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La Repubblica Rassegna Stampa
30.03.2007 Il problema in Medio Oriente è sempre e comunque Israele
un editoriale di Sandro Viola sul piano saudita, dal tono equlibrato, ma fondato su un pregiudizio

Testata: La Repubblica
Data: 30 marzo 2007
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: «Se i sauditi sostituiscono Bush»

I sauditi sostituiscono Bush e l'America nel ruolo di "onesto mediatore" del conflitto israelo-palestinese che questi ultimi hanno perduto per colpa della guerra in Iraq e soprattutto dell'eccessiva vicinanza alle ragioni di Israele.
Il problema è però che Israele difficilmente accoglierà la proposta saudita e araba, perchè la sua maggioranza parlamentare è contraria la ritorno ai confini del 67  e perché
"ha giustamente bisogno di garanzie riguardo ad un capitolo della proposta saudita, vale a dire il «diritto al ritorno» dei profughi palestinesi alle case che dovettero abbandonare nel ‘48 e nel ‘67" (  dei loro discendenti, ndr). "Israele potrebbe infatti accettare il ritorno d´una quota simbolica del milione e mezzo di profughi (mentre gli altri verrebbero risarciti con l´aiuto finanziario della comunità internazionale), ma non può certo accoglierli tutti."
La comunità internazionale deve allora impegnarsi a sostenere l'inziativa saudita, ultimo spiraglio di pace prima della catastrofe.
E' questa, in sintesi, la tesi sostenuta da Sandro Viola nel suo editoriale pubblicato da La REPUBBLICA del 30 marzo 2007.
E' molto positivo, senza dubbio, che Viola segnali, sia pure soltanto alla fine del suo articolo, l'inaccettabilità per Israele del "diritto al ritorno" dei profughi.
Nel contempo, è però sorprendente un'impostazione per cui, per correggere i difetti del piano saudita, la comunità internazionale dovrebbe immediatamente impegnarsi ad appoggiarlo e a premere su Israele perchè lo accetti.
Logica vorrebbe che la comunità internazionale incominciasse, al contrario, con il verificare che quella saudita e araba sia una vera proposta di pace, e non soltanto un'operazione di "pubbliche relazioni" volta convincere l'opinione pubblica internazionale che  Israele non vuole  la pace...  perché non accetta condizioni che ne comporterebbero la distruzione.
Non ogni trattativa è "un'occasione di pace". A posteriori dovrebbe ormai essere chiaro che non lo era Oslo, diversamente da quanto scrive Viola, perché Arafat non ebbe mai intenzione di arrivare a un accordo definitivo, né di rinunciare al terrorismo. Con questa consapevolezza storica, che continua a mancare, si potrebbe guardare con più scetticismo e realismo alle "proposte di pace" arabe e con più equità alla politica americana in Medio Oriente, che non è stata "sbilanciata" in favore di Israele, ma ha semplicemente tenuto conto, a differenza di quella europea, del terrorismo e del fatto che tra i palestinesi e nell'intero mondo islamico continuano a prevalere coloro che vogliono la distruzione di questo Stato .

Ecco l'articolo:

Il re Abdallah dell´Arabia Saudita al posto del presidente degli Stati Uniti? E´ questo, più o meno, che è venuto fuori tra mercoledì e giovedì dal vertice di Riyhad. La possibilità d´una mediazione araba (arabo-sunnita, con alla testa i regimi più filoamericani) nel conflitto israelo-palestinese, al posto dei numerosi tentativi di mediazione compiuti in passato dai governi di Washington. E dunque l´America in continua perdita di prestigio, con un´ "anatra zoppa" alla Casa Bianca, impelagata nel marasma iracheno, che fa un passo indietro, mentre la famiglia reale saudita e gli altri regimi arabi pro-occidentali ne fanno uno in avanti.
Non si tratta propriamente d´una sorpresa. Nei giorni scorsi, l´ultima ricognizione di Condoleezza Rice in Medio Oriente (il quarto viaggio in quattro mesi), aveva avuto infatti un´indubbia utilità. I magri, deludenti risultati usciti dalla serie di incontri tra il Segretario di stato e i leader politici dell´area, avevano reso evidente che ormai gli Stati Uniti non posseggono più la chiave per la soluzione del conflitto israelo – palestinese. Che l´America non è più, come tutti – protagonisti e osservatori del conflitto – avevamo pensato per vari decenni, il solo mediatore capace d´influire sui due versanti dell´incancrenita contesa mediorientale.
Quel ruolo l´America lo ha perso lungo i sette anni dell´amministrazione Bush, per due principali ragioni. Il distacco con cui la Casa Bianca ha seguito l´evolversi del conflitto tra israeliani e palestinesi, in specie dopo la rielezione di Bush nel 2004 e l´aggravarsi della carneficina irakena; e seconda ragione, il rapporto troppo stretto, sostanzialmente passivo, che Bush ha intrattenuto con i governi israeliani: rapporto che oggi non permette più al governo di Washington di presentarsi sulla scena come un mediatore imparziale, l´ "honest broker" della situazione.
Ed è in questo vuoto che s´è subito collocata – col tacito assenso degli americani – la proposta saudita: Israele si ritiri entro i confini del 1967, e tutti i governi arabi ne riconosceranno l´esistenza e il diritto alla sicurezza, cooperando così alla ricerca d´una pace giusta con i palestinesi. La proposta del re Abdallah non è nuova perché era già stata avanzata al vertice della Lega Araba di Beirut nel 2002. Ma quel che è cambiato, adesso, è il contesto geopolitico della regione. I progetti egemonici dell´Iran, la sua corsa al nucleare, il crescere dell´ondata sciita in Medio Oriente. L´inesorabile metastasi del radicalismo islamico, la fragilità libanese, e la prospettiva d´un ritiro degli americani dall´Irak, un ritiro che potrebbe prendere le forme d´una rotta politico-militare. Tutto questo ha seminato timori profondi nelle «élites» che sono al governo dei regimi cosiddetti «moderati». Regimi assuefatti alla protezione degli Stati Uniti, e che assistono da quattro anni - mentre Teheran lancia continuamente nuove sfide - al deperimento della potenza americana sullo scacchiere mediorientale.
Da questi timori, o per meglio dire paure, è scaturito l´attivismo diplomatico dei sauditi, spingendoli (sorretti come sono dai colossali introiti petroliferi degli ultimi anni) ad occupare sul fondale della regione un ruolo che non avevano mai avuto. Contatti segreti con Israele, mediazioni in Libano, aiuti economici e consigli di moderazione ai palestinesi: e nello stesso tempo intese con Washington e i governi europei. La proposta saudita non potrebbe far strada, infatti, se restasse un´offerta di mediazione dei soli paesi arabi, perché in questo caso Israele avrebbe più d´un motivo per respingerla, così come aveva fatto alla sua prima formulazione nel 2002. Ma se il piano di re Abdallah dovesse trovare - come già sembra, sia pure vagamente, d´intravedere - l´appoggio dell´America e degli europei, allora potrebbe porsi come un´altra grande occasione per giungere alla pace in Palestina.
Un´occasione come quella emersa a Camp David nel 2000, stavolta da non mancare.
Il tentativo arabo trae la sua efficacia, le sue possibilità di successo, dalla gravità del contesto mediorientale sopra descritto. Se già non vacillano, i regimi pro-occidentali della regione sanno bene che potrebbero presto vacillare. La spinta che viene dalle loro piazze, esaltate dagli islamisti ed esulcerate dal dramma palestinese, non fa che crescere. E poi c´è l´Iran: che a quanto sembra oggi, presenta due sole eventualità.
O che dai suoi laboratori esca l´arma nucleare, oppure che l´aviazione degli Stati Uniti - con o senza l´appoggio israeliano - vada prima a distruggere quei laboratori. In tutti e due i casi, un catastrofico sconvolgimento degli assetti regionali.
Per i regimi «moderati», il tempo per aspettare e vedere s´è dunque esaurito. Hanno atteso per molti anni che l´America riuscisse a disinnescare la mina del conflitto israelo - palestinese, ma adesso sanno che l´America può fare poco. E la contesa per la Palestina, anche se non è certo l´unica causa del dilagare fondamentalista e delle convulsioni politiche del mondo arabo, è il solo terreno dove al momento si possa tentare di giungere ad un compromesso, un accordo, che allenti almeno in parte le tensioni cui è sottoposto il Medio Oriente. Da qui la necessità di compiere ogni sforzo possibile, assumendosi i relativi rischi, per far uscire dallo stallo in cui marcisce il conflitto tra Israele e i palestinesi.
Azzardare previsioni riguardo a una parte di mondo che da mezzo secolo sta smentendo ogni previsione, non avrebbe senso. Il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, si dice pronto a partecipare ad eventuali incontri con emissari arabi, ma queste sono per ora soltanto parole. La realtà è che la maggioranza del Parlamento d´Israele, tolti i laburisti e il piccolo partito Meretz, respinge l´idea d´un ritiro ai confini del ‘67. E comunque il governo israeliano ha giustamente bisogno di garanzie riguardo ad un capitolo della proposta saudita, vale a dire il «diritto al ritorno» dei profughi palestinesi alle case che dovettero abbandonare nel ‘48 e nel ‘67. Israele potrebbe infatti accettare il ritorno d´una quota simbolica del milione e mezzo di profughi (mentre gli altri verrebbero risarciti con l´aiuto finanziario della comunità internazionale), ma non può certo accoglierli tutti.
Una svolta, insomma, c´è stata, ma i suoi sviluppi restano incerti. La parola, anche se sarà pronunciata a bassa voce, nelle forme più discrete, è adesso all´amministrazione Bush e ai governi europei. Solo il loro appoggio può dare consistenza e credibilità alla proposta saudita. E comunque una cosa è certa. Il quadro mediorientale è già oggi assai allarmante, gravido d´incombenti minacce per tutti: ma a lasciarlo così com´è, senza tentare di decongestionarlo, può solo precipitare verso altri disastri come quello irakeno.

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