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La Repubblica Rassegna Stampa
06.01.2006 Invettive, accuse, stravolgimenti della realtà
è l'analisi di Sandro Viola sul quotidiano dell'Ing.de Benedetti

Testata: La Repubblica
Data: 06 gennaio 2006
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: «Il vuoto sulla scena»

Non si smentisce Sandro Viola su REPUBBLICA. La sua analisi è tutta impostata nell'attribuire a Israele ogni tipo di responsabilità, anche se si rammarica della quasi sicura scomparsa dalla scena di Sharon. Riportiamo a mo' d'esempio una sola frase:

".. Non che Sharon avesse dato una mano, dopo il ritira da Gaza,ai dirigenti palestinesi. Anzi, ne aveva in vari modi aggravato le difficoltà.Basta pensare che non uno dei coloni che tra ottobre e novembre con prepotenza odiosa aveavno divelto o segato alla base migliaia di ulivi palestinesi, è mai stato arrestato. Basta pensare agli aerei da combattimento israeliani che passano su Gaza più volte al giorno, rompendo il muro del suono e scuotendo i timpani, i nervi, la mente della popolazione. E' anche per questo, infatti, che il prestigio di Abu Mazen è andato sempre più precipitando: perchè la sua gente s'accorgeva della sua incapacità di proteggerli, della sua totale impotenza nei confronti d'Israele".

Raramente abbiamo letto un cumulo di fandonie cosi impressionante. E'stato Sharon ad aggravare la situazione dei palestinesi. Sono stati i coloni ad aver segato gli ulivi (ma chi gliel'ha detto a Viola ? può essere che qualcuno l'abbia anche fatto, gli israeliani non sono mica un popolo di santi, ma sparare quelle "migliaia", mavalà Viola ! ridicola quella degli aerei ! cosa vuole che faccia Israele quando da Gaza lanciano missili Kassam (quelli si migliaia) sulle città di frontiera, che stiano a guardare ? la smettano di sparare missili e avranno timpani,nervi e menti tranquille.

Riportiamo qui tutto l'articolo, pieno di spunti (sputi ?) per permettere ai nostri lettori di scrivere le loro opinioni a REPUBBLICA.

Ora che Sharon è stato costretto ad uscirne, la scena politica israeliana che avevamo avuto sotto gli occhi nell´ultimo paio d´anni, s´è fatta indecifrabile. La recita che ancora vi si svolge, le dichiarazioni dei politici, le manovre dei partiti, i sondaggi, i bollettini medici, i commenti dei giornali, tutto sembra senza senso. Quasi fosse la messa in scena d´un "Amleto" senza Amleto. Gli altri personaggi sono ancora lì, Gertrude e Claudio, Ofelia e Orazio, Polonio, Rosencrantz e Guildenstern. Si muovono da un lato all´altro del proscenio, pronunciano le loro battute come da copione. Ma senza Amleto, il dramma non ha più né capo né coda.
Questa, mentre Sharon resta tra la vita e la morte, è la prima cosa da dire. Non è uno dei personaggi principali, infatti, che si ritira dalla vicenda politica dello Stato ebraico. E´ il protagonista. Il personaggio a fronte del quale tutti i politici israeliani, di destra e di sinistra, erano parsi in questi ultimi cinque anni una frotta di gnomi. E al suo posto (sia che sopravviva da inabile, sia che muoia) c´è adesso un vuoto impressionante.
Un vuoto che non sconcerta, disorienta, la sola società israeliana, ma chiunque sia in qualche misura coinvolto nei destini d´Israele. La presidenza degli Stati Uniti, la diplomazia europea, e soprattutto i palestinesi.
Perché Sharon s´alza dal tavolo della tremenda e interminabile partita che si gioca da un secolo in Palestina, nel momento in cui l´altro versante, il mondo palestinese, è in pieno marasma. Si spara nelle strade di Gaza e di Nablus, gli osservatori stranieri giunti a controllare il valico di Rafah hanno dovuto ritirarsi, nessuno argina più la galassia dei gruppi armati.
La leadership di Abu Mazen ha ormai la consistenza d´un ectoplasma, la rissa interna ad Al Fatah continua furibonda, le elezioni del 25 gennaio verranno forse rinviate.
E in più la "hudna", la tregua che nonostante gli sporadici attentati della Jihad islamica e le rappresaglie israeliane durava dal gennaio dell´anno scorso (con un drastico calo dei morti da ambedue le parti), è adesso scaduta.
Non che Sharon avesse dato una mano, dopo il ritiro da Gaza, ai dirigenti palestinesi. Anzi, ne aveva in vari modi aggravato le difficoltà.
Basta pensare che non uno dei coloni che tra ottobre e novembre, con prepotenza odiosa, avevano divelto o segato alla base migliaia di ulivi palestinesi, è mai stato arrestato. Basta pensare agli aerei da combattimento israeliani che passano su Gaza, più volte al giorno, rompendo il muro del suono e scuotendo i timpani, i nervi, la mente della popolazione. E´ anche per questo, infatti, che il prestigio di Abu Mazen è andato sempre più precipitando: perché la sua gente s´accorgeva della sua incapacità di proteggerli, della sua totale impotenza nei confronti d´Israele.
Eppure, si può esser certi che l´uscita di Ariel Sharon dalla scena angustia la parte moderata, la più realista e aperta ad un possibile negoziato, della dirigenza palestinese. Perché Sharon era, in Israele, il potere: ed è soltanto con chi ha il potere che è possibile trattare, intendersi.
Mentre oggi con chi dovrebbero dialogare, i palestinesi? Sharon, nel bene e nel male, lo conoscevano da decenni. Ne conoscevano la durezza, la spinta irrefrenabile che lo portava sistematicamente all´ "escalation" sul terreno, ma anche la capacità di tener fede alla parola, e soprattutto la determinazione con cui aveva affrontato, nei giorni del ritiro da Gaza, la rivolta dei coloni e del sionismo religioso.
Ma adesso qual è, in Israele, l´interlocutore cui i palestinesi possano riconoscere una credibilità, il potere d´imporre al paese, nella prospettiva delle elezioni di marzo, una linea politica? Certo: c´è il nuovo leader del Labor, Amir Peretz, da sempre contrario al mantenimento delle colonie nei Territori occupati. E nel partito che Sharon aveva appena fondato, Kadima, ci sono il vecchio Shimon Peres (l´architetto degli accordi di Oslo) e alcuni giovani parlamentari che nel Likud scalpitavano – ormai insofferenti dell´oltranzismo della destra – già da prima che vi cominciasse a scalpitare Sharon. Ma da mercoledì sera, da quando s´è capita la gravità delle condizioni in cui versa il primo ministro, un pilastro della prossima campagna elettorale è caduto.
Dovevano essere infatti le prime elezioni israeliane in cui il tema della "sicurezza" – con cui le destre israeliane hanno sempre giustificato la necessità dell´occupazione – sarebbe passato in secondo e forse terzo piano.
Kadima aveva come slogan «Sharon: un leader forte per la pace», e il Labor di Amir Peretz avrebbe puntato sull´utilizzo nella spesa sociale delle risorse sinora assorbite dalle colonie. Ma adesso è diverso: con il Likud di Netanyahu che giocherà tutte le sue carte, ancora una volta, sulla questione "sicurezza", che poi vuol dire niente ritiri dai Territori, niente negoziato con i palestinesi, chi oserà lasciare la bandiera della «sicurezza» nelle mani delle sole destre? Poteva farlo Sharon, l´uomo forte, il "bulldozer", l´autore delle più travolgenti e sanguinose rappresaglie contro gli attentati palestinesi. Non potranno farlo i suoi epigoni. E perciò prepariamoci. Nella campagna elettorale si parlerà poco, di sfuggita, d´un riavvio del negoziato.
Negli ultimi giorni, dicono i suoi intimi, «Arik non era più lo stesso». E in effetti, contro "the warrior", il guerriero (come recita il titolo della più nota biografia di Sharon), s´era scatenata negli ultimi giorni una tormenta. Intanto lo teneva in ansia l´operazione al cuore programmata dopo il primo ictus, che avrebbe dovuto aver luogo, se non fosse sopravvenuta la nuova emorragia cerebrale, ieri giovedì. Come molti uomini forti, forti in battaglia, o nella contesa politica, o nelle lotte per il potere economico, anche Ariel Sharon era trepido, timoroso, al pensiero dei ferri chirurgici.
Ma oltre al peso di quest´ansia, s´era poi riacceso lo scandalo dei finanziamenti illeciti che lui e suo figlio avevano ricevuto tempo fa da due affaristi tedeschi. Stavolta sembrava che la polizia avesse trovato prove consistenti del passaggio di danaro, e Sharon stava misurando tetro, il morale forse già incrinato, le conseguenze che lo scandalo avrebbe potuto produrre sulla campagna elettorale del suo nuovo partito.
Su Kadima, il partito «centrista» – come lui stesso l´aveva definito –, il guerriero aveva messo come posta l´intera sua storia.
Oltre mezzo secolo di battaglie militari e politiche, che gli avevano sì procurato, e giustamente, critiche feroci (per il disastro libanese, per Sabra e Chatila, per la passeggiata sul piazzale delle moschee da cui era scaturito l´innesco della seconda Intifada), ma ne avevano anche fatto il più importante uomo politico israeliano dopo Ben Gurion e Rabin. Nelle ultime settimane, tuttavia, molte cose erano mutate, e Sharon doveva porsi domande assai dolenti. Che ne sarebbe stato per esempio di Kadima, ora che il suo leader stava per presentarsi agli elettori come scampato a una prima emorragia cerebrale, e inoltre investito dal lezzo d´uno scandalo clamoroso? Se «Arik non era più lo stesso», come dicono i suoi amici, è quindi perché sentiva tutto il peso di questi ultimi rovesci. E forse aveva addirittura capito che quel peso lo stava ormai stroncando.
Quanti abbagli, per chi seguiva la contesa israelo-palestinese. Due o tre anni fa dicevamo in molti che la sola via d´uscita dal groviglio del conflitto poteva essere la scomparsa dei due vecchi duellanti, Yassir Arafat e Ariel Sharon, seguita dall´ingresso di due leaders più giovani, meno avvelenati dall´avversione personale, con meno memorie drammatiche, e perciò più moderati e flessibili. Che errore: i due se ne sono andati, ma il quadro tutt´attorno è persino peggio di prima.
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