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La Repubblica Rassegna Stampa
04.10.2005 Vargas Llosa non capisce il terrorismo suicida
anche se sa raccontare lo strazio delle sue vittime

Testata: La Repubblica
Data: 04 ottobre 2005
Pagina: 16
Autore: Mario Vargas Llosa
Titolo: «Israele, nei racconti del terrore ritorna l'incubo dei due popoli»
LA REPUBBLICA di martedì 4 ottobre 2005 pubblica la seconda parte del reportage di Mario Vargas Llosa la cui prima parte abbiamo recensito sotto il titolo "Le "domande" di Vargas Llosa sono solo risposte dettate dal pregiudizio" il 3-10-05.
Vargas Llosa affronta in questo nuovo articolo il tema del terrorismo suicida.
Stabilisce, pensate un po', che "qualunque analisi del conflitto israelo-palestinese deve tener conto dell'importanza nevralgica degli attentati suicidi", però in quanto "fonte di paranoia ( i paranoici vedono minacce che non esistono, non si può dire altrettanto degli israeliani, che si confrontano con una minnaccia molto reale, ndr), paura, rancore, desiderio di vendetta desiderio di vendetta" e in quanto pretesto invocato dalla destra israeliana per "giustificare una serie di misure di repressione e intimidazione contro la popolazione palestinese".
Vale a dire: non sono gli attentati suicidi a rendere necessarie le misure di sicurezza che inevitabilmente creano sofferenza alla popolazione palestinese, è la destra israeliana che vuole opprimere e intimidire i palestinesi e coglie l'occasione degli attentati suicidi per farlo!

In questo caso Vargas Llosa si chiede che cosa spinga i terroristi suicidi a commettere i loro crimini. Ignorando le evidenze di numerose ricerche indipendenti, che individuano nell'indottrinamento ideologico e religioso e nell'approvazione sociale le cause del fenomeno, Vargas Llosa si rifà a fonti palestinesi per concludere, convenzionalmente, che è la disperazione la motivazione degli uomini bomba.
Anche quando discute il caso concreto di Wafa Idriss, la prima attentatrice suicida, Vargas Llosa ignora il fatto noto che l'attentato era per la donna un modo di "riscattare l'onore perduto" in seguito al divorzio, dovuto al suo rifiuto di sottoporsi a cure per la fertilità e non solo alla sua sterilità come si legge nel suo reportage, e, sulla fragile base di dichiarazioni di famigliari della terrorista, lancia ad Israele accuse di "tortura" ai danni dei prigionieri palestinesi.

Vargas Llosa cita anche a sostegno delle sue analisi attiviti politici e medici palestinesi. Ciò che sembra non comprendere è che esiste una differenza sostanziale tra il dibattito interno auna società libera come quella israeliana e le "verità" di regime di una "società della paura" come quella palestinese. Aver trascurato questo fatto, un errore sorprendente in un intellettuale liberale, ha compromesso l'accuratezza e l'equità del reportage. Meglio sarebbe stato rivolgersi alle ricerche accademiche dedicate al fenomeno del terrorismo suicida che sono numerose e sostanzialmente concordi nel sottolineare il,peso dell'ideologia e dell'indottrinamento religioso.

Va comunque segnalata la prima parte dell'articolo, basata sul colloquio con una donna israeliana che ha perso la madre e la figlia in un attentato.
Qui il Vargas Llosa "ideologico" cede il posto al narratore e, con la sensibilità e la forza della sua scrittura, riesce nonstante tutto a trasmettere la verità essenziale sull'aggressione terroristica a Israele.

( a cura della redazione di Informazione Corretta)

Ecco il testo:

Pnina è nata a Gerusalemme nel 1967, durante la guerra dei sei giorni, da genitori lituani, ebrei religiosi e pionieri per vocazione. Ha sempre avuto una passione per lo spagnolo: concluso il suo biennio di servizio militare, è andata a studiare la lingua a Salamanca, e prima di tornare in Israele ha fatto un viaggio in Argentina, Brasile e Cile. Lavorava come guida turistica quando conobbe l´uomo che sarebbe diventato suo marito. Isaac Aizenman, un oftalmologo colombiano, era venuto in Israele da turista e non pensava affatto di stabilirsi qui; ma l´amore gli fece cambiare idea. Pnina e Isaac si sposarono, e nel 1997 nacque la loro prima figlia, che chiamarono Gal («onda del mare»); tre anni dopo arrivò Saggi, il secondogenito.
A 38 anni, è una donna molto bella, ma nei suoi grandi occhi e nel suo volto pallido c´è qualcosa di raggelato, una tristezza che è diventata una seconda natura. A giudicare dalle foto che ci mostra, Gal era una bimba stupenda: riccioli dorati, occhi verdi, sorriso birichino, gioia di vivere. Prendeva lezioni di danza, le piaceva moltissimo travestirsi da Topolino. Il 19 giugno del 2002 era un mercoledì. Noa, la madre di Pnina, aveva invitato la figlia e i due nipotini allo spettacolo per bambini che lei stessa aveva allestito all´asilo infantile in cui lavorava, a Ofra, un insediamento nei pressi di Ramallah. «Erano i giorni dell´Intifada, non si poteva andare da nessuna parte per via degli attentati», dice Pnina. «Sono partita da Maale Adumin con i miei due figli alle due del pomeriggio; siamo arrivati alla fermata di French Hill, dove abbiamo preso un autobus blindato che ci ho portati a Ofra. Dopo il concerto, che ai due bimbi è piaciuto moltissimo, mia madre ha voluto accompagnarci a Gerusalemme per darmi una mano in casa. Abbiamo ripreso l´autobus blindato e siamo scesi alla stessa fermata del pomeriggio; qui dovevamo incontrare Isaac, che ci avrebbe riportarti a casa, a Maale Adumin».
Stiamo conversando su una terrazza di Gerusalemme, in una mattinata assolata, circondati da pietre dorate che scintillano al sole. Dico a Pnina di non continuare se per lei quel racconto è troppo doloroso. «No, no», mi risponde di slancio. «Lei deve sapere». Ma in verità voleva dire: «Il mondo, l´universo devono sapere». «Abbiamo attraversato la strada per arrivare all´angolo dove Isaac avrebbe dovuto parcheggiare. Mia madre mi precedeva con Gal, io la seguivo tenendo Saggi per mano. C´era molta gente intorno a noi. Non ricordo altro». Si era svegliata parecchie ore dopo in ospedale, con ustioni in varie parti del corpo e un fortissimo mal di testa. Era sotto respirazione artificiale. Gal e Noa, sua nonna, erano tra le sette vittime della bomba esplosa da un terrorista suicida di al-Aqsa, un gruppo legato a al-Fatha di Arafat. L´attentato ha fatto anche numerosi feriti, tra cui il piccolo Saggi, che i poliziotti hanno trovato seduto per terra tra brandelli di corpi sanguinanti, muto e paralizzato dal terrore.
«Quando Isaac mi ha detto che mia madre e mia figlia erano morte ho sentito morire qualcosa anche dentro di me. Avrei voluto sparire, evaporare. Ma poi ho fatto uno sforzo enorme: con Isaac abbiamo deciso che dovevamo continuare a vivere, per Saggi, per mio padre. E abbiamo avuto altri due figli. La bimba, l´abbiamo chiamata Noga - una sintesi di Noa e Gal, i nomi di mia madre e di mia figlia». Pnina ha pubblicato un libro di poesie per bambini intitolato «Poesie per Gal». Una delle conseguenze è che da allora l´ombra del terrore l´accompagna sempre - e anche Saggi soffre di attacchi di panico; la seconda riguarda il suo rapporto con Dio.
«Mi è rimasta la rabbia verso di Lui, non riesco più ad accendere i ceri», dice con una serenità glaciale, più sconvolgente di qualunque lamento. «Mi chiedo sempre: dov´è Dio, dov´era quel giorno? A Isaac è accaduto il contrario: da allora è diventato molto più religioso; per questo rispettiamo lo shabbat».
Ariel Scherbakowsky è nato anche lui a Gerusalemme, 25 anni fa. Ora abita a Tel Aviv, dove mi riceve nel suo appartamentino allegro e bohémien, con un balcone ombreggiato dai rami di un ficus. Venendo da una città come Gerusalemme, soffocata dalla sua storia, reazionaria e oppressiva malgrado la bellezza delle sue pietre, ha scoperto a Tel Aviv il volto più aperto, moderno e democratico di Israele. La sua vera vita, mi dice, è incominciata a 13 anni, quando ha scoperto i Beatles. Da quel momento si è reso conto che la sua vocazione era la musica. Nei suoi tre anni di servizio militare è riuscito a farsi assegnare a una banda militare. Tornato alla vita civile, si è iscritto a una scuola di musica dove ha imparato a suonare vari strumenti - in casa ha anche un vecchio pianoforte - ma alla fine ha optato per il contrabbasso.
È un ragazzo alto e un po´ timido, visibilmente di buon carattere, che emana un senso di generosità e pulizia. La sua ragazza è di origine australiana e si chiama Sagit Shir: magrolina, con un bel sorriso, anche lei musicista. La sera del 2 aprile 2003 Ariel si trovava in un pub sul lungomare, il Mike´s Place, conosciuto da tutti i nottambuli e appassionati di jazz di Tel Aviv. Qui dirigeva, con il suo amico batterista Shai Iphrach, una jam session molto frequentata. In quel periodo gli attentati avevano svuotato i locali notturni di Israele, ma i giovani continuavano ad affollare Mike´s Place. Era l´una e mezza, e Ariel ricorda che il locale era gremito, e un vecchio distribuiva marijuana agli avventori. Lui era l´unico basso, e aveva suonato per l´intera serata con diversi gruppi. A quell´ora, esausto, era uscito sulla porta del locale per prendere una boccata d´aria di mare. «Questo jam è pessimo. Non suonerò mai più blues», aveva detto alla sua ragazza. In quel momento era scoppiata la bomba.
Il terrorista si trovava proprio davanti a Mike´s Place. Un momento prima era entrato per esplorare il locale, e aveva preso una birra. Poi era uscito, per cercare di rientrare subito dopo; ma l´agente di servizio alla porta lo aveva bloccato. C´era stata una colluttazione, e la carica esplosiva che il terrorista portava sotto i vestiti era scoppiata, causando tre morti e una cinquantina di feriti, tra cui Ariel e Sagit. Lei non aveva ferite gravi, ma ustioni su buona parte del corpo, e numerosi chiodi e schegge conficcati sotto la pelle. Ariel non aveva perso i sensi, se non forse per pochi secondi. Ricorda che era stordito, e in quello stato si era messo a cercare Sagit. E ricorda la paura, il panico totale che si era impossessato di lui. Lo si vede in una foto, inondato di sangue, l´aria sperduta, come se non sapesse più dove stava e cos´era successo. Solo quando lo portarono all´ospedale il dolore diventò insopportabile. Rimase per tre mesi e mezzo nel reparto terapie intensive - le prime tre settimane in stato d´incoscienza e sotto respirazione artificiale. Entrato in convalescenza, era venuto a sapere che i terroristi erano due musulmani britannici di origine pakistana, residenti a Londra, reclutati e addestrati da Hamas. Solo uno dei due era riuscito a far esplodere la bomba che portava addosso. L´altro fu trovato morto in riva al mare.
«Praticamente non ho subito traumi o conseguenze psicologiche», dice quasi scusandosi. «Solo una grande tristezza, che forse nulla potrà mai togliermi. Tra le vittime c´era uno dei miei migliori amici, un chitarrista. Provo tristezza per tutti. Una tristezza che a volte torna ad assalirmi, come un dolore fisico. Non posso più stare al sole, perché mi è rimasta la pelle rovinata. Ho ricominciato a star bene quando ho ripreso a suonare il basso.
Appena ho potuto, sono tornato a suonare la sera al Mike´s Place. « Ariel non si è mai occupato di politica. Non prova odio, neppure per il terrorista che per poco non l´ha ucciso insieme a Sagit. «Il mondo è impazzito» dice. «Io non riesco a capire questa gente che considera la terra come qualcosa di sacro, che si fa prendere dal fanatismo per la terra. Io sarei disposto ad appoggiare qualunque accordo, purché conduca alla pace, anche se si trattasse di restituire ai palestinesi una parte di Gerusalemme. So che contro di loro sono state commesse molte ingiustizie».
Ma chi sono questi terroristi che dall´inizio della seconda Intifada, tra il 2001 e il 2005, hanno assassinato un migliaio di persone, e ferito o traumatizzato altre migliaia di israeliani, con attentati suicidi come quelli subiti da Pnina, Ariel e Sagit? Molti - forse la maggioranza, ma certamente non tutti - sono fanatici religiosi, convinti dalle prediche degli imam estremisti che immolarsi in quel modo sia per un credente il servizio più alto da rendere ad Allah. E le organizzazioni islamiste radicali quali Hamas e la Jihad islamica si servono di loro per i propri fini politici. Da molte parti si insiste - spesso con esagerazione morbosa - sull´incentivo sessuale della promessa coranica di un paradiso dove scorrono il miele e il vino, e il martire troverà ad attenderlo 72 vergini il cui imene si rinnova ogni volta, come la sua potenza sessuale. Il 7 settembre il Jerusalem Post ha recensito il libro di uno studioso tedesco, Hans-Peter Raddatz, dal titolo: Von Allah zum Terror? (Da Allah al terrore?) A detta dell´autore, molti terroristi suicidi «si proteggono il pene avvolgendolo in fogli d´alluminio a prova di fuoco, in vista dei futuri piaceri». Il recensore sottolinea a sua volta che date le severissime restrizioni islamiche in materia sessuale, la promessa di piaceri carnali esercita a volte un´attrazione irresistibile per chi si sia sottoposto devotamente ai divieti religiosi.
Ma la follia e la stupidità del fanatismo religioso non bastano a spiegare il comportamento di tutti i terroristi suicidi. Lo affermano, citando a riprova svariati esempi, molti palestinesi - come Haidar Abd al Safi e Mustafa Barghouti, entrambi medici - che condannano con forza quest´orrenda pratica. E assicurano che molti sono spinti a questa cieca furia omicida dalla disperazione, dalla frustrazione, dalla miseria, e soprattutto dalla convinzione di essere condannati a vita a languire in una sorta di pozzo nero senza una via di scampo. Anche il dottor Mahmud Sehwail, uno psichiatra che ha seguito un corso di specializzazione e dirige oggi il Centro per le vittime della tortura a Ramallah, mi assicura che la religione spiega solo in piccola parte il fenomeno dei terroristi suicidi. Spesso si tratta di gente disperata, che ha perduto i genitori, i fratelli, i figli, o che è rimasta senza lavoro e vede i familiari morire di fame nella più totale impotenza. Hamas e la Jihad islamica strumentalizzano il tracollo psicologico, il risentimento e l´odio provocati da situazioni così estreme per alimentare la loro fabbrica di terroristi suicidi.
La prima terrorista donna è stata la palestinese Wafa Idris, un´infermiera ventinovenne di Ramallah, diplomata da appena tre mesi. Il 27 gennaio 2002 si è fatta saltare in aria a Jaffa Street, a Gerusalemme: l´esplosione ha causato un morto e circa 140 feriti. Wafa Idris viveva nel campo profughi di Amari, eretto fin dal 1948 alla periferia di Ramallah, dov´erano ammassate circa 6000 persone. Un labirinto di viuzze strette e coperte di immondizie, come tutti i campi profughi che ho visitato, con case di fango e legno, o anche di materiali più nobili, ma costruite solo a metà e accavallate le une sulle altre in un´accozzaglia indescrivibile. E da ogni parte spuntano ragazzini che riempiono l´aria dei loro strilli assordanti. La povertà è generalizzata, ma almeno qui non c´è lo stesso grado di scoraggiamento, di rovina morale che ho avvertito nei campi di Gaza. Ho parlato con i vicini e amici di Wafa Idris; e tutti mi hanno assicurato che non l´avrebbero mai creduta capace di un atto del genere: una donna normalissima, a quanto dicono, che non ha mai dato segni di fervore religioso. Me lo conferma anche sua madre, una signora settantenne. Il suo alloggio è tappezzato di diplomi, fotografie e ricordi della figlia, ma anche di bandiere di al-Fatah e di scritte che rendono omaggio «all´eroina e martire». Né lei, né le altre sue tre figlie avevano mai sospettato nulla. Non era molto religiosa, non si vestiva come le musulmane credenti e praticanti: nelle numerose foto appare in abiti occidentali e con i capelli sciolti. Era una ragazza orgogliosa, che teneva molto alla sua dignità. Perciò non pianse e non si lamentò quando il marito la ripudiò perché non era stata in grado di dargli un figlio. Ma in lei qualcosa si era spezzato, e da allora continuava a tormentarla. È forse a causa di questo dramma che ha deciso di offrirsi come «martire» ad al-Fatah?
La signora mi risponde con un piccolo gesto che potrebbe essere di assenso, ma anche di diniego. Sembra come stordita, in preda a una vertigine; prima di rispondermi lascia trascorrere lunghi intervalli di silenzio. «Forse lo ha fatto per via del fratello. Mio figlio Jaleel è stato incarcerato per otto anni. E in prigione gli ebrei lo hanno torturato», dice alla fine. Quando ha visto il volto della figlia in televisione e ha appreso il suo gesto è svenuta. Si è svegliata all´ospedale e ha pianto molto. Ma poi ha smesso di piangere. Se fosse stata al corrente delle intenzioni di sua figlia, dice, forse avrebbe fatto di tutto per trattenerla. Ma non deplora ciò che ha fatto. «Siamo in guerra. Loro uccidono, e anche noi dobbiamo farlo. Le bombe aiutano il nostro popolo». Questa donna non ha quasi più occhi, solo due incavature dalle quali ogni luce è scomparsa. Parla come se ripetesse una giaculatoria. «Mia figlia ora è in paradiso. Presto la rivedrò lassù».
Qualunque analisi dello stato attuale del conflitto israelo-palestinese deve tener conto dell´importanza nevralgica degli attentati suicidi. Altrimenti sarebbe difficile comprendere come si sia arrivati a una tale ostilità reciproca, con la sensazione di essere incastrati, in trappola. Gli attentati hanno causato immense sofferenze e sono fonte di paranoia, paura, rancore, desiderio di vendetta. E oltre tutto hanno servito su un piatto d´argento agli estremisti della destra israeliana un pretesto ideale per giustificare una serie di misure di repressione e intimidazione contro la popolazione palestinese. In circostanze diverse, difficilmente misure del genere avrebbero avuto l´approvazione di una società che si è sempre vantata di essere l´unica democrazia del Medio Oriente.
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