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La Repubblica Rassegna Stampa
19.08.2005 Israele non fa mai abbastanza, i palestinesi non devono mai fare nulla
come salvaguardare l'ideologia dagli assalti della realtà

Testata: La Repubblica
Data: 19 agosto 2005
Pagina: 4
Autore: un giornalista- Fabio Scuto - Sandro Viola
Titolo: «Siamo con sharon, ma deve fare di più - La festa dimezzata di Abu Mazen fermo il negoziato, Hamas alle porte - Il trauma di Israele»
LA REPUBBLICA di venerdì 19 agosto 2005 dedica un'intera pagina e un editoriale di Sandro Viola ad imprimere nei lettori i seguenti concetti: il ritiro da Gaza è insufficiente, i palestinesi non hanno repsonsabilità di nessun genere nell'avanzamento dell pace, esse ricadono totalmente su Israele che probabilmente però, dopo lo schock di questi giorni, non riuscirà a compiere passi ulteriori.

A pagina 4 troviamo l'articolo "Siamo con Sharon ma deve fare di più". Né questo titolo , né il sottotitolo "La Rice al New York Times. Lasciate altre zone ai palestinesi" danno un qualsiasi rilievo a una parte fondamentale del discorso della Rice: quella in cui si chiede ai palestinesi di disarmare i gruppi terroristici.

Ecco il testo dell'articolo:

A quattro giorni dall´inizio ufficiale del ritiro israeliano da Gaza la Casa Bianca torna a giocare un ruolo da protagonista sullo scacchiere del Medio Oriente. Con un intervento a due voci - il presidente Bush dal suo ranch di Crawford, il suo consigliere per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice dalle colonne del New York Times - gli Stati Uniti esprimono il loro sostegno ad Ariel Sharon per la «coraggiosa» mossa politica e lanciano un segnale ai palestinesi: ora la palla del processo di pace passa nel loro campo.
È la Rice in particolare a delineare le prossime sfide dello scacchiere mediorientale: «Questo è un momento molto drammatico - spiega il segretario di Stato ai giornalisti del quotidiano newyorkese - tutti siamo vicini e comprendiamo quello che Israele sta passando, ma Gaza non basta». I prossimi passi devono essere eliminare le restrizioni agli spostamenti in Cisgiordania e un ulteriore ritiro da altre zone palestinesi.
Quanto all´Autorità nazionale palestinese, per la numero uno della diplomazia Usa deve procedere al più presto al disarmo dei gruppi armati, primo fra tutti Hamas: «Non dubito che si stia preparando per aumentare la propria capacità d´azione e di causare problemi come gruppo terroristico. Spetta all´Anp disarmarli, come prevede la Road map». La Rice ha spiegato che il cessate il fuoco delle ultime settimane non è affatto un messaggio rassicurante da parte degli estremisti islamici, che starebbero preparando nuove azioni suicide.
Il segretario di Stato si è poi detto ottimista per l´intero Medio Oriente: «Questo è un periodo straordinario. In autunno ci saranno il primo referendum, seguito da elezioni in Iraq, le elezioni parlamentari in Afghanistan, le prime elezioni con la presenza di elementi di opposizione in Egitto», ha detto, ricordando anche il ritiro dei siriani dal Libano, le elezioni libanesi, le riforme in Giordania e il voto dato alle donne in Kuwait. «Qualcosa di molto intenso sta accadendo nel Medio Oriente e sta accadendo nella direzione giusta: verso maggiore apertura e pluralismo», ha concluso.
A Crafword Bush ha preferito non affrontare direttamente i giornalisti e ha lasciato la parola alla sua portavoce Dana Perino: «Il presidente continua ad appoggiare Sharon e definisce coraggiosa l´iniziativa di Gaza. Noi comprendiamo i sentimenti dei coloni e le difficoltà di abbandonare la loro casa», ha spiegando la donna, concludendo che «il ritiro renderà più forte Israele e contribuirà a ulteriormente rafforzare i rapporti tra i nostri due Paesi».
Sempre a pagina 4, l'articolo di Fabio Scuto "La festa dimezzata di Abu Mazen fermo il negoziato, Hamas alle porte", presenta il quadro di un ritiro insufficiente (nonostante le rassicurazioni di Israele sul controllo dei confini e sul collegamento con la Cisgiordania) e di un Anp così debole da non avere alcuna responsabilità: non è ad Abu Mazen, per Scuto, che si deve chiedere di impedire a Gaza di diventare Hamastan, di passare sotto il controllo del "gruppo integralista" (terrorismo resta una parola tabù).
Allora a chi, ora che come la comunità internazionale chiedeva, ritenendolo un passo indispensabile per la pace, Israele abbandona territori contesi?

Ecco il testo:

GAZA - Alle prime luci della sera il lungomare di Gaza si riempie di auto e camioncini stracolmi di persone, qualcuno a cavallo, qualcuno con il suo carretto trainato dal somarello. È il corteo festante che da quattro giorni tutte le sere fa il giro della città per festeggiare il ritiro degli israeliani dalla striscia di Gaza. Sono soprattutto giovani, ragazzi e ragazze, del resto i tre quarti dei palestinesi di Gaza ha meno di trent´anni, che sventolano le bandiere rosse e nere. È un corteo spontaneo, non ci sono slogan né striscioni, solo un gran caos di clacson. La gioia dei ragazzi sembra davvero incontenibile. Li guardano sorridendo anche le decine e decine di poliziotti e agenti della sicurezza palestinese schierati nelle strade dall´Anp. Sono le prove generali della grande festa popolare che si prepara per quando il ritiro israeliano dagli insediamenti della Striscia sarà completato.
Ma se l´atmosfera della piazza è molto calda, diverso è il clima nei palazzi che in questi giorni ospitano il presidente Abu Mazen e tutti i suoi ministri che si sono trasferiti dalla «capitale provvisoria» di Ramallah a Gaza. La tensione è palpabile, e anche se il presidente parla di «un momento storico per tutto il popolo palestinese» c´è l´evidente timore che possa accadere qualcosa che blocchi il disimpegno, anche se l´Anp è riuscita a tenere a freno le milizie armate di Hamas e della Jihad islamica che volevano vendicare subito la strage dei palestinesi di mercoledì a Shilo. «È evidente che una strage come quella di Shilo non può che creare una forte ondata emotiva, rabbia e dolore», dice Tawfik Abu Khousa, portavoce e consigliere del potente ministro degli Interni Palestinese Nasr Yousef, «ma tutti, compresi i gruppi più estremisti, hanno risposto all´appello del presidente Abu Mazen, dimostrando senso di responsabilità, e sono rimasti calmi».
Per il momento la tregua ha retto. Ma sono molti altri i dossier ancora aperti, e molte le incognite legate al ritiro. «Per esempio», dice ancora Abu Khousa, «non è stato ancora risolto il problema relativo ai confini: alla frontiera con l´Egitto vogliamo essere noi a controllare dalla nostra parte e gli egiziani dalla loro, così come con Israele, noi da una parte, loro dall´altra. E poi manca ancora l´accordo sulla safe road, la strada che dovrebbe collegare Gaza alla Cisgiordania di cui ha parlato anche il segretario di Stato Usa Rice: «Senza quella strada e con i confini ancora nelle mani degli israeliani, Gaza sarebbe una prigione a cielo aperto».
Le incognite, per il presidente palestinese, non sono finite. Se l´inizio del disimpegno da Gaza ha in qualche modo scongelato i rapporti fra Anp e governo israeliano, la ripresa dei negoziati di pace non è ancora in vista. Sharon insiste nella applicazione del suo piano unilaterale, mantenendo al livello minimo il coordinamento con l´Anp. A questo bisogna collegare la crescente instabilità politica in Israele, dove sembra probabile un ricorso alle elezioni anticipate entro la fine dell´anno, come già paventato dal suo consigliere del premier Avi Pazner martedì sera: Abu Mazen tra alcuni mesi potrebbe avere di fronte interlocutori ben diversi e su posizioni più rigide, come Benjamin Netanyahu, molto meno disposto di Sharon a fare altre concessioni territoriali ai palestinesi. Nell´Anp la parola d´ordine sembra una sola: «Dobbiamo fare in fretta prima che la finestra che si è aperta si chiuda di colpo».
E poi, manca ancora una soluzione al futuro della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, il settore arabo della città, per arrivare rapidamente alla proclamazione di uno Stato palestinese. «I segnali che ci arrivano però non sono affatto rassicuranti», dice il ministro per la pianificazione Ghassan Khatib, commentando le dichiarazioni fatte in tv da Sharon quando ha promesso che «il sogno spezzato» dal ritiro da Gaza proseguirà con il rafforzamento degli insediamenti colonici nella Cisgiordania.
Se la gente per le strade è convinta che il processo di pace abbia fatto dei passi avanti, nell´Anp è evidente dunque la paura di un blocco del dialogo avviato con il disimpegno. Se le trattative dopo il ritiro da Gaza non andranno avanti, Abu Mazen e suoi ministri saranno i primi a pagarne i costi politici.
Il presidente dell´Anp sta veramente camminando su un filo di lana, perché le sfide interne sono ancora più pericolose. Annunciando le prossime elezioni politiche per gennaio, il presidente ha assunto sulle sue spalle un rischio altissimo. Il movimento islamico Hamas, molto popolare a Gaza e in altre aree dei Territori, non solo parteciperà al voto ma chiederà di entrare nell´Olp, finora dominata da Al-Fatah e le altre formazioni laiche palestinesi.
Hamas sta mantenendo una posizione di basso profilo, in attesa di conoscere gli sviluppi del dopo-ritiro da Gaza, ma è certo che dal prossimo autunno gli integralisti sfideranno apertamente l´Anp e Al-Fatah. Il primo problema sarà il loro disarmo, e anche quello delle altre milizie presenti a Gaza. I leader del movimento integralista non hanno nessuna intenzione di consegnare i loro arsenali. Il timore è che Gaza si possa trasformare rapidamente in Hamastan, un´area dove gli integralisti detteranno legge. Ma anche i "giovani" di Al Fatah stanno prendendo le distanze dalla "linea moderata" e guardano con sospetto all´euforia collettiva che sembra aver contagiato tutti. «La resistenza armata proseguirà ancora in Cisgiordania», dice Abu Mohammed, portavoce delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, il fronte dei duri che anche se è rimasto dentro al Fatah ha firmato decine di attentati e di attacchi negli ultimi tre anni contro gli israeliani.
Infine, l'editoriale di Sandro Viola "Il trauma di Israele", in prima pagina.
Per Viola esiste un solo problema: che dopo lo schock del ritiro da Gaza altri passi nella stessa direzione diventino impossibili.
Il problema che il terrorismo prosegua, impedendo ai palestinesi di cogliere un'occasione per costruire i loro Stato per lui non esiste.
E il rispetto del cessate il fuoco da parte di Hamas, che pure ha chiaramente dichiarato che proseguirà una "lotta armata" il cui obiettivo è la distruzione di Israele, e degli altri gruppi terrirstici è da lui interpretato frettolosamente come un segno del "senso di responsabilità " dei palestinesi.
Unmodo per mettere le mani avanti: se la violenza riprenderà la si potrà imputare alla mancanza di ulteriori concessioni da parte israeliana.

Ecco il testo:

QUALI saranno sui nervi, sul cervello d´Israele, gli effetti di quel che sta accadendo negli insediamenti di Gaza? Come uscirà il paese da quest´altro lungo trauma? Da tre giorni, la gente guarda sugli schermi televisivi una serie interminabile di scene angosciose, laceranti. Bambini che si lasciano portar via dai soldati con le mani alzate, come nei film sulla repressione della rivolta nel ghetto di Varsavia. Gruppi di poliziotti che strappano di forza uno a uno dalla catena umana formata nelle sinagoghe –tra spinte, grida, sputi – i coloni che rifiutano di lasciare gli insediamenti. Un uomo che sporge un neonato dalla finestra, minacciando di lasciarlo cadere se i soldati s´avvicineranno. Sì, ore e ore di sequenze drammatiche.
Il fumo nero di case date alle fiamme, soldati che sfondano le porte d´altre case dove donne in lacrime e uomini in preda a convulsioni isteriche, gli gridano contro: «Nazisti, siete peggio dei nazisti». Una schiera di ragazze adolescenti, sul petto una stella di Davide color arancione (a ricordo della stella gialla che gli ebrei dovevano portare nell´Europa occupata dalle truppe di Hitler), che resiste all´evacuazione tenendosi aggrappata ad un cancello. Gli sputi sulla bandiera d´Israele, un giovane graduato che davanti alle telecamere rifiuta d´obbedire agli ordini dei superiori, un colono che da una terrazza agita un fucile mitragliatore gridando che è pronto a sparare.
Un trauma che nessuno aveva previsto di queste proporzioni e intensità. Il fatto è che il ritiro da Gaza doveva anche servire a rendere più chiaro, meno confuso, lo sfondo politico d´Israele. La maggioranza degli israeliani da una parte, la minoranza dall´altra. Una minoranza ultranazionalista, etnocentrista, pervasa ogni anno di più dal fondamentalismo religioso, che non intende lasciare neppure un pollice delle terre bibliche. E una maggioranza pragmatica che invece appoggia il ritiro da Gaza, non solo perché lo vede come un passo necessario per tirarsi fuori dal conflitto: ma anche perché oggi s´è fatta finalmente consapevole dei costi finanziari e in vite umane che ha comportato l´insensato insediamento di 8mila ebrei, in condizioni privilegiate (case spaziose, sussidi statali alle attività economiche, sostegno – per motivi elettoralistici – da parte di tutti i partiti politici),all´interno d´un territorio dove vivono, in una miseria africana, un milione e trecentomila pezzenti palestinesi.
L´evacuazione da un primo pezzo delle terre di Eretz Israel occupate nel ´67, doveva dunque servire a contarsi. A stabilire che in Israele s´è ormai formato un fronte maggioritario deciso a imboccare la strada verso la pace, sapendo che questa strada deve passare attraverso nuove, graduali restituzioni d´una gran parte dei Territori occupati. Ma la violenta scossa psicologica che scaturisce in questi giorni dagli schermi televisivi sta intorbidando, invece di schiarirlo, il clima politico e morale del paese. Quante coscienze sono state turbate, sconvolte, alla vista delle scene a Neve Dekalim, a Kfar Darom, a Shirat Hayat? Quanto ancora reggerà nella maggioranza l´appoggio al ritiro, davanti allo spettacolo degli "ebrei che cacciano altri ebrei"? Che cosa succederà se quando le unità speciali dell´esercito tenteranno d´espugnare il tetto della sinagoga di Kfar Darom (dove mentre scrivo un centinaio di ribelli che vi sono ancora asserragliati stanno lanciando sui soldati un acido urticante che li fa gridare dal dolore), un giovane, una ragazza dovessero cadere ed ammazzarsi?
Questo è certo: le scene che gli israeliani stanno vedendo sui teleschermi produrranno nuovi guasti, faranno scorrere altri veleni, in una società già così profondamente divisa. Non solo c´è il rischio, come ho detto, che la maggioranza favorevole alla scelta di Sharon, all´abbandono di Gaza, s´incrini sotto l´urto delle emozioni di questi giorni. Non solo c´è da chiedersi cosa sarà l´esercito d´Israele, quando domani centinaia dei giovani che oggi partecipano alla ribellione vestiranno l´uniforme militare. Ma il rischio maggiore, e i servizi segreti ne sono consapevoli, è che le convulsioni di Gaza facciano scaturire dalle frange più estreme della destra nazional-religiosa nuovi episodi di terrorismo antiarabo.
L´agghiacciante sparatoria con cui un autista ebreo ha steso mercoledì sei palestinesi sull´asfalto, quattro morti e due feriti; le raffiche d´un soldato disertore due settimane fa, con altri quattro morti e molti feriti, su un autobus in Galilea; la pericolosissima provocazione di ieri, quando una folla di coloni è uscita da Shirat Hayam per lanciare pietre contro i palestinesi d´un villaggio vicino: tutti questi episodi, scrivono i giornali, testimoniano che lo Shin Bet e gli altri servizi di sicurezza avevano trascurato di prevedere e sventare nuovi scoppi di terrorismo ebraico del tipo di quelli avvenuti negli anni Novanta con la strage nella moschea di Hebron e l´assassinio di Rabin.
Così, sarà molto difficile tracciare nei prossimi giorni un bilancio dei contraccolpi usciti dall´abbandono di Gaza. Certo: le decine di migliaia d´uomini tra esercito e polizia impegnati nello sgombero forzoso delle colonie, finiranno col prevalere. Il partito dei coloni con i suoi alleati (gli ultranazionalisti, una larga parte dei religiosi) dovrà lasciare gli insediamenti. Ma il timore è che la sua sconfitta si riveli solo apparente e temporanea. Da domani qualsiasi governo d´Israele, anche se diretto da un uomo di temperamento roccioso come Ariel Sharon, dovrà infatti calcolare i costi di ripetere in Cisgiordania le buie, drammatiche giornate di Gaza. Quali altri sgomberi di insediamenti sarebbero possibili tra la Giudea e la Samaria, dove i coloni non sono poche migliaia ma 230mila, un quaranta per cento dei quali pronti a resistere con la stessa virulenza dei coloni di Gaza ad un ordine d´evacuazione? No, non è certo che la rivolta nazionalreligiosa sia stata completamente e definitivamente domata.
Tra tante ragioni d´inquietudine, due fatti positivi vanno tuttavia tenuti in considerazione. Il primo è il funzionamento del dispositivo d´esercito e polizia messo in campo da Sharon. Che ammirevole autocontrollo, che perfetto addestramento, hanno infatti dimostrato i soldati e i poliziotti d´Israele. Non una reazione alle violenze dei rivoltosi, non una smagliatura nel piano d´operazioni. E solo due o tre casi, per fortuna, di militari che si sono rifiutati d´obbedire agli ordini ricevuti.
L´altro fatto positivo è la condotta dei palestinesi, dai quali non è venuto (contrariamente ai timori che circolavano) alcun disturbo o provocazione. Se tutto andrà bene, sul loro versante, anche nei prossimi giorni, se mostreranno la stessa ragionevolezza sino alla fine dello sgombero di Gaza, il prestigio della leadership di Mahmud Abbas ne uscirà rafforzato. La loro credibilità d´interlocutori nella cornice d´un nuovo negoziato sarà cresciuta. Le speranze della pace sembreranno un po´ meno fragili e nebulose.
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