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La Repubblica Rassegna Stampa
29.04.2008 Israele 60 anni: un dossier dai contenuti diseguali
da Elie Wiesel e Nathan Englander passa alla disinformazione di Bernardo Valli e Sandro Viola

Testata: La Repubblica
Data: 29 aprile 2008
Pagina: 41
Autore: Bernardo Valli - Sandro Viola - Antonio Monda - Elie Wiesel
Titolo: «La grande avventura di una nazione - Quel destino segnato dalla guerra - L'approdo sicuro di noi ebrei americani»

La REPUBBLICA del 29 aprile 2008 pubblica un dossier sui 60 anni di Israele.
Parziale, quando non mistificatorio,  la ricostruzione storica di Bernardo Valli.
Per esempio, viene ricordato l'esodo dei palestinesi nella guerra del 48, ma non quello degli ebrei dai paesi arabi.
Si imputa ai padri fondatori di Israele l'errore di non aver definito i confini dello Stato, senza ricordare che i confini di Israele sono stati indefiniti in primo luogo a causa delle continue guerre nelle quali essa ha dovuto difendere la propria esistenza.

Ecco il testo:

L´immagine diffusa da giornali e televisione, sessant´anni dopo la nascita dello Stato di Israele, è quella di un Paese impegnato in una "guerra di cent´anni" moderna, quale è il conflitto con gli arabi, in particolare il corpo-a-corpo con i palestinesi. Un conflitto con flussi e riflussi di cui non si vede ancora la fine. Come del resto non se ne può fissare l´inizio nel 1948, quando David Ben Gurion, capo del governo provvisorio, proclamò l´indipendenza, il 14 maggio, e il giorno successivo, il 15 maggio, cominciò la prima guerra arabo-israeliana. Infatti, quando gli eserciti di cinque paesi arabi entrarono in Palestina, c´era già stato lo scontro armato tra israeliani e palestinesi, e centinaia di migliaia (tra 275 mila e 375 mila) palestinesi avevano già abbandonato o erano stati cacciati dai loro villaggi. E, per la verità, il conflitto cominciò ancora prima, agli albori del ´900, con lo sbarco degli immigrati ebrei ansiosi di realizzare un progetto nazionale e l´incontro con gli arabi sul posto anch´essi ansiosi i conquistare l´indipendenza politica.
Sessant´anni fa il progetto nazionale ebraico è stato infine realizzato, anche grazie alla tragica spinta della Shoa, e oggi Israele è la prima potenza militare e industriale del Medio Oriente; la sola ad avere vinto quattro guerre, sia pure con esiti diversi; la sola democrazia in quella regione; ed è una società che ha saputo assorbire immigrazioni imponenti, rispetto alle dimensioni del territorio e al numero degli abitanti. Si pensi ai russi, spesso non ebrei, ma ortodossi. Non avendo disegnato le frontiere della nazione, i padri fondatori hanno lasciato tuttavia una eredità esplosiva ai loro figli. Soltanto la nascita di uno Stato palestinese fisserà infine dei confini.
Non sarà obbligatoriamente la pace tra i due popoli, ma finirà un´occupazione che ha effetti devastatanti su entrambi. Concreti per gli uni, gli occupati; morali per gli altri, gli occupanti.
Yeshayahu Leibowitz, uno dei maggiori intellettuali israeliani, e con lui tanti altri, Gerusalemme e a Tel Aviv e a Haifa, hanno definito un veleno fatale per lo Stato ebraico l´occupazione dei territori palestinesi, avvenuta nel 1967.
Altri conflitti recenti hanno fatto molte più vittime nel mondo, ma quello israelo-palestinese ha sempre conservato e conserva un posto particolare, centrale, negli affari internazionali e nelle menti occidentali e arabe. Chi immagina o denuncia trame oscure tese ad enfatizzare gli avvenimenti dimentica o trascura i motivi di quella attenzione: il luogo, la Terra Santa, dove si incontrano e scontrano i tre grandi monoteismi; le lotte sanguinose che coprono un intero secolo ma che per i religiosi affondano le radici nei millenni; i protagonisti, ebrei e arabi (per lo più musulmani) animati anzitutto dal nazionalismo, ma un nazionalismo destinato ad assumere simbolicamente un valore universale che lo trascende, quando si parla di scontro di civiltà; inoltre l´area mediorientale di grande importanza strategica.
La densità, spesso la ferocia del confronto, accende forti passioni e conduce a giudizi sommari. Da qui la trasformazione, la degradazione, dell´immagine di Israele negli ultimi decenni. Un tempo la nazione ebraica era associata al kibbutz dove coloni idealisti e progressisti tenevano accanto alla branda i manuali di agraria, i libri di Tolstoj, la Bibbia e a volte Karl Marx. Ed era intensa la solidarietà, animata anche da un senso di colpa, tra gli occidentali, per i sopravissuti della Shoa. Oggi l´israeliano è visto sui teleschermi in divisa militare, impegnato a controllare i palestinesi nei tanti check point che frantumano la Cisgiordania o in un´operazione contro Gaza.
Per ricordare il sessantesimo compleanno dello Stato di Israele seguo (anche) le tracce dell´ampio studio diretto da Alain Dieckhoff (pubblicato a Parigi nello scorso febbraio, con il titolo L´Etat d´Israel, dall´Editore Fayard, e al quale hanno contributo più di trenta esperti, di diversa nazionalità e tendenza); e in quello studio trovo una citazione di Shlomo Ben-Ami, ex ministro degli esteri israeliano, che mi sembra una sintesi più che accettabile. Ben-Ami dice che il sionismo è «un´impresa di liberazione nazionale e di emancipazione umana che ha dovuto ricorrere a dei metodi di penetrazione coloniale». E conclude dicendo che esso è «un movimento schizofrenico». Al contrario dei colonizzatori classici, del tutto estranei alla storia delle terre che occupavano, gli ebrei sono sbarcati su una terra tutt´altro che estranea alla loro storia.
Per loro era Eretz Israel, la terra d´origine. Quando gli veniva chiesto perché mai fondasse il diritto degli ebrei alla Palestina su un libro religioso come la Bibbia, lui che era un agnostico, un laico, Ben Gurion rispondeva che la Bibbia «è la storia del popolo ebraico». E aveva ragione. Mentre gli arabi vedevano e vedono nell´arrivo degli ebrei una conquista, gli ebrei vi vedevano e vi vedono un ritorno. È una duplice versione che conduce alla tragedia.
Questo è il necessario preambolo a una rapida presentazione di Israele, cosi com´è fuori dalle immagini della "guerra di cent´anni". Rispetto al passato il paese vive adesso un presente più ricco e più sicuro. Finita la seconda Intifada (durante la quale, tra il 2000 e il 2004, sono stati uccisi 946 israeliani e più di 3000 palestinesi) la società israeliana conosce un periodo di grande prosperità. La breve e sfortunata guerra con gli hezbollah libanesi del 2006 non ha turbato la straordinaria crescita economica. Né essa è stata ed è minacciata dalla ribellione di Gaza, dominata da Hamas.
Tel Aviv è oggi una delle più vivaci città mediterranee. A Gerusalemme senti il conflitto. Hai la Palestina alle porte o addirittura in casa. Le fedi religiose, più intense che altrove, non creano la pace, danno uno spessore secolare alle rivalità. In apparenza, Tel Aviv vive invece, mentalmente, a mille chilometri dalla Palestina. Lungo la strada di Haifa ci sono gran parte delle tremila trecento sessantuno imprese che producono alta tecnologia e che rappresentano il 46% delle esportazioni. In Israele c´è un´impresa ad alta tecnologia ogni duemila abitanti.
In proporzione, ci sono più ingegneri che in qualsiasi altro paese. Ed è più consistente che in Europa (4,4%) il finanziamento della ricerca. L´economia gode di una eccellente salute: nel 2007 la crescita ha rasentato il 5%. La società socialista delle origini si è via via trasformata in una società liberista, dove si sono formate grandi fortune e al tempo stesso evidenti disparità. Un quarto della popolazione vive in uno stato di povertà, sia pur relativa, e comunque assistita, rispetto al resto del Medio Oriente, e della Palestina occupata. Per non parlare di Gaza.
Difficile immaginare l´Israele del futuro.
La minaccia dell´Iran nucleare guidato da fanatici non è la sola incognita. Su quel fronte lo Stato ebraico non si sente solo: i grandi paesi sunniti (quali l´Egitto e l´Arabia Saudita) temono in egual misura il regime sciita di Teheran. Resta in particolare tormentato il dibattito sui confini dello Stato di Israele: tra il pragmatismo territoriale (ossia il possibile scambio della terra contro la pace, che dovrebbe portare allo Stato Palestinese) e la logica securitaria (che induce a non cedere spazi). Ma tutto sembra paralizzato dal prevalere di un fondamentalismo "fondiario", che considera Eretz Israel irrinunciabile. Ed è difficile capire dove sono i confini del vagheggiato Grande Israele, del quale non si può più parlare sulla ribalta internazionale, dove prevale il dogma dello Stato Palestinese (per ora impossibile ma irrinunciabile). Al Grande Israele credono in fondo i coloni insediati in Cisgiordania, e i non pochi ufficiali di Tsahal, sempre più provenienti da ambienti religiosi, che li sostengono. Insieme rappresentano una forza difficile da ridurre alla ragione. Il sessantesimo compleanno avviene dunque in un clima di sicurezza e di crescita economica, ma anche ricco di interrogativi in sospeso. C´è persino chi si chiede se Israele sarà ancora sionista nel 2040. O se sarà al contrario dominato dai religiosi.

Velenoso l'articolo di Sandro Viola, che imputa all' "occupazione" il degrado dell'immagine (e della sostanza) morale del paese.
Diemnticando che i territori furono conquistati in una guerra difensiva e che Israele li avrebbe già abbandonati se non dovesse difendersi dal terrorismo che li usa come base (si veda la vicenda di Gaza dopo lo sgombero voluto da Sharon)
Ecco il testo:


Dimenticando che i territori furono conquistati in una
Sfoglio un libro fotografico su Israele, nella parte che ritrae la nascita, sessant´anni fa, dello Stato degli ebrei. Sono fotografie toccanti, se non devo dire struggenti. Gli ebrei di Palestina tripudiano. Ecco la folla che riempie entusiasta le piazze e strade di Tel Aviv già nel novembre ‘47, all´annuncio che l´Onu ha varato il piano di partizione della Palestina in due stati, uno arabo e l´altro ebraico. Quel piano certifica che le esitazioni, le incertezze della comunità internazionale sono finite, e che l´idea d´uno Stato degli ebrei in Palestina è ormai accettata. Tra la folla esultante un gruppo di ragazzi sui dieci – dodici anni inalbera un cartello con su scritto Auschwitz, il campo di sterminio da cui sono scampati. Shorts e casco coloniale, la polizia inglese mantiene l´ordine. Nella tipografia del maggiore giornale sionista di quegli anni, il Palestine Post, si prepara il titolo a tutta pagina per l´edizione dell´indomani: «State of Israel is born».
Nuovi entusiasmi, un´altra folla osannante (molti hanno il fazzoletto in mano a tergersi le lacrime) si vedono in una fotografia del 14 maggio ´48 dinanzi alla sede del governo provvisorio. Dentro al palazzo, con alle spalle un quadro di Theodor Hertzl a grandezza naturale, il primo presidente d´Israele, Chaim Weizman, dichiara solennemente la fondazione dello Stato. Dopo circa diciotto secoli, dunque, gli ebrei hanno di nuovo una patria. Fuori, come ho detto, si grida, si applaude, si piange.
Ma nel tripudio serpeggia un´angoscia. La possibilità d´una guerra aperta con gli arabi (e non più il solo terrorismo con cui arabi ed ebrei si sono vicendevolmente falcidiati negli anni del Mandato britannico) è infatti più che concreta. Il nuovo Israele si prepara perciò a combattere: e anche queste sono, inutile dirlo, fotografie colme di pathos.
Osserviamole con attenzione, perché dicono molto sull´atmosfera e lo scenario della nascita d´Israele. In una si vedono cinque giovani volontari del Palmah (le forze ebraiche clandestine che nei tre anni precedenti hanno condotto la guerriglia contro arabi e inglesi) in un momento di riposo.
Corporature robuste, carnagione abbronzata, sguardi fiduciosi, e il moschetto a fianco. Sono «sabra», cioè a dire ebrei nati in Palestina, cresciuti lavorando duro nei kibbutz e addestrati da tempo al combattimento. In un´altra foto sfilano i soldati della Jewish Brigade che hanno fatto parte dell´esercito inglese durante la guerra mondiale, e anche questi sono uomini già pronti allo scontro con gli arabi.
Ma un´altra fotografia mostra, in uno spiazzo di Gerusalemme, le prime esercitazioni militari di ebrei molto diversi: quelli del quartiere ebraico nella Città vecchia, e quelli appena arrivati dalle tragedie vissute in Europa. Nella foto stanno sugli attenti, e l´effetto è scoraggiante, quasi grottesco. Spalle curve, petti incavati, volti smunti. Alcuni vestono gli stracci che restano dei loro abiti di europei (camicie lise, pantaloni senza forma, scarpe scalcagnate), e altri - i religiosi della vecchia Gerusalemme - hanno in testa la «kippà» e alla cintola i «ziziot», i cordoni votivi. E´ gente che non ha mai preso un fucile in mano, e che non c´è più tempo d´addestrare. Infatti è tra di essi che vi sarà, con lo scoppio della guerra, il maggior numero di morti.
La guerra si fa attendere solo poche ore. Nella notte tra il 14 e il 15 maggio, cinque paesi arabi (Egitto, Siria, Libano, Transgiordania, Irak) muovono infatti i loro eserciti all´attacco del territorio che l´Onu ha assegnato al nuovo Israele. Gli ebrei si difendono con coraggio, vanno al contrattacco, sgominano gli avversari e si riversano nella Palestina che sarebbe dovuta andare ai palestinesi, occupandone larghe porzioni. E´ la guerra che rende più profondo il sentimento dello Judenstaat, la patria ebraica, unendo laici e religiosi, ebrei europei ed ebrei del Medio Oriente, architetti tedeschi e bottegai ungheresi, docenti universitari e agricoltori dei kibbuz. Mentre dai successi militari scaturisce la devozione per le forze armate, che resterà una costante della società israeliana sino al disastro dell´invasione del Libano nell´´82 e alla nascita di Peace now, il movimento pacifista.
Cominciano le tregue imposte dai mediatori internazionali (ce ne saranno varie sino alla fine del `48, quando cessano i combattimenti), e intanto il nuovo Israele è sull´orlo della fame.
Manca quasi tutto, e quel che si può acquistare è rigidamente razionato. Il latte si vende a porzioni, le uova sono in polvere, il caffè si fa con la cicoria. Come cibo di base c´è il baccalà congelato che il governo rileva ad un prezzo di favore dalle industrie ittiche norvegesi. Non piace a nessuno, e in specie ai bambini, che al suo arrivo in tavola scoppiano puntualmente in pianto. Ma per duro che sia, in Palestina c´è adesso lo Stato d´Israele.
Per dare un´idea del clima emotivo in cui Israele muove - con la sensazione di vivere un miracolo - i suoi primi passi, ricorro ad un altro libro, un grande romanzo: Storia di amore e di tenebra di Amos Oz. Siamo a Gerusalemme nell´autunno ‘48, durante un cessate il fuoco, e a casa Oz giungono alcuni amici e parenti.
«Qualcuno portò da Tel Aviv una nuova moneta, piuttosto grande, piuttosto brutta, ma pur sempre la prima moneta ebraica che vedevamo e che passò di mano in mano con grande commozione. Venticinque centesimi, con il disegno d´un grappolo d´uva. e sopra il grappolo una scritta in ebraico, Israel. La signora Abramsky disse: "Se solo potessero vedere i nostri genitori. e i genitori dei nostri genitori, e tutte le generazioni. Se solo potessero vedere e toccare questa moneta, questo denaro ebraico". Mio nonno Alexander. non proferì parola: si portò alle labbra quella moneta di nichel, e la baciò due volte con dolcezza e gli occhi gonfi».
Non è solo nel nuovo Israele che circola la commozione.
L´intero Occidente guarda trepido, partecipe, solidale, alla fine delle sventure ebraiche. Il socialismo sionista, l´epica del kibbutz, l´eroismo in combattimento d´un popolo che per tanti e tanti secoli non aveva mai combattuto, suscitano un´adesione profonda, totale, alla rinascita d´uno Stato ebraico. Di quel che è successo in Palestina nei mesi della guerra si sa poco, e soprattutto non si sa che 800.000 arabi palestinesi sono stati espulsi con la forza dai loro villaggi, dalle loro case, dalle loro terre, e già s´ammassano miserabili nei campi profughi. D´altronde è probabile che se anche tutto questo si fosse saputo, la simpatia per l´epopea del nuovo Israele non ne avrebbe sofferto: il legame tra il mondo civile e la patria ebraica sembrava infatti inscindibile.
Così, sessant´anni dopo bisogna chiedersi come può essere successo che Israele sia oggi una delle nazioni più criticate, avversate della terra. Perché in un recente sondaggio europeo Israele figuri subito dopo l´Iran del pazzoide Ahmanidejad, come il paese da cui vengono i maggiori pericoli per la stabilità mondiale. Un gigantesco complotto antisemita, un mare di calunnie? Io non credo. Benché i palestinesi abbiano altrettante responsabilità degli israeliani nell´inguaribilità del conflitto, resta l´errore fatale commesso dai governi d´Israele nel protrarre per quarantun´anni l´occupazione della Palestina, rosicchiando anno dopo anno, sordi a qualsiasi appello, pezzi della terra altrui.
Guardate, disse due anni fa David Grossman nella sua orazione per il decennale dell´assassinio di Rabin – rivolto ai governanti israeliani –, dove avete condotto questo paese. Guardate come siete riusciti a far marcire i valori, la morale, che furono alla base della fondazione d´Israele. Riflettete su come l´occupazione della Palestina e la disperata rivolta dei palestinesi, abbiano deturpato la nostra immagine nel mondo.
Parole dure, spietate. Ma che non si possono tacere mentre il nuovo Israele festeggia i sessant´anni dalla sua nascita.

Interessante l'intervista di Antonio Monda allo scrittore americano Nathan Englander:

Nel momento stesso in cui esplodeva il clamoroso successo internazionale di Per alleviare insopportabili impulsi Nathan Englander decise di trasferirsi a vivere in Israele, dove rimase per cinque anni, prima di ritornare nella sua New York. Quella del laico e agnostico Englander fu una scelta che sconcertò la sua religiosissima famiglia, ma che lo scrittore motivò con la necessità di comprendere in solitudine, e in età ancora giovane, le proprie radici. A distanza di qualche anno, lo scrittore afferma di vedere Israele, che ama tuttora in maniera profonda e imprescindibile, con occhi diversi, al punto da alternare la definizione di terra promessa a quella del luogo del confronto e del disincanto… «Israele, e in particolare Gerusalemme, rappresentano una parte fondamentale della mia vita», racconta nel suo appartamento nell´Upper West Side, a due isolati dal fiume Hudson. «Quello che affermo a proposito dello stato di Israele, vale per la mia stessa esistenza e per quello in cui ho creduto e che ho sognato».
Qual è stata la sua prima impressione quando è andato a vivere a Gerusalemme?
«Avevo avuto già una prima esperienza di un anno tra il 1989 e il 1990. All´epoca ero all´inizio del liceo e rimasi colpito dall´antichità, quasi eterna della città. Ne avevo sentito parlare sin da bambino, era il luogo promesso da Dio, e ora era lì, di fronte a me: entravo nella storia. Ma poi, quando ci sono ritornato dal 1996 al 2001, ho potuto vivere un´esperienza autentica e importante: all´inizio mi hanno colpito come sempre i sapori e gli odori. Poi il cuore della città e il quartiere di Nahalot, dove sono andato ad abitare. Ho avuto la sensazione di vivere in un luogo dove ti puoi perdere ed essere a casa, ed è quello che ancora penso di Israele. Ritengo che in questo non sono diverso da molte persone che vivono altrove e che lo considerano il luogo definitivo di approdo».
Cosa rappresenta per lei questo sessantesimo anniversario?
«La prima riflessione è quella di una realtà che si sta consolidando ma che è ancora tenue. Poi penso al fatto che Israele ha già resistito a momenti difficilissimi e mi chiedo quanti ce ne saranno ancora. Infine mi viene da pensare che quando sono nato Israele già c´era».
Ritiene che in questo ci sia una differenza di punto di vista tra il suo approccio e quello della generazione dei suoi genitori?
«Assolutamente. La prospettiva è completamente diversa. Noi viviamo lo stato di Israele come una realtà a rischio. La generazione precedente come una conquista che alcuni vogliono cancellare».
Cosa rimarrà sempre con lei della sua esperienza in Israele?
«Sono tornato a New York nell´estate del 2001 e ho affittato la mia prima casa il primo settembre, dieci giorni prima degli attentati. La cosa che mi ha maggiormente arricchito della mia esperienza a Gerusalemme è stata una visione sul mondo e del mondo che prima non avevo e che mi è stata utile proprio in quel momento tragico».
È riuscito a instaurare rapporti amichevoli con dei palestinesi?
«Si, specie all´inizio. Ho avuto amici arabi e cristiani. Mi colpiva molto che alcuni ragazzi con cui ero entrato in contatto facessero lavori umili, ma poi girando il mondo ho visto che non si può generalizzare, né si possono fare ragionamenti meccanici: anche a New York nelle cucine dei ristoranti trovi le minoranze più povere».
Ritiene che in Israele la religione abbia un ruolo di divisione e scontro o che invece possa essere uno strumento di pacificazione?
«So che le persone autenticamente religiose esitano a considerarla uno "strumento". Purtroppo sono molto disincantato riguardo alle religione, soprattutto per l´uso che se ne fa. Ricordo che l´unico momento in cui l´iman e il rabbino capo marciavano all´unisono era nella condanna del gay pride».
Quali sono a suo avviso gli scrittori che hanno raccontato meglio cosa rappresenti lo Stato d´Israele?
«Non credo che esista una voce unica, ma una vera e propria letteratura. E chi conosce il mondo letterario israeliano sa quanto sia differente quanto viene prodotto a Tel Aviv da quello che nasce a Gerusalemme. I nomi che mi vengono in mente sono Grossman, Oz e Yehoshua e penso, proprio in riferimento al rapporto con Israele, alla loro imprescindibile dimensione morale. Un passaggio struggente, sia sul piano oratorio, letterario e soprattutto umano è stato il discorso pronunciato da Grossman per il figlio Uri, morto per difendere il suo paese».
Ritiene che sarà possibile in tempi brevi avviare un processo di pacificazione?
«Io credo che nessun uomo, nessuna popolazione, insomma nessuno, stato sia condannato. E credo che, volendo, si potrebbe trovare una soluzione in tempi brevi. Chi non vorrebbe vivere in un mondo dove i propri figli non corrono il rischio di essere uccisi? Tuttavia so anche che minoranze di estremisti possono condannarci a un´eternità di dolore».
Cosa rappresenta Israele per un ebreo americano?
«Voglio premettere che ritengo di essere un ebreo molto particolare. La prima cosa che mi viene da rispondere è che nessuno parla dell´eventualità di distruggere il Canada e si chieda se abbia il diritto di esistere. Sarebbe facile rispondere in maniera retorica: Israele è il luogo dell´appartenenza e la terra promessa. Cerco quindi di sfuggire nella direzione opposta: un meraviglioso paese meridionale con dei grandi problemi alla frontiera».
E cosa rappresenta l´America per un israeliano?
«La risposta cambia drasticamente se parliamo di coloro che vivono in America o in Israele. Ci sono in entrambi i casi persone che vorrebbero vivere nell´altro paese e si tende sempre a sottovalutare quanto sia americanizzato Israele».
Al di là delle ambientazioni, quali sono le principali differenze tra gli scrittori ebrei americani e quelli israeliani?
«Le differenze sono enormi: credo che siano due realtà culturali che si avvicinano solo nei momenti in cui subiscono ostilità. Ne ho avuto prova concreta quando è stato tradotto in ebraico il mio primo libro: alcune espressioni, che a mio avviso erano valide per entrambe le realtà, sono state tradotte per la versione israeliana».
Pochi giorni fa, una seduta delle Nazioni Unite è stata sospesa perché un diplomatico libico ha paragonato la vita dei palestinesi a Gaza con quella degli ebrei nei campi di concentramento.
«Conosco le sofferenze di chi vive a Gaza, ma è un paragone sconcertante e atroce, che non merita commenti».
Parlando di "casa" le viene in mente Gerusalemme o New York?
«Ora direi senza dubbio New York, anche se mi trovo in una di quelle situazioni per cui tendo a sentirmi nostalgico per il posto in cui non vivo. E aggiungo che quando vado a trovare mia madre lei mi dice sempre: "Quando torni a casa?". Intende Israele».

Infine, un brano di Elie Wiesel:

Arriva l´avvenimento tanto desiderato, l´alba dei nostri sogni: è un venerdì. Il 14 maggio 1948. Tutte le radio del mondo trasmettono il discorso di David Ben Gurion. In un museo di Tel Aviv, qualche ora prima del Sabato, per non violare la sua sacralità, legge la dichiarazione di Indipendenza, e io che l´ascolto, la leggo e la rileggo, sono incapace di trattenere la commozione. Quando ho pianto per l´ultima volta? In uno stato di raccoglimento prossimo al dolore accolgo il Sabato, il più bello e il più radioso Sabato della mia vita. Sabato un´offerta a Israele? Non oggi. Oggi è Israele che vuole essere un´offerta al Sabato.
Il mondo, diviso tra l´incanto e l´angoscia, trattiene il respiro: il popolo ebraico, realizzando l´antico sogno, cambierà infine volto, se non destino?

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