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La Repubblica Rassegna Stampa
24.07.2006 Testimoni inattendibili della storia di Israele
sono Sandro Viola e Bernardo Valli

Testata: La Repubblica
Data: 24 luglio 2006
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola - Bernardo Valli
Titolo: «La lotta di Israele per sopravvivere - Dal ´48 a oggi 60 anni in trincea»

Su “Repubblica” del 21 luglio i due “gemelli” Bernardo Valli e Sandro Viola, che da decenni si affiancano e sostengono a vicenda nel criticare Israele in maniera unilaterale, hanno saputo dare il meglio delle loro capacità e della loro coerenza.
Sommando in tre pagine i loro ricordi personali di testimoni (inattendibili) della storia d’Israele dal 1948 ad oggi, entrambi hanno disegnato con una sequenza di quadri singoli e slegati il quadro di un Israele padrone arrogante e spregiudicato, conquistatore e dominatore senza scrupoli. Le guerre vi appaiono come episodi senza cause o conseguenze, ed in quelle tre pagine fitte non una sola volta – ripeto, non una sola volta – Valli e Viola hanno fatto cenno al fatto che tre guerre di annientamento (1948,1967,1973) sono state scatenate da coalizioni di stati arabi decisi dichiaratamente a distruggere lo stato d’Israele, che ha dovuto difendersi ed ha avuto il torto di vincere.
Se invece di ricordare con nostalgia i loro soggiorni di poveri cronisti nel lussuoso King David Hotel avessero offerto un minimo di analisi critica sulle cause di quelle e delle altre guerre combattute da Israele (l’unica che abbia goduto della loro attenzione è stata quella, nel complesso quadro del cinquantennio abbastanza insignificante, del 1956) forse avrebbero reso un servizio migliore alla verità ed al rispetto dei loro lettori.
In tutte le guerre che Israele ha combattuto per sopravvivere, unico stato al mondo in questa condizione, non un solo soldato del mondo occidentale ha preso le armi al suo fianco, non una bomba che non fosse israeliana è stata sganciata sul nemico, l’ONU ha speso nulla più che parole e non ha saputo inviare altro che spaventati osservatori che alla prima richiesta (Nasser, 1967) hanno sgomberato velocemente le loro postazioni per fuggire. Per il Kossovo e per altre nazioni, giustamente, il mondo occidentale è sceso in campo con tutta la sua potenza di fuoco; per Israele mai.
E poi dobbiamo sorbirci i vari Valli Viola e c. che criticano la supremazia arrogante e presuntuosa di Israele!

 

 

Federico Steinhaus

Di seguito, l'articolo di Bernardo Valli:

SEMPRE, con puntiglio, all´avvio degli anni Sessanta, nel Cairo di Gamal Abdel Nasser, davanti al Nilo che scorreva sotto la finestra, o nella Gerusalemme ancora divisa, davanti alle Torre di David che sorgeva oltre il muro di separazione, nella zona araba, evitavo di scrivere "ebrei" al posto di "israeliani". Mi ero imposto istintivamente quella regola. E non ero certo il solo. Cronista alle prime esperienze mediorientali, agivo come se non mi fosse permesso dalla recente Storia europea di usare la parola "ebreo" in un contesto politico soggetto a critiche. Le critiche, di cui non mi privavo, erano invece consentite, pensavo, nei riguardi di uno Stato sovrano e temporale, quale era Israele.
Un giorno, al Cairo, chiesi a un collega assai più esperto di me se il mio comportamento non fosse ambiguo. Sospettavo che lo fosse. Avevo l´impressione di camminare su un terreno psicologicamente minato. La risposta dell´amico non fu soltanto ironica. «Se tu scrivessi ebrei invece di israeliani - disse - coinvolgeresti anche me che sono ebreo, ma non israeliano, e che sono antisionista».
Era un ebreo nato in Egitto, l´avevo dimenticato, e aveva la nazionalità francese. A lui Ben Gurion, fondatore di Israele, avrebbe detto scherzando: « Lei è il terzo grande ebreo anti-sionista dopo Lev Trotzki e Isaac Deutscher».
E di Deutscher, lo storico, quel collega franco-egiziano evocava spesso una immagine, diventata famosa. Un´immagine che suonava cosi: è come se qualcuno fosse stato gettato dalla finestra e cadendo avesse schiacciato un passante. La vittima defenestrata era l´ebreo e la vittima ignara il palestinese. La metafora era ben lontana dal riassumere l´intera questione israelo-palestinese, le cui radici sono molto più profonde, lo so, ma fu usata a lungo, non senza successo. Sempre al Cairo chiesi a quel collega, ancora oggi conferenziere nelle università americane, come si comportasse in quella sua posizione, per me allora singolare. E la risposta fu: «Io non ho i tuoi complessi. Ne sono esentato».
Sono ritornato indietro di quasi mezzo secolo per ricordare quanto fossero tormentati, anche allora, i sentimenti suscitati da Israele. E non era poi tanto strano - come non lo è adesso - che fossero tali. A quell´epoca lo Stato di Israele (del quale David Ben Gurion, il vecchio leone capo dell´Agenzia ebraica, aveva fondato, dichiarando l´indipendenza il 14 maggio 1948) aveva appena quindici anni. Ed era nato in condizioni che vale la pena riassumere, perché sono ben lontane da quel che, nella situazione politica internazionale del nostro secolo, un europeo digiuno di Storia potrebbe immaginare.
Nella seconda metà degli anni Quaranta, appena conclusa la guerra mondiale, americani e inglesi osservavano perplessi l´affluire in Palestina di tanti profughi ebrei provenienti dall´Europa centrale, molti dei quali superstiti dei campi di sterminio nazisti. Il drammatico flusso migratorio, uno dei tanti in quel dopoguerra, seguiva la strada del sionismo, ideato dal giornalista austriaco Theodor Herzl, colpito dall´antisemitismo scatenato dall´affare Dreyfus e dai pogrom nell´Europa orientale, alla fine dell´Ottocento. Quello sionista era un movimento laico, e laico era Ben Gurion, il quale a chi gli chiedeva su quella legittimità si basasse il ritorno degli ebrei a Gerusalemme, rispondeva: la Bibbia. La Bibbia in quanto storia del popolo ebraico.
Inglesi e americani, secondo Abba Eban, futuro ministro degli Esteri israeliano, sospettavano che «quegli immigrati portassero con sé il virus del comunismo e potessero introdurlo in Medio Oriente». Pensavano che tra i profughi potessero annidarsi tanti discepoli di Marx, Trotzki, Rosa Luxemburg. I quali avrebbero suscitato scompiglio nella Terra Santa circondata da pozzi di petrolio. La Gran Bretagna, della quale stava spirando il Mandato sulla Palestina, aveva bloccato a lungo con la sua flotta le navi degli ebrei diretti in quello che sarebbe diventato molto presto lo Stato di Israele, e aveva trasformato Cipro in un campo di concentramento. L´ampiezza e l´orrore dell´Olocausto non erano ancora stati compresi del tutto e una delle potenze vittoriose poteva assurdamente creare nuovi luoghi di detenzione per ebrei. Le peregrinazioni dell´Exodus, fermata al largo di Gaza nel ´47, i cui cinquecento ebrei a bordo vagarono da un porto all´altro, fino a quando non approdarono ad Amburgo, sono rimaste il simbolo di quella tragedia.
Al momento della prima guerra arabo-israeliana (guerra di indipendenza per gli israeliani), per non essere accusata di parzialità, Washington decretò l´embargo sulla consegna di armi a entrambi i campi. Oltre che sul sostegno degli amici sparsi nel mondo, i combattenti ebrei poterono contare sulle armi cecoslovacche, trasportate da aerei sovietici. L´Unione Sovietica fu la prima potenza a riconoscere in pieno, de jure, lo Stato di Israele (tre giorni dopo che gli Stati Uniti l´avevano riconosciuto soltanto de facto).
La seconda guerra arabo-israeliana, nel 1956, è scaturita da una situazione ancora più eccentrica rispetto a quella oggi sotto i nostri occhi. Ferito, offeso dal rifiuto americano di finanziare nell´Alto Nilo la diga di Assuan, destinata ad ampliare le terre irrigate e ad accrescere l´energia elettrica, Nasser nazionalizzò la Compagnia del Canale di Suez, tra lo stupore e l´indignazione dell´Occidente. Creata da Ferdinand de Lesseps, la Compagnia aveva una concessione di novantanove anni sul Canale, preziosa scorciatoia artificiale scavata tra il Mar Rosso e il Mediterraneo. Subito le vecchie potenze europee, Francia e Inghilterra, progettarono un intervento militare, che gli storici giudicano l´ultimo atto della "politica delle cannoniere". Meglio ancora l´ultima spedizione coloniale. Con gli accordi (oggi non più) segreti di Sévres, Parigi e Londra associarono all´operazione Israele, ansioso di vibrare un colpo al raìs egiziano, che sognava la rivincita all´umiliante sconfitta araba del ´48. Anche per questo Nasser aveva cacciato re Faruk e proclamato la repubblica, quattro anni prima.
Ad Antony Eden, primo ministro conservatore, il destino di Israele non interessava molto. Anzi, Eden dovette nascondere l´intesa con lo Stato ebraico. Non era popolare nel Regno Unito avere come alleati coloro che avevano attaccato, anche con atti terroristici, le forze britanniche in Palestina, all´epoca del Mandato. Eden vedeva però in Nasser un nuovo Hitler, e non voleva ripetere l´errore della conferenza di Monaco (1938), di cui era stato uno dei protagonisti, e dove le potenze democratiche si erano lasciate gabbare dal dittatore tedesco, affiancato da Mussolini. Diverso era l´atteggiamento del francese Guy Mollet, primo ministro socialista. Mollet era ancor più convinto di Eden della pericolosità di Nasser. Anche lui lo considerava un nuovo Hitler; e sosteneva che La filosofia della rivoluzione, testo ideologico della rivoluzione nazionalista egiziana, equivalesse al Mein Kampf, testo ideologico del nazismo. Inoltre i capi dell´insurrezione algerina, contro la quale la Francia era impegnata da due anni, erano accampati al Cairo.
Al contrario di Eden, del quale era grande amico, Mollet era un fervente ammiratore di Israele. La Francia era il maggior fornitore di armi dello Stato ebraico (al quale dette anche il know how e i primi ingredienti per la bomba atomica). Mollet considerava Israele il solo paese in cui si stesse costruendo una vera società socialista. Leader di una sinistra riformista pensava che ci si dovesse ispirare a Israele, e non all´Unione Sovietica. Il sionismo laburista aveva proclamato l´indipendenza ed era ancora al governo nella Gerusalemme israeliana. I kibbutz originali erano l´esempio e la meta di non pochi giovani europei desiderosi di fare un´esperienza socialista, diversa da quella sovietica. L´avvento al potere del sionismo revisionista (di destra) ha poi cambiato la società.
Allo scoppio della terza guerra arabo-israeliana, nel 1967, l´immagine di Israele prevalente in Occidente era tuttavia sostanzialmente ancora la stessa. Ma subito dopo il successo militare, e le emozioni per il recupero del Muro del Pianto, nel cuore della vecchia Gerusalemme, fino allora proibito agli ebrei, su quell´immagine si sono addensati tanti contrasti. Nessuno meglio di Yeshayahu Liebovitch, grande intellettuale religioso e scienziato, ha descritto i guasti prodotti nella società sionista dall´occupazione dei territori abitati da palestinesi, tra la striscia di Gaza e il fiume Giordano. Dalla nuova sconfitta araba, avvenuta nel giro di sei giorni, è emersa in modo netto, quarant´anni fa, la Palestina.
La quale aspetta ancora lo Stato promesso, mai realizzato e forse irrealizzabile. E´ un´altalena. A ondate prevale puntuale la solidarietà a Israele, quando la sua esistenza di paese democratico appare minacciata. E a ondate prevale la comprensione per la Palestina ribelle e repressa. Come in una ferita aperta si insinuano tanti parassiti, cosi nel dramma si inseriscono forze che attizzano l´odio. La piaga non si cicatrizza e puntualmente si allarga.

Di seguito, l'articolo di Viola: 

LE PRIME immagini d´Israele che riesco a pescare nel fondo della memoria, sono immagini di Gerusalemme. È il gennaio 1964: Paolo VI sta per iniziare la sua visita in Terra Santa, Camilla Cederna ed io, ambedue inviati dell´Espresso, l´abbiamo preceduto d´un paio di giorni. Abitiamo al King David, dove ci sono anche gli inviati del Corriere della sera: Eugenio Montale, Dino Buzzati, Alberto Cavallari.
In quel 1964, Gerusalemme è divisa lungo le linee fissate dall´armistizio del ´48: la città ebraica ad ovest, la città araba – sotto amministrazione giordana – ad est.
L´unico varco tra i due settori è la cosiddetta porta di Mandelbaum, un tratto d´asfalto fitto di reticolati e blocchi di cemento, sorvegliato su un versante dai poliziotti israeliani e sull´altro dalle truppe beduine di re Hussein, tutti armati sino ai denti.
Le tracce della guerra che nel ´48 ha portato alla fondazione dello Stato d´Israele, sono ancora ben visibili. Carcasse rugginose di autoblinde ai piedi delle mura di Solimano, qualche casa sventrata dalle artiglierie, strade deserte, fili spinati e postazioni di mitragliatrici ogni volta che ci s´avvicina alle linee di confine.
Ortodossi a parte, con i loro caffettani neri, i cappelli a staio e le barbe incolte, gli israeliani somigliano ancora agli uomini e alle donne che avevamo visto nelle foto dell´impresa sionista. Facce cotte dal sole, abbigliamento sommario (e infatti il primo ministro Ben-Gurion e gli altri politici non portano la cravatta), case modeste e i modi scabri dei pionieri. Ma nella parte ebraica di Gerusalemme un paio di caffè e pasticcerie con lampadari di cristallo e tavoli di marmo, testimoniano lo sforzo accorato degli ebrei affluiti dall´Europa per conservare lì in Oriente, tra sabbia, agavi e reticolati, una pur minima parvenza delle vite che avevano vissuto tra il Danubio, la Moldava e la Vistola.
Tre anni dopo, alla vigilia della guerra dei Sei giorni, il volto d´Israele è già diverso. Arrivo a Tel Aviv quando la guerra è ormai vicina, e quel che vedo non ha più niente a che fare con le illustrazioni della saga sionista e col ricordo della vecchia Europa. Le immagini sono adesso quelle d´un paese militarizzato, efficientissimo.
Poiché gli uomini sono già tutti sui vari fronti di guerra, la sala stampa e il centro di trasmissioni per i giornalisti stranieri sono stati affidati agli adolescenti delle due grandi organizzazioni giovanili, l´Hashomer Hozair e l´Hazofim.
Eppure, in mano a quei quindicenni, funzionano perfettamente. Alle fermate degli autobus, gruppi di donne-soldato col mitra a tracolla e la gonna al ginocchio. Quanto all´atmosfera, essa è a metà ansiosa (per strada un passante su due ha il transistor incollato all´orecchio per ascoltare le ultime notizie) e a metà baldanzosa.
Vado infatti a trovare Shimon Peres, ministro dei Trasporti, e mi assicura che l´esercito d´Israele sarà alla periferia del Cairo in pochi giorni.
Con la schiacciante vittoria in quella guerra, Israele volta definitivamente pagina. A cavallo degli anni Settanta, a Gerusalemme ormai riunificata o a Tel Aviv sempre più irta di grattacieli, gli iraeliani che incontro recano ancora i segni della sbornia d´entusiami, orgoglio, sicurezza d´invincibilità, seguita al trionfo sugli eserciti arabi. I giovani vogliono tutti entrare nell´aviazione, le librerie sono piene di album fotografici dedicati ai generali vincitori, Dayan, Rabin, Gur, Sharon.
E´ in quegli stessi anni che noi giornalisti cominciamo il va e vieni dai Territori occupati, Giudea e Samaria soprattutto, Ramallah, Nablus, Hebron. I luoghi sono molto belli, i palestinesi ci offrono caffè aromatizzato al cinammono, e la situazione è calma. La gente è rassegnata all´occupazione. Del resto tutti, i palestinesi e noi, pensiamo che durerà soltanto pochi anni. Ma non è quello, purtroppo, che stanno pensando la classe politica e l´intera società israeliane. Il morbo espansionista si sta già aprendo la strada, il fanatismo dei religiosi lo favorisce, un "establishment" militare sempre più influente mira anch´esso a mantenere l´occupazione.
Ora le immagini di quarant´anni di soggiorni in Israele affiorano più veloci, e tutte maledettamente simili. Immagini di guerre, crisi, piani di pace andati in fumo. Sono a Tel Aviv durante l´"attrition war" del ´69-´70, e nelle settimane successive alla guerra del Kippur, l´autunno ´73, sono a Gerusalemme. Al King David si vede ogni tanto Henry Kissinger, che fa la spola col Cairo per patrocinare un trattato di pace tra Egitto e Israele.
Intanto, mentre nei Territori occupati la condotta israeliana si fa sempre più dura e ingiusta, il paese sta cambiando. L´immagine guerriera si va sbiadendo, emerge l´edonismo, i costumi si rilassano. Tel Aviv è strapiena di discoteche, Israele si americanizza. E´ iniziato il post-sionismo.
Ma il dramma, nello Stato degli ebrei, è sempre alle porte. Nel giugno ´82, risalgo al seguito dell´esercito israeliano il sud del Libano durante l´insensata invasione decisa da Sharon. Un giorno i Press officers dell´esercito ci conducono alla periferia di Beirut est, e lì, su un poggio che guarda tutta la città, gli ufficiali israeliani si stanno fotografando l´un l´altro a immortalare il primo assedio d´Israele ad una capitale araba. I bombardamenti da terra e dall´aria su Beirut ovest, dove stanno i palestinesi, si susseguono: pochi giorni, e non c´è più legno per le bare dei morti di religione cristiana. In settembre faccio una pausa, rientro a Roma, e apprendo dai giornali l´orrore della strage a Sabra e a Chatila.
Nel ´93 ecco finalmente gli accordi di Oslo, la speranza d´una intesa di pace con i palestinesi. Ma nel ventre d´Israele si muovono forze oscure, perniciose. Andiamo a Hebron a parlare con qualche amico palestinese, e vediamo i coloni israeliani armati di mitra sbatacchiare gli arabi al passaggio, rovesciare una bancarella al mercato per un disaccordo sul prezzo di qualche arancio, agitare il mitra contro un´auto che li rasenta. I brutti segni d´una brutta colonizzazione, d´una indebita, sfrontata appropriazione della terra altrui. E infatti il 22 febbraio ´94 il dentista Baruch Goldstein entra nella moschea, e ammazza a raffiche di mitra cinquantadue palestinesi. E infatti il 5 novembre ´95, un ultraortodosso fanatico ammazza Ytzhak Rabin con tre rivoltellate alle spalle.
Le immagini d´Israele si fanno torve, i discorsi degli intellettuali israeliani con cui andiamo a parlare sono sempre più sconsolati. Dal 2001 comincia la stagione dei kamikaze, le bombe che camminano. Il trauma è fortissimo. A Gerusalemme ci sono giorni in cui le strade del centro appaiono pressoché deserte. Nel 2004 c´è l´ultimo piano di pace, la "road map", e anch´esso finisce in niente. Un´ultima speranza s´accende ad agosto 2005 con il ritiro da Gaza, ma poi lo scontro ricomincia. E oggi, riecco il Libano. Le bombe sui ponti del Litani, su Sidone, sulla periferia di Beirut. Un film che scorre all´indietro, un altro 1982.


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