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Riprendiamo dal FATTO QUOTIDIANO di oggi, 21/12/2015, a pag. 12, con il titolo "La leva internazionale esaspera i palestinesi", il reportage di Francesca Borri. Un pezzo ignobile in ogni sua parte: 2) Oggi, secondo Borri, i bravi palestinesi "si sono convertiti alla non violenza". Strana affermazione, dal momento che gli attentati contro israeliani che hanno la sola colpa di essere ebrei sono quotidiani da mesi. 3) La barriera difensiva edificata da Israele per limitare le infiltrazioni terroristiche, definita comunemente e scorrettamente "muro", non poteva mancare: "il suo obiettivo, più che garantire la sicurezza, è frantumare la West Bank", scrive Borri. 4) Il punto peggiore di tutti. La giornalista rimprovera quei palestinesi e quegli "operatori umanitari" che rinunciano al terrorismo. Borri lamenta "il passaggio dalla politica alla tecnica. Quando l'esercito confisca una strada, si ha subito una Ong pronta a costruirne una alternativa. "Ma l'obiettivo", dice Jamal Juma, "dovrebbe essere combattere l'occupazione, non aiutarci a conviverci".". E termina, citando l'intervistato, con un autentico appello al terrorismo: ""Così", dice, "non avremo mai un'Intifada"." Ecco l'articolo:
Ma tu che sei esperta, mi chiede una svedese: quando l'esercito attacca, io come contrattacco? Ha settant'anni, la maglietta di Yoko Ono e un caschetto da ciclista. A una così, cosa puoi risponderle? Signora, non si preoccupi. Se l'esercito attacca, lei muore subito. E' arrivata a Bil'in, 12 chilometri da Ramallah, a bordo di un furgoncino dell'Alternative Tourism Group. Come ogni venerdì, all'una, dopo la preghiera, i palestinesi protestano in corteo contro il Muro, contro l'occupazione: e gli israeliani rispondono con lacrimogeni e proiettili di gomma. A volte proiettili veri. E' così dalla fine della Seconda Intifada. Ogni venerdì. Da quando Israele, per fermare gli attentati suicidi, ha iniziato a costruire il Muro, e i palestinesi, un po' per opporsi al Muro un po' per riorganizzarsi dopo il fallimento della resistenza armata, si sono convertiti alla non violenza. E nei primi anni ha funzionato - nei limiti in cui le cose funzionano, qui: il Muro, dichiarato illegale dal tribunale dell'Aja perché ingloba terra palestinese, e il suo obiettivo, più che garantire la sicurezza, è frantumare la West Bank, e complicare la vita, è stato appena spostato di tracciato. A tratti demolito. Ma adesso, le manifestazioni del venerdì non sono che un'attrazione turistica. Tra stranieri e giornalisti, siamo più dei palestinesi. Come un circo turistico Sono settimane di Intifada, tra israeliani e palestinesi. Un morto al giorno. Ma i veri protagonisti sono invisibili alla cronaca: sono gli internazionali. Gli scontri, infatti, gli accoltellamenti restano casi isolati. Non si ha una rivolta generale - Hamas e Fatah, al solito, sono ai ferri corti, impegnate a trovare un successore all'80enne Mahmoud Abbas: e nessuno è disposto ad avventurarsi in un'Intifada senza leadership né strategia. E una delle ragioni per cui la società civile è così debole, e fino a pochi anni fa invece era il contrario, i palestinesi erano l'avanguardia degli attivisti arabi, è che sono arrivate le nostre Ong a rafforzarla. Furono una svolta Il dibattito, in questi giorni, è tutto sul traffico di Qalandia, il checkpoint che separa Ramallah da Gerusalemme. E in cui si rimane imbottigliati per ore. Ed è un dibattito sulla viabilità: sui sensi di marcia, le carreggiate. Gli svincoli. "Ma il problema è che Qalandia è lo snodo da cui è costretto a passare chiunque. Ovunque sia diretto. Il problema non è che mancano i semafori. Il problema è che di mezzo, tra noi, c'è un Muro". Ma soprattutto, c'è poi un altro tipo di internazionali, verso cui l'insofferenza è ancora più forte: né attivisti né professionisti, ma semplici avventurieri. Ventenni che vengono qui per uno, due mesi, e scroccano la vacanza ospiti di un'associazione in cambio di una mano nella raccolta delle olive, di un paio di lezioni di inglese ai bambini. E sono cani sciolti che finiscono per radicalizzare il conflitto. "Agiscono di testa propria. Si scontrano con l'esercito a ogni occasione. Perché tanto poi partono, tornano a casa. Non vivono le conseguenze delle loro azioni", dice Murad Shtaiwi, un altro degli attivisti storici della West Bank. "E comunque", dice amaro, "poi nelle battaglie vere non si vedono mai". Ragazzini. E dannosi "Per gli israeliani Hebron ha un valore speciale, perché è la sede delle Tombe dei Patriarchi. Se le altre città della West Bank possono diventare un giorno parte di Israele come oggi Haifa, città della minoranza araba, Hebron, come Gerusalemme, deve essere ebraica", dice Issa Amro, il più noto degli attivisti. "Avremmo bisogno di più internazionali. L'abbiamo visto mille volte: in presenza di stranieri, l'esercito è costretto a rispettare un minimo di regole. Ma stanno tutti a Ramallah. Dicono che Hebron è pericolosa. Invece di venire qui, aprono nuovi uffici a Nablus, a Betlemme. A Jenin. E non capiscono che questa è esattamente la strategia di Israele: la normalizzazione. Aiutarci a vivere bene sotto occupazione". "E qui se non lavori in una Ong", dice, "lavori nell'Autorità Palestinese o in Israele. In entrambi i casi, hai bisogno di una sorta di certificato rilasciato dall'intelligence, con cui si attesta che non sei un soggetto pericoloso. E cioè che non sei impegnato politicamente". Guide d'occupazione Per inviare la propria opinione al Fatto Quotidiano, telefonare 06/328181, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@ilfattoquotidiano.it |
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