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Riprendiamo da SETTE - Corriere della Sera di oggi, 30/01/2015, a pag. 54, con il titolo "Datemi una rarità e costruirò un impero", l'articolo di Enrico Mannucci.
Non è impresa da poco costruire un marchio rinomato nel mondo su quella che Pitigrilli chiamò "la collezione di sputi internazionali". C'è riuscita la dinastia dei Bolaffi, una famiglia ormai da più di un secolo sinonimo in Italia di filatelia: Alberto, Giulio, di nuovo Alberto e ora Giulio Filippo. Quattro generazioni di ebrei, come lo scrittore che così ferocemente aveva bollato l'hobby su cui hanno creato un'impresa di grande successo. Sono passati dalle loro mani pezzi fondamentali per le raccolte dei francobolli italiani: ad esempio entrambe le uniche buste rimaste per la cui spedizione venne impiegato il "Tre lire" del Governo Provvisorio di Toscana (siamo nel 1860), una inviata a Parigi al marchese Bourbon del Monte (antenato dell'avvocato Agnelli che, molti anni dopo, acquisterà il pezzo), l'altra ad Alessandria d'Egitto, nota anche come lettera Fanik", visto che stava negli album dell'appassionatissimo re d'Egitto. Roba che, le rare volte in cui appare in asta, viene aggiudicata attorno al milione di euro.
Gli esordi Quando chiede in sposa Vittoria Foa, i genitori di lei sono un po' dubbiosi sulla stabilità economica del pretendente: si convincono alla notizia che gli è stato affidato l'incarico di mettere ordine nella collezione filatelica della regina, Elena di Savoia. Fra i quattro figli del matrimonio, due continuano il lavoro del padre: Giulio, classe 1902, e Dante, che, dopo le leggi razziali, va a fare il commerciante negli Usa.
Il boom economico nazionale si riflette anche in questo campo. Nel 1956, Bolaffi comincia a pubblicare un catalogo con le quotazioni dei francobolli nell'area italiana (ovvero anche di Vaticano e di San Marino, oltre a quelli emessi dalle nostre Poste). Il decennio successivo vede l'apertura di negozi con l'insegna della ditta a Roma e a Milano. Va detto che, oggi, le prospettive della filatelia non sono così tranquillamente floride: i francobolli in quanto tali stanno scomparendo e i pessimisti pensano che il medesimo destino potrebbe subire la loro raccolta. In quel periodo, invece, sembrava che l'investimento nel settore prevedesse esclusivamente "sorti magnifiche e progressive". I collezionisti più anziani ricordano bene il "boom" appena citato. Che indusse migliaia di persone — spesso neofiti della passione — ad accumulare centinaia, se non migliaia, di serie emesse a ritmi frenetici dalle amministrazioni postali che vedevano riempirsi le casse. Da noi, la stagione ebbe il suo culmine con l'epopea del "Gronchi rosa". E terminò disastrosamente, nella seconda metà degli Anni 60, lasciando quintali di pezzettini di carta ancor oggi invendibili negli album dei più incauti. Quella stagione iniziò poco dopo che la terza generazione dei Bolaffi era entrata in ditta, con Alberto, figlio di Giulio. Che oggi ricorda: «In quel disgraziato gioco al rialzo, noi non avemmo responsabilità. Anzi, cercavamo di calmierare il mercato». E coglie l'occasione per spiegare quello che ai novizi appare un mistero. Nei prezzari, i cataloghi, della maggior parte dei paesi le quotazioni dei francobolli non si discostano troppo da quanto vengono pagati in aste e negozi. Al contrario, in Italia, le stime dei cataloghi sono assai superiori rispetto alle cifre consuete nelle trattazioni: «Dipende da tradizioni diverse. Da noi le pubblicazioni che informano il mercato registrano la quotazione di un oggetto filatelico nella sua versione più bella e interessante, che rarissimamente può essere disponibile. Seguono la logica del collezionista più esigente. All'estero, spesso, l'idea è quella di fornire una guida ai commercianti». C'è una spiegazione anche per i picchi di prezzo raggiunti da alcuni settori della nostra filatelia, con pezzi notevolmente più costosi di quelli, altrettanto rari, di altri paesi: «Il Risorgimento italiano, di poco successivo alla nascita del francobollo, ha reso possibili combinazioni particolari: fra emissioni degli antichi stati che scomparivano e quelle piemontesi, oppure quelle dell'Italia appena nata. Casi che non hanno quasi riscontri nelle altre nazioni», spiega Alberto che, ormai, ha ceduto il passo alla quarta generazione della dinastia. La rappresenta Giulio Filippo, oggi amministratore delegato: «Per la famiglia era scontato entrassi in questo business... Per me non è stato così automatico. Ci sono arrivato a quarant'anni. So che il mio bisnonno era un signore solitario che girava tutto il mondo con un'inseparabile valigetta. Ecco, da una "one man company" siamo passati a una società che occupa 140 persone, tra dipendenti e consulenti». Ultracompetente nel proprio campo, casa Bolaffi è anche innovativa. Così vengono esplorati continuamente nuovi terreni, cenando di precorrere — anzi, di stimolare — i possibili sentieri che potranno imboccare passioni magari ancora in embrione. Questo soprattutto attraverso lo strumento delle aste dove Bolaffi mette all'incanto manifesti cinematografici originali, vini, libri antichi e autografi, senza trascurare il "vintage tecnologico" (Bolaffi si è aggiudicato uno dei pochissimi esemplari rimasti del primo computer costruito da Steve Jobs). Soprattutto, stando dietro a una filosofia incentivata molto da Alberto ma individuata già da suo padre. Sintetizzata da un neologismo coniato in ditta: filografia, overo "amore per la scrittura". Che ha portato a creare un piccolo museo. E che vede il francobollo non come fenomeno isolato ma come tappa di un processo più generale, quello della comunicazione scritta fra gli esseri umani. È così che, sopra gli uffici torinesi di via Cavour si può visitare una variegata galleria dove sono accostati rarissimi precursori del Penny Black (il primo francobollo al mondo, emesso in Gran Bretagna nel 1840) e stili dell'antica Roma per incidere le parole sulla cera, manifesti che annunciavano al pubblico, nell'Ottocento, le ascensioni in mongolfiera e cosmogrammi americani e sovietici, cioè le lettere portate dagli astronauti nello spazio e sulla luna, rarissimi poster (come quello del Moulin Rouge di Henry de Toulouse-Lautrec) e pergamene per la corrispondenza commerciale nell'Alto Medioevo. Per inviare la propria opinione a Sette, telefonare 02/6339, oppure cliccare sulla e-mail sottostante sette@corriere.it |
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