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La Repubblica Rassegna Stampa
19.06.2007 Una Palestina inesistente quella inventata da Sandro Viola
Ma il conflitto tra Hamas e Fatah dove è finito ?

Testata: La Repubblica
Data: 19 giugno 2007
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: «Palestina, la tragedia di un popolo»

Sulla REPUBBLICA di oggi 19/06/2007 a pag.145 un lungo articolo di Sandro Viola dal titolo: " Palestina, la tragedia di un popolo".  Un tentativo pastorale di immaginare un territorio una volta agreste e umano, trasformato e distrutto dagli israeliani. Come sempre Viola va letto anche per quello che non dice. La sua " Palestina" è un luogo immaginario, dove gli avvenimenti che lui racconta si susseguono solo nella sua immaginazione. La bassa macelleria di Gaza è la migliore risposta a quella che lui definisce " terra di grandi tradizioni". Purtroppo per la nostra informazione, è con articoli di questo tipo che procede la mistificazione della società palestinese. Meno male che l'occhiello sopra il titolo recitava: " Il conflitto tra Hamas e Fatah", nel pezzo non ve n'è traccia. Non ne sottolineiamo i passaggi più grotteschi e patetici. Li scelgano i nostri lettori per poi scrivere a REPUBBLICA la loro opinione. Ecco il pezzo di Viola:

Da Gerusalemme si partiva per la Samaria, verso Ramallah e Nablus, molto presto di mattina. Le luci del primo sole esaltavano l´antichità del paesaggio. Le colline sassose, i piccoli villaggi arabi arrampicati sui declivi, il verde intenso dei tratti più fertili delle valli, la vite, gli ulivi, i fichi, le greggi di pecore al pascolo.
Era quello il momento in cui ogni volta l´uno o l´altro dei giornalisti seduti nell´automobile, esclamava puntualmente con voce ispirata: «Un paesaggio biblico!». Quanto a me che non avevo letto un solo rigo della Bibbia, certi scorci della Samaria ricordavano invece le Murge pugliesi. Sì, la Palestina mi piaceva perché dava la sensazione d´un ritorno a casa.
In quegli anni, quattro o cinque anni dopo la conquista israeliana del giugno 1967, Giudea e Samaria non erano ancora sfigurate. I paesi e le città non erano state ancora stravolte dalle furibonde battaglie di strada delle due Intifada, e la campagna non era stata ancora imbruttita, snaturata, dalle colate di cemento degli insediamenti ebraici. Tutto restava, a parte la presenza dell´esercito israeliano, più o meno com´era prima del ´ 67, quando questa parte della Palestina era governata dalla monarchia giordana. Se a Nablus o a Kalkilia o a Beit Jala si chiedeva di parlare con un notabile, comparivano un ex deputato del Parlamento di Amman, un ex ministro dei Trasporti di re Hussein, un anziano avvocato, il medico del paese, un esportatore d´olio d´oliva, tutti in giacca e cravatta e qualcuno con in testa il tarbusc, il rosso cappello cilindrico che si portava nel mondo ottomano. Restavamo a parlare a lungo nelle loro case di pietra, incredibilmente fresche malgrado il gran caldo, mentre un inserviente andava e veniva versando il caffè amaro, profumato al cardamone, nelle minuscole tazze senza manico.
L´occupazione israeliana? I notabili ne parlavano con prudenza. Nessuno avrebbe potuto infatti negare che dalla fine della Guerra dei Sei giorni la situazione economica in Cisgiordania era molto migliorata. Migliaia e migliaia di palestinesi andavano adesso a lavorare in Israele, con salari maggiori di quelli che riscuotevano nell´edilizia e nell´industria dell´olio locali, continuando inoltre a coltivare, da fittavoli o proprietari, i loro piccoli appezzamenti di terra. Erano molto aumentate le automobili e le motociclette, cui badavano agli incroci gli agenti della polizia urbana con ancora sul kepi lo stemma della monarchia hascemita, e indosso la stessa uniforme della polizia inglese al tempo del Mandato sulla Palestina.
E´ vero, dicevano i notabili: i giovani, e in specie quelli d´istruzione media o superiore, costituivano un problema. Essi odiavano gli occupanti e si sentivano attirati da Al Fatah, l´organizzazione di guerriglia capeggiata da Yasser Arafat, o dalle formazioni marxiste (il Fronte popolare di Georges Habash, il Fronte democratico di Nayef Hawatmeh), convinti che la conquista israeliana potesse essere annullata soltanto con il ricorso alle armi. Ma quanto ancora sarebbe potuta durare l´occupazione: tre, quattro anni ancora? Israele non poteva non rendersi conto, infatti, della forza che stavano acquistando le spinte nazionaliste, e certo non sarebbe voluta arrivare ad uno scontro aperto. Così, dicevano i notabili, quando l´occupazione fosse finalmente finita si poteva sperare che la moderazione delle classi borghesi, la tradizionale mitezza palestinese, avrebbero consentito il varo di un´entità amministrativa o addirittura statale, senza troppi sussulti e violenze.
Ero sempre stupito di vedere quanto somigliassero, quei paesi e cittadine della Cisgiordania, ai piccoli centri urbani dell´Italia meridionale come li avevo conosciuti sino ai primi anni Cinquanta.
Sulla soglia delle loro botteghe, i sarti pigiavano instancabili sulle macchine da cucire a pedali. Le bancarelle del mercato traboccavano di verdure magnifiche, d´uva piccola ma profumata, di grandi mazzi di menta. Gli anziani sorseggiavano l´arak intorno a un tavolo di caffè situato all´ombra d´un oleandro, nelle botteghe d´alimentari s´era quasi storditi dagli effluvi del cumino, della cannella, del cardamone e del coriandolo, il medico scriveva ricette in strada per le donne che s´avvicinavano a parlare della malattia d´una madre, d´un marito, d´un figlio.
Poi le cose cambiarono. Gli attentati dell´Olp (l´Organizzazione per la liberazione della Palestina) si fecero più frequenti e spettacolari, ebbero inizio le durissime rappresaglie israeliane. Ma soprattutto, dopo il ´77, col governo di Menahem Begin, presero a dilagare gli insediamenti ebraici. Sino ad allora, i laburisti avevano sì creato alcune colonie: ma le dimensioni erano ragionevoli, e la collocazione – fuori dalle aree più densamente popolate, come avevano fatto con i kibbutz i primi sionisti – molto accorta. Ma dopo il ´77 Ariel Sharon ruppe gli argini, fu preso da una specie di furore edilizio, guadagnandosi il nomignolo di bulldozer. Spinse gli insediamenti sempre più nel cuore di Territori occupati, a Gaza e in Cisgiordania, con l´esplicito intento di creare un fatto compiuto: vale a dire l´irreversibilità dell´occupazione.
Il paesaggio della Palestina fu così ferito a morte. Quelle enormi e massicce costruzioni a picco sugli uliveti e gli orti palestinesi, quelle prime strade e cavalcavie percorribili dai soli coloni, il proliferare degli accampamenti e dei posti di blocco dell´esercito, avevano scomposto, stralunato, il volto della Palestina. Kedumin, Karnè Shomron e Ofra in Samaria, Maaleh Adumin, Gush Ezion, Kiryat Arba in Giudea, per nominarne solo alcune: le colonie aumentavano ogni anno, infatti, e ogni volta più vaste. Su terre espropriate ai locali, con impianti idrici che sottraevano l´acqua ai campi e alle case dei palestinesi (oggi la disponibilità d´acqua è di uno a quattro a favore dei coloni).
Niente come il concetto di alieno può definire la presenza di quelle brutte costruzioni in cemento, quasi sempre in cima a una collina, circondate di filo spinato, agli angoli una torretta con riflettori e uomini armati. Ricordo una volta, nell´82, che s´era andati a Kiryat Arba per parlare coi portavoce dei coloni. Dalle case uscivano odori di cucina russa ed est-europea, sauerkraut, pesci in salamoia, minestra di barbabietole. E per la prima volta, in seguito a una delle ultime decisioni prese da Begin prima di sprofondare nella sua misteriosa demenza, i coloni erano armati. Tutti che s´aggiravano con un moschetto o un fucile mitragliatore (a spalla, di fianco nell´automobile, in mano con la canna rivolta verso il basso) tra i palestinesi inermi.
Era un brutto segno, e dopo qualche anno le cose precipitarono.
Tra l´87 e l´89, la prima Intifada sconvolse infatti anche le città. Ramallah era ormai piena di macerie per le cannonate dei tanks israeliani, l´aria irrespirabile a causa dei copertoni che i ragazzi palestinesi davano alle fiamme, le vetrine dei negozi sfondate, le condutture dell´acqua saltate. E lo stesso era a Nablus, a Kalkilya, a Hebron. Di fronte alla «rivolta delle pietre», le rappresaglie israeliane si fecero ancor più devastanti. Le città e i villaggi erano ormai irriconoscibili, qua e là punteggiati dai buchi neri delle case fatte saltare dagli israeliani.
Palestina? No, non era più la Palestina. Gaza era ormai un inferno in terra, il sovraffollamento, la miseria, la culla degli shaid – i martiri – che si facevano saltare nelle città israeliane, i missili aria-terra con cui Israele procedeva agli "omicidi mirati". E la Cisgiordania non somigliava più alle Murge pugliesi, era una zona di retrovia in una grande guerra.

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