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La Repubblica Rassegna Stampa
24.03.2004 Israele massacra delberatamente i civili palestinesi
Viola si fa scudo di altri per lanciare accuse tremende

Testata: La Repubblica
Data: 24 marzo 2004
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: «Le strade blindate di Gerusalemme»
Nel suo articolo, il racconto apparentemente pacato e triste di Sandro Viola sul come e sul perché si sia arrivati alla drammatica situazione di oggi è solo un filo conduttore apparente.
La vera indole del giornalista traspare appena, emerge a brevi tratti, si fa
scudo del pensiero di altri. E' quasi necessario interpretare alcuni suoi
cenni, per verificarne il persistere.
"Dopo aver inceppato tre tentativi di dialogo e trattative tra la fine del
2000 e la metà del 2002...l'indomabile virulenza del conflitto
israelo-palestinese ha fatto a pezzi anche la road map", scrive Viola
ripercorrendo il passato recente in una memoria piena di buchi neri che
inghiottono tutte le possibili critiche alla parte palestinese. Mai sia che
Viola possa chiamare l'"indomabile virulenza del conflitto" con il nome che
le spetta, la feroce ed intransigente ed avida aggressività della leadership
palestinese. Quelle di Arafat sono "le solite giravolte", non una congenita
falsità da terrorista incallito, da uomo corrotto fino al midollo, da
doppiogochista di professione. Il rifiuto del compromesso onorevole offerto
dal governo laborista che già aveva decretato il ritiro dal Libano, la
scelta della violenza indiscriminata: tutto svanisce nei buchi neri della
memoria di Viola.
Andiamo oltre. "Del resto, se l'esercito israeliano ha mancato il massacro
del primo giorno, certo non lascia arrugginire i suoi fucili". Citando una
frase dettagli da Benny Morris (uccidendo 1000 palestinesi il primo giorno
di intifada, Israele avrebbe soffocato questa fiammata di violenza) Viola se
ne fa scudo, la usa per accusare indirettamente Israele di massacri
inesistenti e dunque non precisati. Per lui, comunque, quella palestinese è
una "rivolta" e continua a ripeterlo, non certo di un tentativo di prendersi
tutto con la forza, non avendone la possibilità e la legittimazione
attraverso vie diplomatiche.
Ce lo conferma poco più avanti, quando cita una frase virgolettata di Zeev
Sternhell, detta a lui e dunque tutta da verificare: "Soldati e ufficiali
(israeliani) mirano ai civili (palestinesi) senza che la coscienza gli
rimorda minimamente". Non siamo più al semplice falso, siamo all'insulto
più grave, all'accusa di uno sterminio ("il numero dei morti tra la
popolazione civile (palestinese) supera infatti di quattro o cinque volte
quello degli attivisti e terroristi") che trova anche in questa
falsificazione grossolana delle statistiche un suo punto di forza.
La conclusione di un altro storico interpellato (Martin van Creveld) è che
"se i palestinesi non fossero tanto isolati, se potessero ricevere aiuti ed
armi come avvenne in altre guerriglie, forse ci avrebbero già battuti". Ma
dove vive questo storico israeliano, quali cronache legge? I palestinesi non
ricevono armi e denaro? Sono isolati? Una volta si accusavano gli israeliani
di essere vittime della "sindrome di Masada", isolati in una fortezza
circondata dal nemico e destinati ad essere immolati; era vero, ma gli
israeliani a forza di stringere i denti se ne sono liberati. Volerla
applicare ai palestinesi ci pare solamente un esercizio di un cervello in
folle.
Ecco l'articolo che riproduciamo integralmente:

«Ha visto?», mi chiede la moglie d´un ex ambasciatore israeliano a Roma: «per strada ci sono molti più poliziotti e soldati che gente qualsiasi». In effetti, Gerusalemme è presidiata in forze. Aspetta l´attacco terroristico. Ne ignora il momento, le forme e le dimensioni, ma non l´ineluttabilità. Del resto, l´uomo bomba di Hamas potrebbe essere già qui. Forse di fronte al caffè «Aroma», forse a un passo dall´ufficio postale di Jaffa street, forse di fianco alla salumeria «Iwo´s delicatessen» dove gli anziani sefarditi vengono a comprare le specialità della gastronomia ebraica est-europea, il pane di segale, il "pastrami" di tacchino, il petto d´oca, le aringhe marinate.
Da qualche tempo, lo sforzo tecnico dell´attentatore suicida è concentrato sul travestimento. Gli uomini di Hamas si procurano le T-shirts israeliane, gli occhiali da sole più alla moda, le giacche e i pantaloni esposti nelle vetrine delle boutiques, e ne abbigliano gli aspiranti martiri. Uno qualunque dei giovani che vedo passare mentre seggo al tavolo d´un caffè all´aperto in Rivlin street, potrebbe essere quindi l´attentatore venuto a vendicare l´omicidio dello sceicco Ahmed Yassin. E il caso vuole che l´altra sera, in una libreria di Rehavia dove cercavo qualcosa da leggere, mi sia venuto tra le mani un libro di poesie della polacca Wislava Szymborska. L´ho comprato, e lo porto nella tasca dell´impermeabile. Una delle poesie s´intitola «Il terrorista sta osservando la scena», e termina così: «Da adesso ogni momento è buono/No, non ancora/Sì, adesso/La bomba è esplosa».
Com´è diversa, l´atmosfera in Israele, da quando vi ero venuto l´ultima volta un anno esatto fa. La «road map», lo schema di negoziato proposto a israeliani e palestinesi dall´America, dagli europei, dalla Russia e dall´Onu, era stata appena pubblicata. E qui a Gerusalemme la sola differenza che emergesse dai discorsi dei miei interlocutori, stava in un maggiore o minore ottimismo. Ma che la «road map» rappresentasse un´occasione, forse la grande e decisiva occasione, di mettere fine al conflitto, questo lo pensavano tutti.
Infatti, quante speranze in quei giorni. Gli americani stavano vincendo la guerra in Iraq, e s´erano impegnati a dedicarsi - una volta abbattuto Saddam Hussein - alla trattativa da cui sarebbe uscito nell´arco di due anni lo Stato palestinese. Dopo le sue solite giravolte, Arafat era stato costretto a nominare un primo ministro, Abu Mazen, dal quale Washington e le capitali europee s´aspettavano moderazione, realismo, capacità di compromesso. Quanto ad Ariel Sharon, certo recalcitrava: ma già si capiva che le pressioni di Bush non gli avrebbero consentito di sottrarsi al negoziato.
Un anno, e quelle speranze sono svanite. Dopo aver inceppato tre tentativi di dialogo e trattative tra la fine del 2000 e la metà del 2002 (gli accordi di Oslo, il piano Mitchell e il piano Tenet), l´indomabile virulenza del conflitto israelo-palestinese ha fatto a pezzi anche la «road map». Il vuoto d´iniziative politiche è adesso totale. Non rimane che contare, giorno per giorno, i morti. Nella mia camera d´albergo tengo un foglio su cui ne annoto scrupolosamente il numero. Sono arrivato nove giorni fa, e da allora i morti sono stati trentasei: dieci israeliani, gli altri palestinesi. E la risposta di Hamas, le bombe che i fondamentalisti hanno promesso dopo la morte del loro capo spirituale, devono ancora scoppiare.
Israele non è che stanchezza e depressione. Tre anni di crisi economica ne hanno falcidiato i redditi, i kamikaze ne hanno spezzato i nervi, il continuo rafforzarsi delle destre ne ha sfigurato la scena politica. I moderati, la sinistra non esistono quasi più. Ci sono ancora - rispettabili, instancabili - i pacifisti, a cominciare dal gruppo d´intellettuali che cinque mesi fa vararono con i palestinesi a Ginevra la bozza d´un possibile accordo di pace. Ma purtroppo la loro influenza è pressoché nulla. Il vecchio partito laburista sembra giunto alla fase terminale del suo declino, la sinistra va avanti a furia di scissioni da cui escono nuovi, effimeri partitini.
E´ esattamente quel che è accaduto dall´altra parte, nel campo palestinese. La scomparsa dei moderati: degli uomini che lentamente, faticosamente, s´erano convinti della necessità d´un compromesso. Che non volevano rassegnarsi all´inevitabilità dello scontro. Questo è il deprimente bilancio dei tre anni e mezzo della seconda Intifada. La politica di Sharon ha bruciato gli esponenti moderati palestinesi, le bombe dei kamikaze hanno tolto alla sinistra israeliana l´ascendente che aveva avuto sulla società. E il risultato, in Israele, è un dilagare della demagogia delle destre, il peso sempre maggiore del «partito dei coloni», l´emergere di segni inquietanti d´imbarbarimento persino nei settori che sino a qualche tempo fa erano stati su posizioni più aperte e ragionevoli.
Il caso di Benny Morris è emblematico. Il suo libro più importante, Vittime, era stato il primo tentativo d´uno storico israeliano di descrivere e documentare l´ingiustizia subita dai palestinesi con la fondazione dello Stato ebraico. Uno studio scrupoloso e obbiettivo, pervaso da un forte spirito liberale. Ma l´ondata degli attentati suicidi, l´improvvisa e penosa consapevolezza della vulnerabilità d´Israele, hanno cambiato le idee di Morris. Qualche giorno fa (prendevamo un caffè nella hall del King David) mi ha detto: «Israele sta pagando il prezzo della sua debolezza, perché l´Intifada avrebbe potuto essere domata immediatamente. Bastava entrare in forze nei territori già il primo giorno, lasciare sul terreno mille morti palestinesi, e le assicuro che sarebbe finito tutto...».
Come si sbaglia, Benny Morris. Neppure mille morti in un solo giorno avrebbero fermato infatti la rivolta palestinese, adesso che alle aspirazioni nazionaliste s´è mischiato il fanatismo religioso, la furia della Jihad. Del resto, se l´esercito israeliano ha mancato il massacro del primo giorno, certo non lascia arrugginire i suoi fucili. Zeev Sternhell, noto storico dei fascismi europei, è duramente critico sulla violenza indiscriminata con cui si muovono i militari nella Palestina occupata. Il numero dei morti tra la popolazione civile supera infatti di quattro o cinque volte quello degli attivisti e terroristi. E questo, argomenta Sternhell, perché soldati e ufficiali mirano ai civili «senza che la coscienza gli rimorda minimamente».
Ciò non vuol dire, tuttavia, che la forza militare d´Israele serva a vincere la partita. Uno storico militare di fama internazionale, Martin Van Creveld, mi spiega che al contrario la partita si sta mettendo male per Israele. «Immagini un ottimo tennista che sia costretto a giocare con un principiante: col passare dei giorni giocherà sempre peggio, e il principiante sempre meglio. Ed è quanto è successo al nostro esercito con i palestinesi. L´impasto di disperazione e determinazione che anima la rivolta, si sta a poco a poco rivelando invincibile. Noi israeliani non siamo mai stati militarmente così forti come adesso: ma se i palestinesi non fossero tanto isolati, se potessero ricevere aiuti ed armi come avvenne in altre guerriglie, forse ci avrebbero già battuti».
Resta il Muro. La linea sinuosa di cemento che ho visto l´altra mattina intersecare uliveti, greggi al pascolo, conventi cattolici e ortodossi, moschee, villaggi palestinesi. Il Muro che la stragrande maggioranza degli israeliani considera la migliore delle soluzioni, dietro il quale ritirarsi e difendersi. Il simbolo della stanchezza, dell´ansietà, dell´indebolimento d´Israele.
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