tutto tono e posizione, e dalla carica distruttiva dei primi capitoletti, eccolo accettare in toto la Stella, perché questa volta è proprio la Storia a fornirgliela: «Poi vennero i sionisti», scrive infatti, e sul primo numero del periodico del movimento, Die Welt, uscito il 4 giugno 1897, pubblicato da Theodor Herzl, misero l’esagramma sulla testata, una scelta dovuta sia all’enorme diffusione del simbolo oramai e al fatto che non avesse un nesso esplicito con la religione e potesse indicare invece speranza di redenzione. Non solo. Più di quanto abbiano fatto i sionisti, continua Scholem, lo fecero la persecuzione e la Shoah quando hanno trasformato la Stella di David in un marchio di degradazione per milioni di persone. «La stella gialla come segno di esclusione e di sterminio ha accompagnato gli ebrei nell’umiliazione, nell’orrore, nella battaglia e nella resistenza. Se esiste un suolo fertile di esperienza storica dal quale i simboli traggono il loro significato, questo lo è stato». È così, scrive Scholem recuperando in tutto e per tutto la scelta d’Israele, che il Magen David è diventato «un segno degno di illuminare il cammino verso la vita e la ricostruzione ».

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