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Il Fatto Quotidiano Rassegna Stampa
03.02.2014 Unesco: l'odio contro Israele prima di tutto
anche prima dei fondi necessari per andare avanti. Cronaca di Martina Castigliani

Testata: Il Fatto Quotidiano
Data: 03 febbraio 2014
Pagina: 14
Autore: Martina Castigliani
Titolo: «Unesco in mutande: entra la Palestina, gli Usa tagliano i fondi»

Riportiamo dal FATTO QUOTIDIANO di oggi, 03/02/2014, a pag. 14, l'articolo di Martina Castigliani dal titolo " Unesco in mutande: entra la Palestina, gli Usa tagliano i fondi ".

La notizia non è recente, in seguito alla decisione dell'Unesco di accettare l'adesione di uno Stato inesistente (quello palestinese) e contro Israele, gli Usa e lo Stato ebraico hanno deciso di tagliare i fondi che gli destinavano.
Ora, come riporta Martina Castigliani nel suo articolo tutto a favore dell'Unesco, inizia a sentirsi il peso della mancanza dei fondi americani.
Nonostante questo, l'Unesco continua sulla strada contro Israele.
Evidentemente l'odio per Israele è più importante della cultura che l'Unesco dovrebbe tutelare e promuovere ed è più importante dei fondi americani bloccati.
A tal proposito, ricordiamo lo spostamento (annullamento?) della mostra sul popolo ebraico e la sua storia (per un commento, leggere la Cartolina da Eurabia di Ugo Volli del 22/01/2014 http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=280&id=52136).

Yes. No. Yes. Yes. Yes. No. Il giorno in cui l'Unesco ha deciso di ammettere la Palestina tra gli Stati membri, uno dei suoi diplomatici se ne stava seduto nel loggione in alto dell'aula di Parigi. Con una penna segnava su un foglio il voto di ogni delegato. Una lista infinita di croci nere, tracciate dopo ogni dichiarazione. Li ha contati uno ad uno, i si e i no, fino al risultato finale: 107 favorevoli, 14 contrari e 52 astenuti. Quando l'organizzazione della Nazione Unite per la scienza, l'educazione e la cultura ha accettato di aprire le porte alla Palestina era il 31 ottobre 2011 e quel giorno è iniziata una tempesta. Gli Stati Uniti, per rispetto di una legge interna, hanno tolto i fondi (22 per cento del budget totale per un passivo di 280 milioni di dollari per quattro anni), mettendo a dura prova l'istituzione diplomatica. Progetti tagliati, prepensionamenti e accuse di politicizzazione. La decisione che dissero gli ambasciatori "ha fatto la storia", ha trascinato l'organizzazione in una bufera. Così nel novembre 2013, Usa e Israele, dopo non aver pagato il loro debito per due anni, hanno perso il diritto di voto nell'assemblea plenaria. Pochi soldi e poteri deboli. E' tutto perduto? Malgrado le critiche, l'Unesco è una macchina oliata che affronta la più difficile delle sfide: mettere la cultura al centro della scena ed esistere nonostante tutto. ISTITUZIONE PALADINA di battaglie quasi impossibili, promuove educazione e parità di genere, si occupa di preservare le diversità culturali e tutela giornalisti e libertà d'espressione. E soprattutto stila un elenco dei patrimoni artistici da preservare. L'Unesco è la cenerentola delle istituzioni della Nazioni unite, dimenticata nel centro di Parigi e spesso accusata di non essere abbastanza influente. Fondata il 4 novembre del 1946, raduna 196 Paesi. Ora senza i soldi di Obama e un maggiore impegno degli altri membri è tutto più difficile. Ma chi l'ha tenuta in piedi fino adesso non ha intenzione di arrendersi. "Mi dispiace molto", ha detto alla stampa la direttrice generale dal 2009 Irina Bokova, "ma ho visto in questi due anni un declino dell'influenza americana". Gli Stati Uniti hanno deciso di rimanere fuori. Scelta automatica per rispettare una legge degli anni '90 del Congresso che prevede: "Il taglio dei fondi ad ogni organizzazione che riconosce la Palestina". L'Unesco in quella mattina di ottobre ha scelto di accettare la richiesta palestinese "in vista di una nuova apertura". Lo dicevano Francia, Russia e Cuba a fianco. Lo ripeteva la Spagna, ma non l'Italia o il Canada. Di quel giorno a verbale restano poche frasi. "Pensavo", disse il delegato di Israele, Nimrod Barkan, "che la esse della sigla di quest'istituzione diplomatica stesse per scienza e non per science fiction". Fantascienza. La Palestina rispose tra le lacrime dei suoi delegati in giacche e cravatte improvvisate: "Nessuno può toglierci dalla carta geografica". L'applauso di quella sala a pochi passi dalla Torre Eiffel, nel pieno centro luccicante di Parigi, aveva risuonato come una rivoluzione. Diplomatici da tempo dimenticati, all'improvviso protagonisti di azioni irriverenti. E quel giorno, tra i corridoio gialli e color grigio beige, l'euforia di alcuni aveva lasciato spazio alle preoccupazioni di altri. Da quel momento ad essere cambiato è il portafoglio. Nel momento del ritiro, il contributo Usa era pari a 70 milioni di dollari annui: così si è dovuto creare un fondo d'urgenza (circa 90 milioni raccolti da Qatar, Nigeria, Costa d'Avorio e altri), chiedere un maggiore impegno agli altri membri e procedere con un taglio drastico dei costi. Per il 2014 il bilancio approvato è stato di 507 milioni, 146 in meno rispetto a quanto previsto con i donatori originali.
IL TIMORE è per i posti di lavoro: sono circa 500 gli impiegati nel mondo e per il momento si è proceduto con una riorganizzazione del personale, ovvero nessun licenziamento, ma prepensionamenti o non ricambio di sedi vacanti. Un pacchetto non approvato da tutti, anche per il coinvolgimento necessario di sponsor privati. La Corte dei conti francese ha osservato che c'è stata una "gestione disordinata della crisi", anche se dalla direzione centrale garantiscono che è stato fatto tutto il possibile per intervenire. A non essere più finanziati sono alcuni progetti prima considerati prioritari dagli Usa. Innanzitutto il programma di alfabetizzazione per le donne in Africa e Asia. Considerato un cavallo di battaglia dalla stessa Hillary Clinton, è stato ridimensionato. La seconda vittima è stato il settore delle scienze e il programma per incentivare la carriera accademica per le donne. Al terzo posto, la costruzione di centri per l'allerta tsunami: ne era in costruzione uno nuovo nei Caraibi. Ora mancano i fondi. Il vero paradosso è il programma per la memoria dell'Olocausto nelle scuole e la sensibilizzazione sul tema genocidi: cancellato perché promosso essenzialmente con fondi americani. "Non posso immaginare", ha commentato Irina Bokova, "come potremmo separare gli Usa dal-l'Unesco". La perdita riguarda il soft power che gli Stati Uniti potrebbero giocare in alcune zone del mondo, promuovendo i diritti umani nelle aree dove sono visti ancora come il nemico e aumentando la propria influenza. Ma non è la prima volta che gli Usa hanno problemi con l'Unesco. Era stato sotto la presidenza Reagan, nel 1984 che si decise il ritiro dall'istituzione perché "troppo politicizzata". Tornarono a sedere nei banchi di Parigi nel 2003 con l'amministrazione Bush. La paura ora dall'altra parte dell'oceano è quella di essere tagliati fuori da un'organizzazione che anche se meno potente di altre, è parte integrante delle Nazioni Unite. E si teme di vedere una maggioranza filopalestinese prendere il controllo di aree diplomatiche prima monopolio americano. "Non avremo più", aveva dichiarato Phyllis Ma-grab, il delegato a Washington, "la stessa influenza. Ci viene a mancare il nostro martello". Ma oltre ogni strategia di potere, c'è l'idea che un progetto che parla di cultura e pace non possa essere lasciato morire. Così a chiedere di rivedere gli Stati Uniti seduti nell'assemblea a Parigi è anche l'ambasciatore palestinese Elias Sanar: "Abbiamo bisogno di loro per restare attivi. Prendendo questa decisione, hanno creato molti problemi, ma soprattutto hanno perso parte del loro ruolo e noi abbiamo bisogno di quel ruolo".

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