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La Repubblica Rassegna Stampa
13.05.2012 Roman Polanski: dal Ghetto di Varsavia a Hollywood
Le nostra lettura della Domenica

Testata: La Repubblica
Data: 13 maggio 2012
Pagina: 1
Autore: Curzio Maltese
Titolo: «Polanski: ci sarà un lieto fine»

Sulla REPUBBLICA di oggi, 13/05/2012, a pag.1/29-31, con il titolo " Da Auschwitz al carcere,tutti demoni della mia vita", Curzio Maltese intervista Roman Polanski, una lettura  che offriamo ai lettori di IC, domande e risposte impareggiabili.

 PARIGI - L'appuntamento è alle 10 dell'8 maggio, festa nazionale, nella casa vicino agli Champs Elysées, dove mezza Parigi aspetta il passaggio del nuovo presidente Hollande. Il guardiano non c'è e ad aprirmi il portone del palazzo semi deserto arriva lui. Da lontano un ragazzo di quattordici anni, minuto, magrissimo, in jeans e maglietta bianca. Da vicino, il più incredibile quasi ottuagenario mai conosciuto. Roman Polanski. Ho trascorso decenni a guardare i suoi film e a leggere cronache sulla sua vita, più sbalorditive di qualsiasi sceneggiatura. La casa, la stessa dove si è rifugiato dopo la fuga dall'America, non è enorme come si può pensare, lo studio è affollato. Foto di una vita, con chiunque, da Otto Preminger a Keith Richards, locandine teatrali, manifesti dei film, quadri pop alle pareti. Montagne di libri di ogni genere, ordinati per argomenti, sormontati da una monumentale raccolta di riviste scientifiche americane. «Vuole un caffè all'italiana?Niente da bere, tanto zucchero». L'avvio non è promettente: «Vede, ho fatto questa lunga intervista con Andy per non dover mai più parlare coi giornalisti», ride. Ma per tre ore risponderà a qualsiasi domanda, sulla sua vita e il suo cinema. A Film Memoir è una lunga conversazione con il suo amico Andy Braunsberg, dove Polanski accetta di parlare di tutte le tragedie della sua vita. La morte di sua madre ad Auschwitz, la deportazione di suo padre a Mauthausen, il massacro di Sharon Tate da parte del gruppo di Manson, l'arresto e la prigione con l'accusa di aver abusato di una minorenne, la fuga dall'America, l'ultimo arresto a Zurigo due anni e mezzo fa. Se pure non fosse la vita di uno dei più grandi geni della storia del cinema, sarebbe comunque un documento straordinario sui miti e la storia degli ultimi settant'anni, dall'Olocausto al dopoguerra, al comunismo sovietico, la swinging London degli anni Sessanta, il '68, l'epoca d'oro di Hollywood e la fine del sogno americano, la terribile bellezza dei Settanta, la restaurazione degli Ottanta, fino all'alba incerta del nuovo millennio. È un racconto quasi insopportabile anche soltanto da ascoltare, e lui l'ha vissuto. In molti punti s'interrompe per la commozione. Che cosa ha spinto Polanski, a parte la molestia di noi giornalisti, ad affrontare questo calvario?" Voglio mostrarle qualcosa». Si alza, mi indica due scaffali densi di volumi. «Questi sono tutti libri scritti sulla mia vita. Migliaia di pagine e neppure un dieci percento di verità. Non parlo soltanto di interpretazione di fatti, ma di nomi, luoghi, fatti inventati. Lei è un giornalista. Muoviamo entrambi dalla stessa idea, che da qualche parte debba esistere una verità. Milioni di persone nel mondo hanno sentito parlare di me non per i film, come avrei voluto, ma per la vita privata, attraverso l'immagine distorta che hanno dato i media. Non posso cambiare questo, ma prima di morire volevo raccontare la mia versione. Non in quaranta minuti di talkshow, ma in giorni di dialogo con qualcuno che mi conosce». Una volta visto A Film Memoir mi trovo davanti un uomodi 77 anni che ne dimostra venti di meno, impegnato a scrivere un nuovo film. Come ha potuto resistere? Non ha mai avuto la tentazione di farla finita? «Non una, moltevolte. Mi ha aiutato Faulkner. Ricorda il racconto Le palme selvagge ? Alla fine il protagonista, che ha vissuto una tragica storia d'amore, in prigione medita il suicidio, guarda la finestra della cella e pensa: se io mi ammazzo la sola memoria di questo amore sparirà per sempre con me. Quando un uomo muore, il suo mondo, il pensiero se ne va con lui. A parte questo, la mia vita non è stata soltanto una discesa. Vi sono state compensazioni, stagioni di assoluta felicità» Parliamo di questa stagione felice, la metà degli anni Sessanta. A soli trent'anni raggiunge il successo internazionale con Repulsion, protagonista Catherine Deneuve... «Il mio peggior film!», ride. Nei tre anni successivi una serie di capolavori, Cul de sac,Il ballo dei vampiri (sciaguratamente tradotto in italiano Per favore non mordermi sul collo), Rosemary's Baby, che la consacrano il genio nascente del cinema mondiale. Conosce Sharon Tate, diventate la coppia più amata di Hollywood. Sono gli anni della swinging London, dove lei vive, quelli della speranza, della rivolta giovanile e della liberazione sessuale. «Erano anni fantastici, ci si conosceva tutti. Andavi in un locale e ti trovavi accanto i Beatles o i Rolling Stones, Peter Sellers...» Ho visto le sue foto con Keith Richards. Era per i Beatles o i Rolling Stones? «Beatles, tutta la vita!» In quegli anni lei gira il suo film più felice, Il ballo dei vampiri, una commedia di uno humour fulminante, e sul set s'innamora di Sharon. Il tutto in Italia. «A Ortisei, un luogo incantato. Non ho più avuto la forza di tornarci. SI, fu il mio film più felice. C'erano l'amore per Sharon, l'amicizia con Gérard (Gérard Brach, sceneggiatore di molti film di Polanski, ndr) e la magia di un'epoca irripetibile. Avevo vissuto il nazismo, il comunismo e si spalancava una stagione di assoluta libertà. Allora sembrava che quel progresso civile sarebbe continuato all'infinito, ma non fu così. Se penso a quanto siamo tornati indietro nel costume in questi quarant'anni... Le è capitato di recente di vedere un mio film alla tv americana?» SI e capisco cosa vuol dire. Ogni minuto c'è un beep al posto di parole"politicamente scorrette": bitch, goddamned, fuck. Ridicolo. Gli ultimi trent'anni sono stati la rivincita del conservatorismo, il classismo, il puritanesimo, ora perfino il razzismo. Perché? «Me lo sono chiesto spesso e ho trovato una risposta nel lavoro dello storico William McNeill, che spiega l'alternarsi di progresso e regressione con l'avvento delle grandi epidemie. Si tende a sottovalutare l'impatto delle epidemie rispetto alle guerre. Ma per fare un esempio, la Prima guerra mondiale ha fatto otto milioni di morti e subito dopo la "spagnola" ne fece quaranta milioni. Questo per dire che gli anni Sessanta sono stati una parentesi liberatoria fra l'invenzione della pillola e l'esplosione dell'Aids, vissuta o usata come una specie di punizione divina. Credevamo che la storia, la società sarebbero cambiate per sempre e invece era soltanto un'epoca troppo bella per durare». La data che mette fine agli anni Sessanta coincide con la più grande tragedia della sua vita. Il massacro di Cielo Drive, l'assassinio di Sharon Tate, incinta di otto mesi, e di quattro amici. Nei venti mesi prima di scoprire gli autori, Charles Manson, i media la sbattono sul banco degli imputati. «Ero annichilito dal dolore e dovevo per giunta difendermi. Ero a Londra il giorno del massacro, ma ero il sospettato. Scrissero che c'era stato un rito satanico. La prova era una tavola "Ouija" trovata nella villa. A un certo punto ho chiesto io stesso alla polizia di sottopormi alla macchina della verità. Ma tutto questo lo racconto nel film». Non le farò altre domande. Ma mi colpisce che Manson condividesse un tratto con Hitler. Erano due artisti falliti. L'ho vista recitare a teatro in Amadeus la parte di Mozart avvelenato dall'invidia di Sa!ieri e l'identificazione era totale. «Sono molto pericolosi gli artisti mancati. Alla fine si scoprì che il movente era quello. Manson mandò i suoi a uccidere perché quella era stata la casa di un produttore che aveva rifiutato le sue canzoni. Avevamo affittato la casa sbagliata». Passano anni bui, di lutto, ma nel '74 torna al successo mondiale con un capolavoro, Chinatown. Un enorme successo anche di pubblico, nonostante quel finale disperato. Sarebbe possibile oggi? «Forse no. Già all'epoca litigai con lo sceneggiatore che voleva un lieto fine. Ma non avrebbe avuto senso. Volevo lasciare il senso dell'ingiustizia. È l'unico modo che ha l'arte per sperare di convincere le persone a cambiare le cose. A quattordici anni avevo visto al cinema Uomini e topi di Steinbeck ed ero uscito devastato, non riuscivo a darmi pace. Poi mi dissi: se non ci fosse stato quel finale ora non sarei qui a pensarci da ore. Fu una lezione per la vita». L'ultima frase «lascia perdere Jake, è Chinatown» condensa la filosofia di tanto suo cinema, l'idea che i sistemi siano sempre più forti degli individui. Qualcosa che subito dopo avrebbe sperimentato sulla sua pelle nel caso di Samantha. «Ho fatto un terribile errore, che continuo a pagare. Ma non sono scappato, ho ammesso le mie colpe. Ero a Tahiti per le riprese di un film, sono tornato in America per consegnarmi, confessare e andare in galera. La mia confessione era l'unica vera prova. Mi mandarono in un carcere dove si uccidevano detenuti ogni giorno. Ne uscii vivo, convinto di aver espiato la pena. Ma il giudice ci ripensò e disse di volermi rimandare in galera con una pena indeterminata, insomma avrebbe poi deciso lui. A quel punto lasciai l'America per sempre» In quei giorni, a propria discolpa, lei disse una cosa ferocemente stupida «Tutti vogliono scoparsi una ragazzina». Nel corso di un controverso colloquio, lo scrittore Martin Amis gliela rinfacciò duramente. Non tutti vogliono scopare ragazzine e in ogni caso fra una fantasia erotica e un vero atto criminale corre un abisso. «Certo, non lo direi ora e neppure allora, se non fossi stato sconvolto. Una cosa che non perdono ai giornalisti è di aver usato frasi dette in momenti di debolezza, rabbia, dolore, come dopo la morte di Sharon o l'arresto, per avvalorare l'immagine di mostro che mi avevano disegnato addosso. Ma tutto il mio agire concreto, il rientro in America, la confessione, la volontà di scontare la pena, sono più importanti delle parole sfuggite, non le pare?» Ma perché l'America non l'ha mai perdonata? «L'America? Direi piuttosto un giudice e i media. Una volta assunte le mie responsabilità, non ho avuto mai problemi con Samantha Geimer. Mentre entrambi ne abbiamo avuti con la persecuzione dei media». Nel settembre del 2009, a settant'anni esatti dall'invasione nazista della Polonia, il destino le si presenta ancora all'aeroporto di Zurigo, dove viene portato in carcere per un mandato d'arresto americano di trentadue anni prima. Qual è la sua reazione? «Ero completamente sbalordito, ma anche molto calmo. Fu molto diverso dalla prima volta. Il direttore del carcere di Zurigo, un carcere di massima sicurezza, mi accolse con un'aria imbarazzata. Nei mesi successivi mi aiutò molto, era evidentemente convinto che non avrei dovuto stare lì o comunque restarci il meno possibile. Da tutto il mondo arrivarono attestati di solidarietà. Certo fu molto doloroso per mia moglie Emmanuelle e soprattutto peri miei figli, Morgane ed Elvis.Alla fine fu Elvis a tagliare il braccialetto elettronico, il giorno che il governo svizzero rifiutò l'estradizione». Con una vita come la sua è paradossale che lei abbia spesso raccontato drammi chiusi nelle quattro mura di un appartamento, con protagonisti dall'esistenza anonima, comune. «L'immagine che mi ha più influenzato è il ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck. È una scena all'apparenza semplice, un uomo e una donna che si tengono per mano al centro di una stanza da letto di un ricco appartamento borghese. Eppure è una delle opere più enigmatiche della storia dell'arte. La normalità è piena di mistero». A giudicare dallo humour sulfureo dei suoi film, che balena sempre nel mezzo dell' angoscia più totale, si direbbe che nella scrittura l'abbia influenzata Franz Kaka «È stata la prima vera scoperta dell'arte. Avevo tredici anni e avevo visto e letto soltanto brutti film e mediocri romanzi. A un tratto, nel grigiore della letteratura ufficiale comunista, scoprii che si poteva scrivere il quel modo. Un fuoco d'artificio, una fantasia sconfinata e uno humour inarrivabile. In Polonia si discuteva molto della comicità di Kafka. Quando sono venuto in Francia gli intellettuali sgranavano gli occhi. Non avevano capito niente». A quasi settant'anni firma il suo capolavoro assoluto e forse l'opera definitiva sul tema dell'Olocausto,  il pianista. A Braunsberg racconta che molte delle scene più terribili del film sono in realtà suoi ricordi dell'infanzia nel ghetto. Ma ancora una volta le chiedo di un finale. Quell'ultimo scambio di sguardi fra il protagonista, ormai libero, e l'incredulo, terrificato del tedesco rinchiuso in un campo di prigionieri. Che cosa significa? «Questo: mi sono battuto per che cosa? Per quale ideale? È importante che qualcuno allevato dentro un certo pensiero si renda conto dell'orrore, della follia». La pietasdel finaleè molto laica, non ha nulla a che vedere con un'idea religiosa, come qualcuno ha voluto interpretare, o no? «Non sono un credente. Sono stato cattolico per un periodo dell'infanzia, quando ero rifugiato presso una famiglia di contadini cattolici. Neppure la mia famiglia era religiosa. Ho saputo di essere ebreo dai nazisti. Del resto, come scrive Dawkins, che cosa significa per un bambino essere ebreo, cattolico, protestante, musulmano, induista?» Non ha potuto ricevere l'Oscar per Il pianista e soprattutto da trentacinque anni non può girare negli Stati Uniti, che l'hanno eletta a genio del cinema. Le è mancato? «Non ci ho più pensato. Il vantaggio di girare in America era di avere mezzi enormi, impensabili in Europa. Ma il sistema è anche assai più pericoloso e crudele. Pensi alla parabola di Orson Welles, il più grande talento del cinema, da Quarto potere al non trovare i soldi per finire gli ultimi film». Compirà 78 anni ad agosto, continua a fare film importanti, come Carnage — a proposito, il primo happy end della sua filmografia — è felice con Emmanuelle Seigner, dalla quale ha avuto due bellissimi figli. E forse per la prima volta un uomo sereno. Come guarda al futuro? «Sono sempre stato ottimista, altrimenti non sarei qui. Sono curioso del futuro, dei progressi tecnologici. Divoro libri di scienza da sempre. Uno di questi ha cambiato il mio modo di pensare e intaccato il mio ottimismo: Il secolo finale di Martin Rees. L'ha letto?» Il grande astronomo che, con un calcolo di probabilità, sommando i potenziali distruttivi delle nuove tecnologie, l'ipotesi di catastrofi ambientali e il rischio crescente di terrore o errore nucleare, pronostica la fine dell'umanità nei prossimi cento anni? No, ho cercato di evitarlo. «Io sì ed è disgraziatamente assai convincente. Da padre sono preoccupato. E mi chiedo perché non lo siano tutti i genitori. Si discute soltanto di economia, viviamo questa dittatura dell'economia. Ma è la scienza che sta cambiando il mondo». Forse anche l'arte, il cinema, un po' l'ha cambiato e potrebbe cambiarlo, non le pare? «Forse, un poco. Qualche mio film è servito a far venire dei dubbi a qualcuno. E tanto mi basta». 


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