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La Repubblica Rassegna Stampa
27.05.2007 Sandro Viola rievoca la guerra dei sei giorni
ma lui era al bar dell'Hilton al Cairo, chissà, forse non prevedeva che sarebbe andata così come è andata

Testata: La Repubblica
Data: 27 maggio 2007
Pagina: 30
Autore: Sandro Viola
Titolo: «La guerra lampo che Israele vinse e non seppe finire»

Sandro Viola rievoca su REPUBBLICA di oggi 27/05/2007 la guerra dei sei giorni. Lui, come è abitudine di tanti inviati speciali, l'aveva vissuta al bar dell'Hilton al Cairo, chissà, magari riteneva la capitale egiziana un luogo più sicuro di quella israeliana, visto che le notizie che circolavano sulla guerra imminente non davano lo Stato ebraico in così buona salute. Di tutto l'articolo è condivisibile la citazione del libro di Michael Oren "La guerra dei sei giorni", disponibile negli Oscar mondadoriani, chissà, forse Viola l'ha letto in fretta, sennò non l'avrebbe citato in modo così positivo. Per il resto è solito Viola, anche lui specializzato nella citazione di frasi attribuite a chi non può smentire (Rabin, Dayan,Sharon), come ha sempre fatto Igor Man. Pubblichiamo intero l'articolo, lasciano al lettore il piacere di valutarlo.

Il 5 giugno di quarant´anni fa, alle 7,15 del mattino, dopo settimane di minacciosi preparativi bellici da parte dell´Egitto e degli altri vicini Paesi arabi, i generali israeliani sferrarono per primi l´attacco In sei giorni trionfarono su tutti i fronti. Quel successo non fu la premessa per giungere a un accordo di pace

 
SANDRO VIOLA

gerusalemme
La mattina del 5 giugno 1967, ancora in pigiama, guardavo da un balcone dell´Hilton il fluire del Nilo, il lento passaggio di qualche feluca, e all´orizzonte le Piramidi. Dovevano essere più o meno le nove. Ero giunto al Cairo la sera prima, via Cipro, da Israele, sapendo che la guerra poi detta dei Sei giorni era ormai imminente. Ma non sapevo che fosse già iniziata e perciò indugiavo ad ammirare la magnifica vista che si coglieva allora (oggi non più, a causa d´una plumbea, lugubre muraglia di grattacieli sorta sull´altra riva del fiume) dai piani alti del Nile Hilton.
Poi, d´un tratto, gli altoparlanti dell´albergo intimarono agli ospiti di scendere al più presto nei sotterranei. Fu facile capire che si trattava d´un allarme aereo, il segno che le ostilità erano cominciate.
Nel sotterraneo dove discesi poco dopo, c´erano una quindicina di giornalisti stranieri, un gruppo di turisti comprensibilmente impauriti e un gran numero di impiegati e inservienti dell´albergo. Alcuni di costoro avevano dei transistor da cui ascoltavano le notizie di Radio Cairo, e ogni tanto li vedevamo scoppiare in grida di giubilo, abbracciare i colleghi vicini, applaudire. Poi si volgevano tripudianti verso di noi e annunciavano in inglese: «Abbiamo abbattuto cinquanta aerei israeliani». Ancora una decina di minuti ed ecco nuovi abbracci e applausi: «Gli aerei abbattuti sono ottanta, stiamo bombardando Tel Aviv». E s´andò avanti così sin verso le undici (l´ultimo annuncio, seguito da una frenetica ovazione, fu che le forze aeree israeliane avevano finito d´esistere), quando suonò la sirena del cessato allarme.
Non ero il solo, tuttavia, quella mattina del 5 giugno, ad essere mal informato: a scoprire, quando dopo le undici varcai la porta dell´Agence France Presse, che non l´aviazione d´Israele, bensì quella egiziana, era ormai quasi completamente distrutta. Nelle mie stesse condizioni era rimasto sino a quell´ora anche il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il leader della "Nazione araba".
Il raìs sapeva beninteso che i combattimenti erano iniziati, ma nessuno aveva osato dirgli quel che era accaduto. E fu solo nella tarda mattinata, quando si trasferì dalla sua residenza allo Stato maggiore, che il capo delle Forze armate Maresciallo Abd al-Hakim Amer e gli altri generali trovarono il coraggio d´informarlo che l´ottanta per cento degli aerei egiziani era stato distrutto al suolo. Il che significava che l´esercito, ormai impegnato nel Sinai in vaste e furibonde battaglie di carri armati contro le forze d´Israele, non aveva più copertura aerea. Nasser era un militare, un uomo intelligente, e in più covava da tempo cupi presentimenti. Non tardò quindi a capire che il destino della guerra, con i Mirage israeliani che a quell´ora stavano facendo il tiro a segno sulle sue divisioni corazzate, era ormai segnato.
Finito l´allarme aereo, sul Cairo era subito ridiscesa l´abituale, amabile letargia che ne costituiva a quel tempo il carattere. Faceva molto caldo. Poggiato il moschetto a terra, i soldati di guardia agli edifici pubblici stavano accovacciati nei ritagli d´ombra. Davanti ai caffè sedevano placidi i fumatori di narghile. Dai muri cominciavano a scollarsi i manifesti in cui si vedevano soldati egiziani prendere a calci nel didietro ebrei col naso adunco, la barba caprina e la palandrana scura.
Com´era diversa l´atmosfera da quella di Tel Aviv, dove avevo vissuto sino a due giorni prima l´ultimo scorcio dell´Ha-hamtama, che in ebraico vuol dire l´attesa. L´ordine e l´efficienza, ma anche la tensione emotiva e qua e là lo scoramento, con cui gli israeliani (in specie quelli scampati all´Olocausto, che nel ‘67 costituivano ancora una grossa parte della popolazione) s´erano avvicinati alla guerra. L´Ha-hamtama durava dal 15 maggio, da quando Gamal Abdel Nasser aveva dispiegato l´esercito egiziano nel Sinai, chiesto il ritiro delle truppe Onu da Sharm el-Sheikh e quindi interrotto, con la chiusura dello stretto di Tiran, l´accesso delle navi israeliane al golfo di Akaba. Da quel giorno, mentre le radio del Cairo e di Amman, di Algeri e Bagdad e soprattutto la radio di Damasco invocavano con voci sempre più isteriche una rapida e totale distruzione dell´«entità sionista-imperialista», il conflitto tra Israele e i Paesi arabi confinanti si fece - anche a causa d´una strana lentezza, o addirittura inerzia, delle diplomazie - ogni giorno più probabile.
Oggi sappiamo che i vertici dell´esercito e dell´aviazione israeliani erano più che certi di poter sconfiggere le forze di Nasser nel Sinai, e anche, se fossero entrate in guerra, la Siria e la Giordania. Tuttavia l´insieme della macchina propagandistica tendeva a raffigurare Israele come lasciato solo nel pericolo, minacciato d´annientamento, invece che pronto - come in realtà era - a sbaragliare gli eserciti nemici. Quei toni gravi, privi di qualsiasi esaltazione guerresca, delle radio e della tv israeliane erano stati adottati per unire e mobilitare la popolazione in vista del conflitto e allo stesso tempo diffondere all´esterno l´idea che lo Stato ebraico stesse per subire, non avendolo cercato, l´attacco degli eserciti arabi.
La verità era però un´altra. Nelle riunioni del governo con lo Stato maggiore, infatti, di fronte alle esitazioni del primo ministro Levi Eshkol, i generali scalpitavano impazienti. «Le forze arabe», sosteneva il comandante del fronte centrale, Uzi Narkiss, «sono bolle di sapone: una puntura di spillo, e scoppieranno». Anche il capo di Stato maggiore Itzhak Rabin, che pure si comportava in modo meno irruento dei suoi colleghi, insisteva nella richiesta di poter attaccare il prima possibile. Ma Eshkol, appoggiato da più d´una metà dei ministri, resisteva.
Succeduto due anni prima al grande Ben Gurion, di piccola statura e con un basco nero calzato perennemente sulla testa, più un tecnocrate che un leader politico, il primo ministro non era popolare. Durante la lotta per la creazione dello Stato sionista non aveva ricoperto incarichi di comando nell´Hagana, né aveva compiuto spettacolari azioni terroristiche come Menahem Begin o Itzhak Shamir. Era un tipico rappresentante dei politici venuti dalla diaspora, cauti e responsabili, che i comandanti militari nati in Israele, i sabra, chiamavano con tono metà affettuoso metà insofferente "gli ebrei".
Eshkol non voleva la guerra, soprattutto perché ne temeva le conseguenze nei futuri rapporti con i Paesi arabi. E infatti fu lui a pronunciare la sera del 28 maggio, incalzato dalle insistenze dei militari, la frase più saggia e lungimirante di quella vigilia del conflitto: «Che cosa volete, che Israele viva per sempre con la spada sguainata?». La frase esasperò uno dei generali più giovani, Ariel Sharon. A riunione terminata, Sharon avvicinò infatti Rabin e propose, in pratica, un putsch. «C´è una sola soluzione», disse, «chiudiamo il governo a chiave nella stanza accanto, lanciamo l´attacco, e quando le operazioni militari saranno ormai in corso, rimettiamo Eshkol al suo posto». Rabin finse di non sentire.
Se l´esercito non nutriva alcun dubbio sull´esito della guerra (lo Stato maggiore conosceva la posizione di ogni aereo egiziano, il nome, il grado e persino la voce del suo pilota), altro, come ho detto, era lo stato d´animo nella maggioranza degli israeliani. Israele trepidava. Nei cimiteri erano pronte migliaia di fosse per seppellirvi i morti in battaglia. Mentre al Cairo era diverso, perché il bellicoso, trionfalistico frastuono della propaganda aveva fatto credere in una facile e rapida vittoria.
Lungo i primi mesi del ‘67 le radio arabe avevano attaccato ogni giorno Nasser. Lo accusavano di codardia verso Israele, di nascondersi «sotto le sottane dell´Onu» (delle truppe Onu, cioè, che dal ‘56 presidiavano da Sharm el-Sheikh lo stretto di Tiran sul Mar Rosso), di non voler guidare la lotta per la liberazione della Palestina. Questa insensata corsa delle capitali arabe verso la guerra aveva motivazioni prevalentemente interne. Le cattive condizioni economiche, la tensione sociale, il susseguirsi dei colpi di Stato in Siria e in Iraq spingevano infatti quei regimi a dirottare su Israele l´animosità delle folle. Sinché anche Nasser, che avrebbe voluto a tutti costi evitare la guerra, venne travolto dalla marea dell´isteria nazionalista.
Fece entrare nel Sinai 130.000 uomini, 900 carri armati e 1.200 pezzi d´artiglieria, intimò il ritiro delle truppe Onu da Sharm el-Sheikh e da Gaza, pronunciò discorsi incendiari. Le masse arabe tornarono ad osannarlo. Ma Nasser non era più lo stesso uomo del ‘56, quando era riuscito a trasformare la sconfitta del suo esercito da parte della coalizione Francia-Gran Bretagna-Israele in una specie di vittoria politica. Negli ultimi anni s´era appesantito, soffriva d´un forte diabete e d´insonnia e governava su un Egitto ormai alla fame per i fallimenti della gestione socialistoide dell´economia.
I suoi preparativi di guerra erano sostanzialmente un bluff col quale contava di restaurare l´egemonia egiziana sul mondo arabo, ma senza giungere allo scontro. Sino all´ultima ora sperò quindi in una mediazione internazionale che potesse fermare la deriva verso la guerra. Moshe Dayan, l´uomo che lo portò alla disfatta nel ‘56 e nel ‘67, avrebbe infatti scritto anni dopo: «L´escalation della propaganda in tutto il mondo arabo non gli lasciava altra scelta che quella di cavalcare l´onda anti-israeliana, nella speranza di poterla controllare e domare». Anche Rabin lo ammise: «L´ingresso egiziano nel Sinai era un´azione essenzialmente dimostrativa».
Se al Cairo la certezza della vittoria era resa indubitabile dal tambureggiare della propaganda e dalle entusiastiche manifestazioni organizzate dall´Unione socialista araba, il partito unico, altra era la realtà sul fronte di guerra. L´arrivo dell´esercito egiziano aveva reso il Sinai molto simile ad un alveare impazzito. L´affluire di decine di migliaia di soldati a bordo di carri bestiame, spesso senza uniformi né armi né razioni alimentari - e soprattutto senza ordini precisi di dislocazione - aveva provocato ingorghi colossali sulle poche strade praticabili della penisola. Le colonne corazzate e la fanteria non riuscivano quindi a raggiungere le postazioni prestabilite. «Decine di unità», mi dice Michael Oren, lo storico israeliano che ha scritto il libro più completo e attendibile su quelle fatali settimane (La guerra dei Sei giorni, Mondadori), «erano in preda allo sfinimento per i continui trasferimenti avanti e indietro nel deserto». Un quinto dei carri armati, un quarto dei pezzi d´artiglieria e un terzo degli aerei, non essendo operativi, costituivano un ulteriore e dannoso ingombro. Il sistema delle comunicazioni non funzionava, la burocrazia militare (residuo della tradizione ottomana) rendeva lentissimo il contatto tra lo Stato maggiore e le unità al fronte.
Mentre Gamal Abdel Nasser cercava ancora, disperatamente, d´uscire dalla trappola in cui l´avevano cacciato i siriani, Israele si decise alla guerra. Inaugurando quella che in Israele è ancor oggi la preminenza della visione e delle esigenze militari sulle opportunità politiche, Rabin e gli altri generali strapparono a Levi Eshkol l´autorizzazione ad attaccare. Il primo giugno venne formato un governo di coalizione del quale faceva parte per la prima volta un partito di destra (l´Herut di Menahem Begin), con Moshe Dayan alla Difesa. E nella notte tra il 3 e il 4 l´attacco fu fissato per le 7, 15 del 5.
Come si svolse la guerra, è più o meno noto. Il primo giorno, dopo aver spazzato via l´aviazione egiziana, le forze terrestri d´Israele sfondarono in più punti le linee nemiche sia a Gaza sia nel Sinai. E verso mezzogiorno, poiché l´artiglieria di re Hussein aveva iniziato a bombardare Tel Aviv e la Gerusalemme ebraica, ebbero inizio le operazioni contro gli aeroporti e le linee di difesa giordani. Il secondo giorno le avanguardie di Rabin erano già vicine al Canale di Suez e la battaglia di Gerusalemme volgeva ormai a favore d´Israele. A quel punto l´alto comando egiziano dette l´ordine di ritirata alle forze del Sinai.
Il terzo giorno gli israeliani entrarono nella Gerusalemme araba e liquidarono le ultime sacche di resistenza egiziane nel Sinai. Il quarto giorno l´esercito di Nasser era in rotta, i giordani e i siriani avevano smesso di sparare e la guerra era in pratica finita. Durò tuttavia ancora due giorni, perché Dayan (contro il parere di Eshkol e senza preoccuparsi degli appelli dell´Onu ad un cessate-il-fuoco) decise d´attaccare e conquistare la alture siriane del Golan.
Per l´Egitto e per Nasser il conflitto s´era dunque concluso già tra il 7 e l´8 giugno. Le radio del Cairo non trasmettevano più bollettini vittoriosi, ma soltanto canzoni patriottiche, marce militari e preghiere. Poi, la mattina del 9, si diffuse la notizia che nel pomeriggio Nasser avrebbe parlato alla nazione. E quel discorso, ciò che accadde subito dopo che il raìs ebbe finito di parlare, dettero a noi giornalisti che avevamo seguito la guerra dal Cairo ciondolando tra la piscina dell´Hilton e i bar del Semiramis e dello Shepheard, senza vedere l´ombra d´un combattimento, la possibilità di cogliere le storiche proporzioni della disfatta araba e il tremendo trauma psicologico che n´era seguito.
Erano le 18,30 quando nel Palazzo della televisione dov´era stata allestita una sala stampa per i giornalisti stranieri, il volto di Nasser apparve su un teleschermo polveroso. Il raìs dimostrava dieci anni di più: le occhiaie peste, gli occhi velati di lacrime, il capo quasi reclino sul petto. La battaglia era perduta, disse con voce debole, e lui se ne assumeva l´intera responsabilità. Aveva di conseguenza rassegnato le dimissioni, lasciando la presidenza a Zaharia Moheddin.
Cinque minuti dopo, non più di cinque minuti, vedemmo dalle finestre una folla immensa invadere il Lungo Nilo su cui s´affacciava il Palazzo della televisione. Decine di migliaia di persone (che presto sarebbero diventate centinaia di migliaia) correvano senza meta, gridando, piangendo, scongiurando Nasser di non abbandonare il suo popolo. Alcuni, uomini e donne, s´abbattevano sull´asfalto sconvolti dai singhiozzi, altri facevano il gesto di strapparsi i capelli, altri ancora cadevano, subito calpestati dalla folla. Piangevano i soldati a guardia del palazzo, i tassisti, i battellieri delle feluche attraccate e i venditori di gelsomini che a quell´ora, come di consueto, erano sopraggiunti inconsapevoli sulla Corniche. Scendeva la sera e dalla folla disperata si levava una specie di ruggito, un rombo impressionante. Un paio d´ore dopo Nasser ritirò le dimissioni.
Ma Israele aveva vinto. Le sue truppe controllavano adesso un´enorme territorio che andava dal Canale di Suez al Giordano, dal Monte Hermon a Sharm el-Sheikh: 100.000 chilometri quadrati, tre volte e mezzo le dimensioni che il Paese aveva avuto alla sua nascita. Così, in soli sei giorni, tutto era cambiato nel Vicino Oriente: frontiere, status delle popolazioni, economia. La fase della debolezza sionista s´era conclusa ed era iniziata l´epoca della potenza militare israeliana.
Una vittoria tanto trionfale avrebbe potuto aprire la strada agli accordi necessari per giungere ad una pacifica convivenza tra israeliani ed arabi? C´è chi ne è convinto. L´ex ministro degli Esteri d´Israele Shlomo Ben-Ami, per esempio, che nel suo libro Palestina - La storia incompiuta, edito da Corbaccio, scrive: «Un´orgia di ebbrezza politica e trionfalismo militare accecò i leader israeliani. Essi fallirono così il compito di trasformare la vittoria tattica dell´esercito in una grande vittoria strategica per Israele, che avrebbe potuto fare della guerra dei Sei giorni non solo l´ultima battaglia del conflitto arabo - israeliano, ma addirittura la premessa d´un accordo di pace». Non andò così. Ed è per questo che a quarant´anni di distanza constatiamo quasi ogni giorno che la guerra del ‘67 non è ancora conclusa.
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