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La Repubblica Rassegna Stampa
31.06.2005 Rappresentazioni manichee della politica e della storia israeliane
un editoriale e una cronaca sulla sfida politica di Netanyahu a Sharon

Testata: La Repubblica
Data: 31 giugno 2005
Pagina: 12
Autore: Sandro Viola - Alberto Stabile
Titolo: «Le due anime di Israele - Netanyahu sfida Sharon Ha tradito, ora tocca a me»
LA REPUBBLICA di mercoledì 31 agosto 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 18 un editoriale di Sandro Viola sulla sfida politica di Benjamin Netanyahu ad Ariel Sharon, "Le due anime di Israele".

Viola, che esprime un giudizio sostanzialmente positivo sull'attuale politica del premier israeliano, la descrive come una "svolta" che cambia completamente la politica e la società israeliane, finalemente decise a far cessare "l'immoralità dell'occupazione" e a riceracre una soluzione del conflitto con i palestinesi.
In realtà però, Israele la disponibilità al compromesso con i palestinesi non è una novità per Israele. Se i precedenti processi di pace sono falliti, lo si deve all'otranzismo e al terrorismo delle leadership palestinesi. Una verità storica che non andrebbe dimenticata, oggi che la maggiore moderazione e il rifiuto della strategia terrorista da parte della leadership di Abu Mazen sembrano aprire nuove possibilità a un compromesso.
L'occupazione in sè, di fronte alla costante offensiva contro lo Stato di Israele, scatenaat fin dalla sua fondazione, non può essere giudicata immorale. Il primo dovere etico di uno Stato, infatti, è quello di difendere la vita e la sicurezza dei suoi cittadini, non quello di garantire i diritti nazionali degli altri popoli.
Un'altra scorrettezaa dell'editoriale di Viola è l'equiparazione tra i "due fondamentalismi", quello di Hamas e Jihad e quello del "giudaismo fanatico e degli ultranazionalisti".
I due fenomeni in relatà non sono comparabili, perchè il sionismo religiso e le forze nazionaliste israeliane, a parte piccole minoranze, sono alieni alla violenza e al terrorismo.

(critica a cura della redazione di Informazione Corretta)

Ecco il testo:

Le conseguenze del ritiro israeliano da Gaza stanno emergendo prima del previsto. E riguardano tanto la società e il futuro politico d´Israele, quanto le prospettive del conflitto israelo-palestinese. Il Likud, il blocco di destra che aveva avuto come leader, in questi ultimi cinque anni, Ariel Sharon, è definitivamente spaccato. L´ala che s´era opposta al ritiro ha da ieri il suo leader in Benyamin Netanyahu, primo ministro nella seconda metà dei ´90 e affossatore (con l´apporto di Yasser Arafat) degli accordi di Oslo.
Netanyhau s´è candidato alle primarie nel Likud, pronto a prendere la guida del partito e deciso a diventare il punto di riferimento di tutte le forze (estrema destra nazionalista e sionismo religioso) che contrastano la restituzione dei Territori occupati, e dunque il compromesso che potrebbe aprire la strada alla pace.
La frattura della società israeliana che era apparsa in forme clamorose durante lo sgombero delle colonie nella Striscia di Gaza, è a questo punto per così dire istituzionalizzata.
"Falchi" e religiosi da una parte, sostenitori del negoziato con i palestinesi dall´altra, e in mezzo una parte consistente dell´elettorato che resta incerta e deciderà, forse alla fine dell´anno o al massimo nella prossima primavera, l´esito delle elezioni anticipate. Inutile dire che alla testa del blocco che s´oppone alle destre ci sarà Ariel Sharon, che della destra israeliana è stato per trent´anni il campione ed oggi è invece, per quanto paradossale possa sembrare, il leader del campo pacifista.
Questo per quel che riguarda gli assestamenti delle forze politiche in Israele. Ma oltre alla sfida lanciata ieri da Netanyhau, c´è altro da prendere in considerazione. Vale a dire l´intervista data lunedì da Sharon a un canale televisivo, in cui il primo ministro ha già esplicitamente accennato alla necessità di ulteriori sgomberi delle colonie in Cisgiordania.
Dichiarazioni importanti, dato che Sharon non aveva mai fatto capire in modo chiaro quali fossero le sue intenzioni per il dopo-Gaza. E molti avevano infatti pensato che il ritiro dalla Striscia potesse essere il primo e l´ultimo dai Territori occupati: un modo - come aveva detto mesi fa uno dei più stretti collaboratori del primo ministro - di congelare la situazione e ritardare il più possibile un eventuale negoziato con i palestinesi.
Non era, a quanto sembra, così. Sharon sembra ormai convinto che l´occupazione israeliana debba aver termine anche sulla riva occidentale del Giordano, le bibliche regioni della Giudea e Samaria, dove si sono installati lungo gli ultimi decenni 230.000 coloni ebrei. Beninteso, tutti sappiamo che Israele non rinuncerà mai alle più vaste e popolate di quelle colonie, Ariel, Maale Adumin, Gush Etzion, e ai nuovi quartieri costruiti sui limiti della Gerusalemme araba, dove abitano altri 200mila ebrei. Su questo punto qualsiasi governo d´Israele disporrà infatti della garanzia data da George W. Bush l´anno scorso, secondo cui «non tutte le nuove realtà sul terreno» potranno essere sradicate nel quadro d´un accordo che porti alla fondazione dello Stato palestinese.
Ma la svolta resta netta, e sorprendente. Se fino all´altro giorno la road map, il piano di pace avanzato da Stati Uniti, Russia, Unione europea e Onu, poteva sembrare un altro relitto tra i tanti piani di pace che dal 1967 avevano inutilmente proposto una soluzione del conflitto israelo-palestinese, oggi la road map - che prevede appunto il ritiro israeliano dai Territori occupati - è di nuovo la cornice d´un possibile accordo. E in ogni caso, una disponibilità israeliana a sgombrare la maggior parte delle colonie in Cisgiordania costringe i palestinesi ad accelerare (se ne saranno capaci) il compimento degli obblighi richiestigli dal piano di pace. Disarmo delle milizie integraliste, e lotta senza quartiere contro il terrorismo.
Il ritiro da Gaza è stato dunque il segno decisivo d´una inversione di rotta nella politica e nella mentalità collettiva d´Israele. Il paese aveva creduto per oltre trent´anni che le sue conquiste nella guerra dei Sei giorni fossero irreversibili, e che il solo problema da risolvere fosse quello di farle accettare dalla comunità internazionale. In fondo, neppure durante i negoziati di Oslo e con i primi ritiri dell´esercito da alcune città della Cisgiordania, la maggioranza degli israeliani era stata davvero convinta che le terre palestinesi dovessero essere un giorno restituite. Mentre oggi è diverso: la maggioranza è per l´abbandono delle colonie, per un nuovo tentativo di accordarsi con i palestinesi.
Sia pure in ritardo, come scriveva l´altro giorno su Haaretz Ari Shavit, il paese è maturato. Si sta liberando dalla stretta "d´una minoranza fanatica che domina da trent´anni la politica nazionale". Ha avuto un soprassalto morale, ha capito che l´ideale sionista andava espurgato dell´immoralità che comportava l´occupazione. Ha deciso che la salvaguardia della democrazia israeliana richiede una rottura, un confronto aperto, con tutti i settori che antepongono la mistica della Terra d´Israele e la legge biblica al funzionamento dello Stato democratico. Il paese è dunque diviso, ma la sua maggioranza sembra ormai ferma nello sforzo di metter fine al conflitto. E le sequenze dello sgombero di Gaza, l´ammirevole comportamento dell´esercito e della polizia, hanno dimostrato che lo scontro con le destre estreme e il sionismo religioso possono essere portati a termine senza spargimento di sangue, senza nessun pericolo di guerra civile.
Sicché ora non resta che osservare se e come nei due campi, quello israeliano e quello palestinese, prevarranno la razionalità, il senso del compromesso, un bisogno autentico della pace. È ovvio, la partita rimane per il momento aperta. I due fondamentalismi sono ancora molto agguerriti: Hamas, la Jihad e gli altri gruppi terroristici da una parte, con le loro bombe e kamikaze, e sull´altro versante il giudaismo fanatico e gli ultranazionalisti, pronti a inceppare, intorbidare, la vita democratica in Israele. Ma il ritiro da Gaza, la scossa data dal "bulldozer" Sharon all´immobilismo della contesa israelo-palestinese, non sono stati certo inutili. Almeno per quanto riguarda l´oggi, tutti i dati della crisi mediorientale appaiono infatti in movimento.
A pagina 12 troviamo la cronaca di Alberto Stabile "Netanyahu sfida Sharon "Ha tradito, ora tocca a me".

Non intendiamo entrare in valutazioni sulla politica interna israeliana, ci limitiamo a segnalare un passo che esprime una valutazione che ci sembra del tutto ingiustificata, se non nel quadro di una rappresentazione esasperata dei conflitti politici israeliani, nella quale le posizioni di destra e meno inclini a concessioni senza contropartite assumono le sembianze di un fanatismo e di un odio estremi.
"Non c´è niente nel discorso di Netanyahu" scrive Stabile "che possa giustificare un passo così drastico come il porre sul tappeto la propria candidatura prima ancora che il parlamento decida di anticipare la fine della legislatura, la cui scadenza naturale è prevista per la fine del 2006. La politica, intesa come confronto di programmi e d´idee non c´entra niente.
C´entra, invece, l´odio verso un primo ministro che ha osato mettere in discussione un mito e un tabù, quello della Grande Israele".
Ma basta proseguire nella lettura dell'articolo, con le citazioni del discorso di Netanyahu, per rendersi conto che le motivazioni politiche, buone o cattive che fossero, nel discorso dello sfidante di Sharon erano presenti.
Che cosa sarebbe la protesta per il (presunto) abbandono dei principi del Likud da parte di Sharon se non un "confronto di programmi e di idee"?

(critica a cura della redazione di Informazione Corretta)

Ecco il testo:

GERUSALEMME - La destra non rinuncia alla sua vendetta. Se a fermare Sharon non sono bastati i blocchi stradali e le pulse de nura (i sortilegi, ndr), la resistenza passiva dei coloni e la rabbia degli infiltrati, ci proverà il Likud. La macchina che dovrà politicamente stritolare il primo ministro è stata già messa in moto. A fine mese il Comitato centrale del partito conservatore si riunirà per decidere di convocare le elezioni anticipate. E l´ex ministro delle Finanze, Bibi Netanyahu, ha avanzato ieri, ufficialmente, la sua candidatura, ponendosi come l´uomo capace di far dimenticare Sharon.
Non era mai accaduto che un primo ministro in carica, per giunta reduce da un successo, come indubbiamente è stato il ritiro israeliano da 25 insediamenti in meno di una settimana, fosse costretto ad accorciare il suo mandato. Ma talvolta a muovere la storia sono anche i sentimenti di cui in pubblico ci si vergogna.
Non c´è niente nel discorso di Netanyahu che possa giustificare un passo così drastico come il porre sul tappeto la propria candidatura prima ancora che il parlamento decida di anticipare la fine della legislatura, la cui scadenza naturale è prevista per la fine del 2006. La politica, intesa come confronto di programmi e d´idee non c´entra niente.
C´entra, invece, l´odio verso un primo ministro che ha osato mettere in discussione un mito e un tabù, quello della Grande Israele. «L´uomo che ha ricevuto i nostri voti per guidare il partito nello spirito del Likud - ha detto Netanyahu nella sua requisitoria - ci ha voltato le spalle. Sharon ha abbandonato i principi del Likud e ha scelto la via della sinistra. Egli sta minacciando di distruggere con le sue mani la casa che aveva aiutato a costruire. Il Likud ha bisogno di un leader che lo conduca alla vittoria e guidi il paese secondo i nostri pincipi».
Lui, Netanyahu, naturalmente.
La sala del Circolo della Stampa di Tel Aviv era affollata. Tra i presenti si sono fatti sentire un paio di aficionados del premier che hanno tentato di interrompere Netanyahu. «Ecco come i nostri avversari intendono la democrazia quando non hanno il centro della scena tutto per loro».
Accanto al premier predestinato una sfilza di notabili venuti a testimoniare con la loro presenza che non sono in gioco le ambizioni di un leader, ma è il partito nella sua complessità a voler dire basta. Ecco David Levy, redivivo, passato anni fa come una meteora al vertice della diplomazia israeliana ma presto dimenticato. L´eterno Sharanski, il cui libro sulla libertà gli avrà fatto guadagnare le simpatie di Bush ma non un´azione in più alla borsa della politica, dove le quotazioni dell´ex dissidente sovietico restano piuttosto basse. C´era Naomi Blumenthal, che ha a lungo atteso questo momento: la deputata ha un vecchio conto in sospeso con Sharon, che l´ha obbligata a rinunciare all´immunità parlamentare per una storia di voti comprati alle primarie del ‘99. Non poteva mancare qualche rappresentate della lobby dei coloni in seno al Likud, come Yuli Eldestein. Ma la sorpresa - relativa, viste le sue passate prese di posizione - è il presidente della Knesset, Reuven Rivlin, il cui ruolo super partes non gli impedisce una partecipazione che equivale a una discesa in campo.
Queste, dunque, le schiere che al comitato centrale del 25 e 26 settembre cercheranno di mettere Sharon in ginocchio. Il quale Sharon, se volesse dar ascolto ai suoi consiglieri più fidati, dovrebbe far saltare il banco annunciando l´uscita dal Likud prima ancora di cominciare una partita decisiva che, molto probabilmente, sarà costretto a perdere. Il vecchio generale, invece, è convinto di poter ancora piegare la rivolta, o almeno così fa credere per guadagnare tempo.
Secondo gli scenari emersi nei giorni scorsi, se uscisse dal Likud con un seguito di fedelissimi Sharon potrebbe guidare una formazione di centro, oppure lasciarsi tentare dalla sirene moderate del Labour («un partito alla ricerca di un leader per un leader in cerca di partito», secondo la brillante formula di un editorialista) dando vita ad un formazione inedita e trasversale, in cui confluirebbero anche i laici liberali di Tommy Lapid (Shinui).
Un fatto è certo: dovesse decidere di stare al gioco dei ribelli presentandosi nella Plaza de Toros del Comitato Centrale, Sharon non accetterebbe mai un ruolo da comprimario. L´ha detto a microfoni spenti lunedì, dopo aver dato l´intervista a Canale 10 in cui ha accusato Netanyahu d´essere un debole. «Non sarò mai secondo a nessuno».
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