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La Repubblica Rassegna Stampa
10.10.2005 Gli improponibili parallelismi di Vargas Llosa, i sarcasmi intolleranti di Stabile
disinformazione a tutto campo

Testata: La Repubblica
Data: 10 ottobre 2005
Pagina: 20
Autore: Mario Vargas Llosa - Alberto Stabile
Titolo: «Cisgiordania, tra gli ultrà della fede»
LA REPUBBLICA di lunedì 10 ottobre 2005 pubblica a pagina 20 la quinta puntata del reportage di Vargas Llosa da Israele e dai Territori (per gli articoli precedenti vedi su Informazione Corretta: "Le "domande" di Vargas Llosa sono solo risposte dettate dal pregiudizio", 2005-10-03 "Vargas Llosa non capisce il terrorismo suicida" 2005-10-04 e "Ora Vargas Llosa se la prende con la barriera difensiva" 2005-10-05 e "Le verità precostituite di Vargas Llosa",2005-10-07) .

Nel suo nuovo articolo, "Cisgiordania tra gli ultà della fede" Vargas Llosa si pone, come recita il sottotitolo, "a confronto un colono ortodosso e un combattente della Jihad", presentati come speculari incarnazioni dell'estremismo politico e del fanatismo religioso.
La differenza che passa tra chi, come il terrorista della Jihad, in nome delle sue convinzioni politiche e religiose uccide e chi, come il "colono ortodosso", mette soltanto in gioco la sua vita, per Vargas Llosa, capace di "far notare" al suo interlocutore jihadista che "l'immagine della Jihad islamica nel mondo è molto negativa" (ecco il vero problema!) "a causa degli attentati suicidi" non è evidentemente significativa.

Ecco l'articolo:

I credenti assoluti mi hanno sempre innervosito, anche se mi suscitano una certa invidia. Perciò non mi sento a mio agio nella casetta di Ezechiel e Odeya, coi loro tre bellissimi bambini che ci saltellano intorno. Ci troviamo in una delle linde villette dell´insediamento israeliano di Mizpeh Jerido, in Cisgiordania, dove vivono 300 famiglie (circa 1500 persone) militanti del movimento dei coloni e religiosi a oltranza. Non vanno confusi con gli haredim, i bizzarri abitanti di Mea Sharim a Gerusalemme, o del quartiere di B´nei B´rak a Tel Aviv, che ostentano i berretti di pelliccia e i pastrani dei loro antenati dei ghetti russi o polacchi e parlano yiddish: molti di loro rifiutano di riconoscere lo stato di Israele, sostenendo che ritardi con la sua esistenza l´arrivo del Messia. Gli haredim sono però una ristretta minoranza, mentre il movimento dei coloni ha una consistenza complessiva di decine e forse centinaia di migliaia di adepti, fautori del nazionalismo, del messianesimo e dell´ortodossia nelle sue espressioni più estreme. Amos Oz, che li definisce «pericolosissimi» per il futuro democratico di Israele, ha sicuramente colto nel segno.
Eppure, nessuno prenderebbe per un fanatico il 27enne Ezechiel Lifschitz, di padre israeliano e madre americana, affabile e delicato - almeno finché non parla di politica o di religione. Simpatico e pronto alla risata, si prende amorevolmente cura dei figlioletti e sopporta le loro marachelle con infinita pazienza. Due sono le parole che gli tornano costantemente alle labbra: «bontà» e «amore»; ma nei suoi occhi chiari, quasi liquidi, c´è lo sguardo di chi si sa in possesso della verità, e non è mai colto da un dubbio. Ezechiel è ingegnere informatico, e come molti altri coloni di Mizeph Jerico lavora a Gerusalemme, a mezz´ora di strada da lì.
«Noi credenti vediamo le cose in maniera diversa», mi dice. «Dio ha fissato una meta a ogni nazione. Il nostro ritorno in Israele era scritto nella Torah: e ora siamo qui. La nostra meta è ricostruire il paese che avevamo perduto. Così Israele darà il suo contributo per un mondo migliore. Questa terra ci è stata data da Dio, e Israele non potrebbe compiere la sua missione se non la rioccupasse tutta, senza decurtazioni - compresa la Giudea, la Samaria e Gaza».
Ezechiel e Odeya sono appena tornati da Gaza, dov´erano stati con varie migliaia di coloni a manifestare la loro solidarietà agli abitanti dei 21 insediamenti evacuati per ordine di Sharon. I genitori di Odeya, una ragazza timida e magra che sembra sommersa nel suo vestito troppo largo sono vissuti per 24 anni a Gush Katif, un insediamento costruito con le loro mani su un terreno che all´epoca era un deserto pietroso e rovente, infestato dai serpenti. Per loro quest´evacuazione è uno strappo doloroso. E non è la prima. Ventiquattro anni fa lo stesso Ariel Sharon, allora ministro della Difesa, li costrinse a lasciare l´insediamento di Yammit, nel Sinai, sul territorio restituito all´Egitto. Mia figlia Morgana e il suo fidanzato li hanno conosciuti a Gaza, quando tra pianti e preghiere speravano ancora che Dio apparisse per impedire quell´inconcepibile ingiustizia: «gli ebrei scacciati dalla terra ebraica».
«Per noi credenti, che amiamo la nostra nazione e il nostro esercito, l´evacuazione di Gaza è stata una grande sofferenza», aggiunge Ezechiel. «Nella comunità di Gush Katif, a Gaza, dove vivevano i genitori di Odeya, c´era un clima meraviglioso, e una dedizione costante al culto. Nessuno mai chiudeva la porta di casa. Mai un furto né un delitto, solo religione, cultura e tanta felicità per i bambini».
Curiosamente, nella sua argomentazione, Ezechiel - come del resto gli altri coloni - non pone in primo piano lo straordinario lavoro compiuto in condizioni difficilissime, con diligenza e spesso con eroismo, portando l´acqua in quelle terre deserte e sterili per trasformarle, grazie anche alle nuove tecniche, in comunità prospere e moderne. L´argomento che gli viene spontaneamente alle labbra per difendere la legittimità dell´occupazione è di segno divino: «Questa terra è nostra perché ci è stata data da Dio». Una ragione che però è valida solo per i credenti.
Una cosa è certa: se ho incontrato Odeya, non avrò mai la possibilità di vedere la moglie di Nafiz Azzam. Per gli islamisti messianici, la donna è un oggetto da non esporre alla pubblica contemplazione. I due credenti che ho incontrato, nemici inconciliabili, non potrebbero essere più diversi; eppure tra il giovane colono israeliano e l´estremista musulmano, dirigente della Jihad islamica, che mi ricevere in un tenebroso edificio della città di Gaza, in una stanza tappezzata di poster neri con frasi come «Allah è il più grande» e versetti del Corano, c´è un denominatore comune: sono entrambi credenti assoluti e intransigenti, dallo sguardo freddo, che per ogni problema hanno una risposta semplice e categorica.
In Palestina, la Jihad islamica ha un seguito di non più del 7% (molto inferiore a quello dell´altro movimento terroristico islamista, Hamas, al quale si attribuisce il 28-30%) ma è su posizioni ancora più radicali, e ancor meno disposta a fare concessioni al realismo politico. Nafiz Azzam ha 47 anni, ma ne dimostra qualcuno in più. Veste modestamente e ha un´espressione dura. Solo quando il più piccolo dei suoi figli, che gli è stato intorno per tutta la durata della nostra conversazione, gli si arrampica sulle ginocchia e si mette a giocare con la sua barba e i suoi capelli, quello sguardo terribile si addolcisce.
Nato nel 1958 a Rafah, ha studiato medicina in Egitto con Fathi al-Shukaki, fondatore del movimento. Nel 1981 è stato catturato e deportato a Gaza. E´ rimasto otto anni in un carcere israeliano, dove gli hanno spezzato una mano. Ma non hanno piegato il suo spirito. Ha organizzato scioperi, mobilitato i suoi compagni. Nel 1994 si è sposato, ed è padre di sei figli, cinque maschi e una femmina. «Non abbiamo nulla contro gli ebrei», mi assicura. «Nel Corano, Dio esorta i musulmani a essere generosi con chi non è credente. Ma cosa vengono a fare qui, sulla nostra terra? Gli israeliani hanno importato un milione di russi, e hanno dato loro le nostre case, i nostri villaggi. Tutti sanno che almeno metà di questi immigrati non sono neppure ebrei. E intanto noi palestinesi viviamo rinchiusi nei reticolati, costretti e chiedere un permesso per uscire anche solo per qualche ora da queste prigioni. Quale altro popolo sarebbe disposto a tollerare una cosa simile?»
Parla molto velocemente, guardando nel vuoto, come se recitasse. Il mio interprete fatica a seguirlo. «Il ritiro degli occupanti da Gaza è un fatto positivo», aggiunge «ma è solo un punto di partenza. Non se ne sono andati per loro volontà, ma costretti dalle lotte e dai sacrifici dei palestinesi. Ora però il nostro primo problema è un altro: quello della pace e della collaborazione tra noi palestinesi. Le discordie interne sono un regalo al nemico. Solo se saremo uniti potremo sconfiggere Israele». Quando gli faccio notare che l´immagine della Jihad islamica nel mondo è molto negativa a causa degli attentati suicidi, mi risponde con impazienza: «Le azioni dei nostri martiri sono una risposta alle stragi che Israele commette contro i nostri bambini, le donne, gli anziani. Noi abbiamo proposto la cessazione delle nostre azioni, purché anche loro facciano altrettanto. Ma non ci hanno neppure risposto». Quando gli dico di aver parlato, a Gaza, a Ramallah e a Hebron, con vari palestinesi che vedono la soluzione del problema in uno Stato laico binazionale, ove ebrei e musulmani possano convivere e mescolarsi, mi getta uno sguardo compassionevole, come si fa con un ritardato mentale. «La Palestina sarà una repubblica islamica, dove i credenti di altre religioni, ebrei o cristiani, saranno tollerati, ma a condizione che accettino di vivere secondo i precetti del Corano».
Il fatto che i combattenti della Jihad non abbiano la minima intenzione di rinunciare alle loro armi mi è stato confermato nel modo più eclatante pochi giorni dopo, quando ho assistito, su uno spiazzo alla periferia della città di Gaza, a una sorta di parata militare dei Comitati di Resistenza popolare. Lo spettacolo, un´apoteosi esaltata della guerra e del terrore, era anche una dimostrazione della totale irresponsabilità degli organizzatori. I combattenti, eccitati da canti bellicosi, frenetiche lodi ad Allah e versi del Corano diffusi tra la folla da assordanti microfoni scaricano fucili, pistole, lanciagranate e missili su bersagli di cartone raffiguranti bandiere israeliane; e in mezzo agli spari centinaia di ragazzini e bambini, alcuni appena in grado di reggersi in piedi, scorrazzano beatamente. Non riesco a spiegarmi come queste grottesche, insensate esibizioni possano concludersi senza lasciare a terra morti e feriti. E quindi non mi stupisco affatto quando leggo sui giornali, qualche giorno dopo la mia partenza da Israele, la notizie di un gravissimo incidente avvenuto durante un´analoga esibizione, organizzata da Hamas nel campo profughi di Yabalia, dove un camion carico di esplosivo è saltato in aria. Hanno perso la vita tutti i militanti a bordo e molti dei bambini che giocavano intorno all´automezzo. Come se non bastassero le bombe che Israele lancia di tanto in tanto sulle città palestinesi, per rivalersi degli atti terroristici sulla popolazione civile, i fanatici islamisti aggiungono il loro granello di sabbia al clima selvaggio che colpisce le donne e gli uomini più umili: nascondono armi e esplosivi nelle case, o si abbandonano a esibizioni belliciste che alla minima disattenzione possono trasformarsi in tragedie.
In mezzo a quel frastuono infernale sono riuscito a scambiare qualche parola con un giornalista della televisione palestinese, disgustato quanto me da quello spettacolo. «Questi qui», mi ha detto indicandomi gli uomini mascherati con i fucili «saranno il nostro più grosso problema, quando avremo finalmente raggiunto la libertà. Come può funzionare una società democratica con fazioni di gente armata che non sa fare altro che la guerra?».
Mentre assistevo a quello spettacolo mi sono reso conto improvvisamente che tra i mille o duemila credenti assoluti che mi circondavano sparando qua e là non c´era una sola donna. Con l´unica eccezione di mia figlia che scattava foto, saltando in mezzo a quella baraonda. Allarmato, ho avvertito il suo fidanzato: «Stefano, guarda che qui Morgana è l´unica donna». «E io l´unico ebreo», mi ha risposto per consolarmi.
REPUBBLICA propone anche,a pagina 21, un articolo di Alberto Stabile: "Una Jesus-land a Tiberiade. Israele apre ai tele-evangelisti", dove con toni sarcastici viene presentato un progetto proposto da chiese evangeliche americane per la costruzione di un parco a tema religioso nei luoghi della vita di Gesù di Nazareth.
Gli evangelici americani, per Stabile, non sono propriamente cristiani. Riesce infatti a scrivere: "Costruire un Parco della Cristianità, con tanto di museo interattivo, studi televisivi satellitari e anfiteatro per cerimonie oceaniche a pochi chilometri dai luoghi che della cristianità sono la culla può sembrare un´idea per lo meno bizzarra. Tanto più se non risulta che le autorità religiose interessate ne siano a conoscenza".
Tutta opera, dunque, di quelli "pseudo-cristiani" degli evangelici e degli israeliani. Tutto per oscure finalità politiche (connesse ai convincimenti sionisti degli evangelici) e affaristiche. L'occhiello infatti recita: "Negoziati in corso tra il Likud e la destra cristiana Usa per sfruttare i luoghi dove visse Gesù". Ovvimente un parco religioso promosso dagli evangelici e approvato dagli israeliani non può servire che a "sfruttare" i luoghi dove visse Gesù.
Ed'è certo per questo che Stabile ritiene appropriato il sarcasmo che riversa sul ministro israeliano del Turismo Avraham Hirschon che, scrive, "in un afflato che non si può non definire evangelico" ha dichiarato che "se anche gli evangelici avranno un ruolo primario nella realizzazione del piano, il Grande Parco sarà aperto a tutti i cristiani".

Ecco il testo di un articolo che è un concentrato di intolleranza e di pregiudizi:

GERUSALEMME - Costruire un Parco della Cristianità, con tanto di museo interattivo, studi televisivi satellitari e anfiteatro per cerimonie oceaniche a pochi chilometri dai luoghi che della cristianità sono la culla può sembrare un´idea per lo meno bizzarra. Tanto più se non risulta che le autorità religiose interessate ne siano a conoscenza. Eppure, secondo il giornale Haaretz, il progetto promosso da alcune sette evangeliche americane avrebbe suscitato l´interesse del governo israeliano.
Il luogo prescelto per un´intrapresa che si annuncia a cavallo tra una Disneyland e una fabbrica di miracoli in diretta, come siamo abituati a vedere sui canali specializzati di alcuni network televisivi religiosi, sarebbe la zona che s´affaccia sul Lago di Tiberiade, uno dei paesaggi fondamentali del Vangelo. Dove, informano i promotori del Parco, «sarà possibile rivivere nel loro ambiente naturale i testi sacri del Cristianesimo».
Il governo israeliano sarebbe disposto a concorrere al progetto mettendo a disposizione centinaia di ettari di terreno compresi tra Cafarnao, Tabgha e la Montagna delle Beatitudini, mentre gli evangelici, guidati dal tele-predicatore fondamentalista Pat Robertson, si sarebbero impegnati a investire fra cinquanta e settanta milioni di dollari.
In un afflato che non si può non definire evangelico, il ministro del Turismo Avraham Hirschon, del Likud, ha sottolineato che, se anche gli evangelici avranno un ruolo primario nella realizzazione del piano, il Grande Parco sarà aperto a tutti i cristiani.
Non sappiamo quanto i cittadini israeliani siano impazienti di vedere sorgere l´opera progettata sulle rive del lago di Tiberiade. In questo momento sono ben altri i problemi che li agitano. Sappiamo, però, che il progetto ha avuto in passato il suo sponsor più autorevole in Benjamin Netanyahu, l´ex premier conservatore cui brucia ancora la sconfitta subita pochi giorni fa ad opera di Ariel Sharon nel duello decisivo per la leadership del Likud.
Sullo sfondo di questa storia si profila, in sostanza, la santa alleanza, che Netanyahu ha contribuito a forgiare, sin da quando era ambasciatore alle Nazioni unite, tra gli evangelici americani e la destra conservatrice israeliana. Gli evangelici credono infatti che la realizzazione della profezia, la Fine dei Tempi, potrà avvenire soltanto dopo che tutti gli ebrei saranno ritornati nella Terra d´Israele. Da qui non solo il riconoscimento che lo Stato ebraico ha il diritto di controllare tutti i territori della Promessa biblica, ma anche la considerazione secondo cui lo Stato israeliano favorisce esso stesso l´adempimento della Profezia divina.
Ma l´ideologia ha anche i suoi risvolti politici. Grazie alla loro ferrea amicizia, gli evangelici hanno goduto in Israele di un trattamento privilegiato sin da quando, 25 anni fa, hanno potuto aprire a Gerusalemme un´Ambasciata Cristiana Internazionale che non ha mai fatto mistero del suo iper-sionismo e non ha mai mancato di schierarsi con lo stato ebraico ogni qual volta le vicende del conflitto arabo-israeliano lo richiedessero.
In certe occasioni gli evangelici americani sono persino stati più realisti del re. Come quando si opposero alla restituzione del Sinai in seguito agli accordi di pace di Camp David e, più recentemente, allo smantellamento degli insediamenti da Gaza voluto da Sharon.
Passato anni fa indenne dall´accusa di propaganda antisemita, Pat Robertson non ha mai perso occasione di manifestare la sua totale adesione alle idee dell´estrema destra israeliana. «Gerusalemme non si tocca», disse una volta commentando l´ipotesi che i quartieri orientali della città santa diventassero capitale del futuro stato palestinese. Ma come tutti quelli che hanno sposato il dogma della Grande Israele si trova adesso a dovere fare i conti con il pragmatismo di Sharon.
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