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La Repubblica Rassegna Stampa
21.11.2012 Legittima difesa: l'ebrea che odia lo Stato degli ebrei
Barbara Spinelli scatenata contro Israele

Testata: La Repubblica
Data: 21 novembre 2012
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «I frutti della guerra»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 21/11/2012, a pag. 1-34, l'articolo di Barbara Spinelli dal titolo "I frutti della guerra".


Barbara Spinelli

Barbara Spinelli inizia con queste parole il suo articolo: "Quando i conservatori israeliani se la prendono con ragionamenti troppo pacifisti, o con chi in patria critica la politica dell'occupazione, subito tirano in ballo l'Europa: «Questo è un tipico ragionamento ashkenazita; non ha alcun rapporto con il Medio Oriente!»". Ecco che una battuta, un modo di dire, diventa subito un qualcosa di razzista da denunciare. A questo è arrivata Spinelli per rendere più antipatico agli occhi dei lettori lo Stato ebraico ?
Secondo Spinelli, in Israele "
L’Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. (...)Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese.". Mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese ? Forse la mancanza di iniziativa andrebbe attribuita alla controparte araba, troppo presa a lanciare razzi (o a non condannarli) per pensare di negoziare. Che iniziativa politica si può avere con chi predica solo la cancellazione di Israele ? Forse è questa l'iniziativa politica, permettere ai palestinesi di eliminare Israele ?
Spinelli accusa l'Europa di ipocrisia : "
Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati.". Troppo buoni con gli ebrei morti nella Shoah, non abbastanza antisemiti con quelli vivi in Israele, insomma.
Spinelli continua : "
 Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l’Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013. ". La solita litania di Israele che inizierebbe guerre a scopo elettorale. I razzi di Hamas contro la popolazione non contano nulla ? Spinelli, comunque, ha individuato il vero 'problema' che sta alla radice di tutti i mali del Medio Oriente : " Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente". La presunta incapacità di Israele di vedere uno Stato palestinese. Ovvio, no?
Spinelli continua : "
Sono ormai 45 anni — dalla guerra dei sei giorni — che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest’incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. ". Israele paragonato all'Europa nazista. Spinelli fa finta di non saperlo, ma Israele è una democrazia. L'unica del Medio Oriente. E, comunque, l'odio degli arabi per Israele è nato ben prima della Guerra dei Sei giorni.
Spinelli scrive : "
Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d’ingresso e d’uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l’Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l’Unione europea).". Israele si è ritirato dalla Striscia nel 2005. Un gesto di buona volontà per la pace ? Secondo Spinelli no. Israele deve sempre avere la colpa per qualcosa.
Spinelli continua : "
Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni).". La mancanza di continuità territoriale c'era pure con i confini stabiliti dall'Onu nel '47. Non c'entra nulla Israele.
"
 I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane.". Sarebbe sufficiente che i palestinesi sedessero al tavolo dei negoziati con intenzioni serie e non di cancellazione di Israele e non ci sarebbe più nessun problema di colonie nè di territori contesi.
Ma Spinelli continua : "
 Se poi l’occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose.". La barriera difensiva è stata eretta per difendere la popolazione israeliana dagli attentati suicidi dei palestinesi. Quando e se non sarà più necessaria verrà smantellata.
I palestinesi non hanno un loro Stato per un semplice motivo: sono troppo occupati a lavorare alla cancellazione di quello ebraico per occuparsi della nascita del proprio,  come Barbara Spinelli è troppo occupata a scrivere articoli di propaganda anti israeliana invece di osservare con occhio critico che cosa sta succedendo in Medio Oriente.
Ecco l'articolo:
 

Quando i conservatori israeliani se la prendono con ragionamenti troppo pacifisti, o con chi in patria critica la politica dell'occupazione, subito tirano in ballo l'Europa: «Questo è un tipico ragionamento ashkenazita; non ha alcun rapporto con il Medio Oriente!», dice ad esempio Moshe Yaalon, già capo dell'esercito, oggi vice premier, rispondendo al giornalista Ari Shavit in un libro appena edito da Haaretz (Does this mean war?). L'ebreo ashkenazita ha radici in Germania e in Europa centrale, parla yiddish.
E lo stereotipo non è diverso da quello usato ai tempi di Bush figlio: l’America è Marte e virile, il nostro continente è Venere e fugge la spada. L’ashkenazi tornò come altri ebrei in Terra Promessa, ma ha i riflessi della vecchia Europa. Lo storico Tom Segev racconta come erano trattati gli ebrei tedeschi, agli esordi. Li chiamavano yekke: erano ritenuti troppo remissivi, cervellotici, e poco pratici. L’Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. Lo scettro decisivo sempre fu affidato all’America. Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese. Lo stereotipo dell’ashkenazita mente, perché ci sono ashkenaziti di destra e sinistra. Era ashkenazita Golda Meir. Sono ashkenaziti David Grossman, Uri Avnery, Amira Hass, pacifisti, e espansionisti come Natan Sharansky. Ma lo stereotipo dice qualcosa su noi europei, che vale la pena meditare. Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati. Eppure l’Europa avrebbe cose anche pratiche da dire, sulle guerre infinite che i governi d’Israele conducono da decenni, sicuri nell’immediato di difendersi ma alla lunga distruggendosi. Ne ha l’esperienza, e per questo le ha a un certo punto terminate, unendo prima i beni strategici tedeschi e francesi (carbone, acciaio) poi creando un’unione di Stati a sovranità condivisa. Le risorse mediorientali sono quelle acquifere in Cisgiordania, gestite dall’occupante e assegnate per l’83% a Israele e colonie. Tanto più l’Europa può contare, oggi che l’America di Obama è stanca di mediazioni fallite. È stato quasi un colpo di fucile, l’articolo che Thomas Friedman, sostenitore d’Israele, ha scritto il 10 novembre sul New York Times: provate la pace da soli, ha detto, poiché «non siamo più l’America dei vostri nonni». Non potremo più attivarci per voi: « Il mio Presidente è occupato-My President is busy ». Anche gli ebrei Usa stanno allontanandosi da Israele. È forse il motivo per cui pochi credono che l’offensiva si protrarrà, ripetendo il disastro che fu l’Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Ma guerra resta, cioè surrogato della politica, e solo all’inizio la vulnerabilità di Israele scema. Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l’Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013. Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente. Un male evidente, anche se ci s’incaponisce a negarlo. Sono ormai 45 anni — dalla guerra dei sei giorni — che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest’incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d’ingresso e d’uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l’Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l’Unione europea). Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni). I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane. Se poi l’occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose. Un’architettura dell’occupazione che trasforma le colonie in dispositivi di controllo (in panoptikon), spiega l’architetto Eyal Weizman. È urgente guardare in faccia queste verità, scrive Friedman, prima che la democrazia israeliana ne muoia. Forse è anche giunto il tempo di pensare l’impensabile, e chiedersi: può un arabo israeliano (1.5 milioni, più del 20% della popolazione) riconoscersi alla lunga in un inno nazionale ( Hatikvah) che canta la Terra Promessa ridata agli ebrei, o nella stella di Davide sulla bandiera? Potrà dire senza tema: sono cittadino dello Stato d’Israele, non di quello ebraico? Questo significa che anche per Israele è tempo di risveglio. Di una sconfitta del nazionalismo, prima che essa sia letale. Separando patria e religione nazionale, la pace è supremo atto laico. Risvegliarsi vuol dire riconoscere i guasti democratici nati dall’occupazione. Le menti più acute di Israele li indicano da anni. Ari Shavit evoca i patti convenienti con Bush figlio, gli evangelicali Usa, il Tea Party: «Patrocinato dalla destra radicale Usa, Israele può condurre una politica radicale e di destra senza pagare alcun prezzo». Può sprezzare le proprie minoranze, tollerare i vandalismi dei coloni contro palestinesi e attivisti pacifisti. David Grossman ha scritto una lettera aperta a Netanyahu: l’accusa è di perdere ogni occasione per far politica anziché guerre ( Repubblica, 6 novembre 2012). L’ultima occasione persa è l’intervista di Mahmoud Abbas alla tv israeliana, l’1 novembre: il capo dell’Autorità palestinese si dice disposto a tornare come turista a Safad (la città dov’è nato a nord di Israele). «Nelle sue parole — così Grossman — era discernibile la più esplicita rinuncia al diritto del ritorno che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dei negoziati». Abbas s’è corretto, il 4 novembre: la volontà di chiedere all’Onu il riconoscimento dell’indipendenza aveva irritato Netanyahu, e Obama di conseguenza ha sconsigliato Abbas. Quattro giorni dopo, iniziava a Gaza l’operazione «Pilastro della Difesa». L’abitudine alla guerra indurisce chi la contrae, sciupa la democrazia. In Israele, allarga il fossato tra arabi e ebrei, religiosi e laici. Vincono gli integralisti, secondo lo scrittore Sefi Rachlevsky che delinea così il volto della prossima legislatura: una coalizione fra Netanyahu, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, e ben quattro partiti che vogliono — come l’Islam politico — il primato della legge ebraica ( halakha) sulle leggi dello Stato. In tal caso non si tornerebbe solo alle guerre nazionaliste europee, ma alle più antiche guerre di religione. Stupefacente imitazione, per un paese dove l’Europa è sì cattivo esempio.

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