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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
05.10.2015 La crisi dell'Achille Lauro: vergogna italiana
Ma per il Giornale è 'orgoglio'. un pessimo esempio di giornalismo do Stefano Zurlo

Testata:
Autore: Stefano Zurlo
Titolo: «Quando Bettino Craxi osò sfidare il gigante Usa»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 05/10/2015, a pag. 22, con il titolo "Quando Bettino Craxi osò sfidare il gigante Usa", il commento di Stefano Zurlo.

Il catenaccio dell'articolo è "Orgoglio italiano: la crisi dell'Achille Lauro". Non orgoglio, ma "vergogna" sarebbe stato più appropriato scrivere per descrivere una delle pagine nere della storia italiana recente, quando il governo Craxi, filoarabo e terzomondista, si schierò con il terrorismo palestinese e impedì che venissero assicurati alla giustizia gli assassini di Leon Klinghoffer, unico ucciso sulla nave dirottata semplicemente perché ebreo. Stefano Zurlo, senza farne il nome, senza scrivere che era stato scelto perché ebreo, lo descrive così " un passeggero paralitico è stato scaraventato in mare". Egregio Zurlo, si vergogni.

Ecco l'articolo:

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Stefano Zurlo

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Bettino Craxi con il suo sodale terrorista Yasser Arafat

L'orgoglio italiano. La rabbia americana. E una scena da film di fantascienza: cinquanta carabinieri che circondano un aereo egiziano e sono circondati a loro volta da cinquanta militari della Delta Force. Tutto sulla pista di una base Nato siciliana. Tutto in poche ore. Tutto dentro un grande scombussolamento dei rapporti fra Roma e Washington. Ora quella storia drammatica e intricata, ultimo atto del sequestro dell'Achille Lauro, diventa un libro, La notte di Sigonella, Mondadori, da domani in libreria, a firma del protagonista numero uno di quelle giornate dell'autunno 1985: Bettino Craxi.

Un volume particolarmente interessante, soprattutto perché dai documenti, alcuni inediti, e dalla corrispondenza, finalmente declassificata, a stelle e strisce, si capisce che, nel turbinio di quelle ore fra notizie contraddittorie e confuse, Craxi prese infine la strada giusta. Il governo italiano assicurò alla giustizia i quattro dirottatori dell'Achille Lauro, responsabili dell'atroce morte dell'ebreo americano Leon Klinghoffer, ucciso a sangue freddo e gettato in mare; l'Italia però non si piegò agli Usa che avevano organizzato un blitz a Sigonella per catturare e portare via Abu Abbas, il mediatore della vicenda, ritenuto dagli americani un complice dei terroristi. Craxi disse no e ora, dalle carte finalmente disponibili, s'intuisce che gli americani dovettero infine riconoscere, al di là del malumore, le ragioni italiane.

In una missiva del 24 ottobre 1985, pochi giorni dopo la conclusione della vicenda, l'ambasciatore a Roma Maxwell Rabb scrive alla Segreteria di Stato: «L'esperienza dimostra che dobbiamo migliorare il nostro coordinamento, agire insieme piuttosto che unilateralmente». Sì, autocritica più che critica davanti alla scoperta, probabilmente inattesa, che l'Italia di quell'ottobre 1985 non è più l'Italietta dell'8 settembre. Debole, incerta, senza voce nel concerto delle grandi potenze.

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Leon Klinghoffer

Craxi si fa sentire, eccome. E nella nota spedita a tutte le rappresentanze diplomatiche del Medio Oriente e del Sudest asiatico, la Segreteria di Stato ammette candidamente: «Secondo il nostro trattato di estradizione, se l'Italia processa per gli stessi fatti per i quali vorremmo processare, l'Italia ha il diritto di rigettare la nostra richiesta di estradizione. Non abbiamo alcuna giurisdizione sull'omicidio di Leon Klinghoffer». Sembra di leggere il pensiero tricolore, per una volta alto e forte, e invece è quello che si sostiene a Washington. Insomma, il coraggio tricolore, quel no e ancora no detto e ripetuto, lacera la tela dei rapporti ma non la strappa. E semmai costringe gli Usa a riflettere. Del resto gli americani in quelle ore trattano Roma come una colonia. La storia comincia alle 13.10 del 7 ottobre quando al largo di Port Said, in Egitto, viene dirottata la nave da crociera; i terroristi sono palestinesi. Arafat invia Abu Abbas e il 9 ottobre sembra delinearsi il lieto fine: la nave viene liberata.

All'apparenza senza spargimento di sangue e invece non è così, in un susseguirsi di colpi di scena. Il primo: si scopre che un passeggero paralitico è stato scaraventato in mare. Il secondo arriva alle 23.50 del 10 ottobre; la Casa Bianca chiama il premier Bettino Craxi e annuncia: il Boeing dell'EgyptAir, con a bordo i dirottatori e Abu Abbas, è stato intercettato da quattro caccia F-14 e obbligato a dirigersi verso l'Italia. Di lì a pochi minuti tutti i velivoli saranno a Sigonella. L'America vuole tutto e subito: la consegna degli assassini e dei mediatori palestinesi che verranno immediatamente trasferiti negli Usa. Craxi però non si arrende e anzi delinea una sua linea ben precisa: i sequestratori hanno colpito una nave italiana in acque internazionali, dunque saranno processati a Roma e non negli Usa. Inoltre Abu Abbas è un mediatore e non un complice, anche se il commando è una scheggia impazzita della sua fazione. In quell'interminabile notte si rischia un conflitto a fuoco senza precedenti: i carabinieri sono intorno al Boeing egiziano, ma sono a loro volta nel mirino dei militari americani del generale Carl Steiner.

Lunghi minuti di tensione. Poi, alle quattro del mattino, l'alto ufficiale si ritira e lascia il campo ai padroni di casa. E' finito il primo round, la contesa va avanti. In una difficilissima operazione di equilibrio, Craxi sposta il Boeing da Sigonella a Ciampino. E questo per due ragioni: per garantire ai membri dell'Olp a bordo la possibilità di consultarsi con l'ambasciata egiziana a Roma e poi per dare tempo agli americani che stanno cercando nuove prove contro Abu Abbas. Alle sei del mattino del 13 ottobre gli Stati Uniti recapitano la richiesta di arresto provvisorio. L'Italia però scandisce un altro no: le prove non ci sono. Abu Abbas è libero e abbandona l'Italia via Belgrado. In una lettera al Giornale, pubblicata l'11 marzo 1997, Craxi afferma: «Mi si chiedeva una cosa francamente impossibile e perciò non la feci, anche se mi costò una crisi di governo, subito poi rientrata. Il presidente americano mi scrisse una lettera che iniziava “caro Bettino” e mi invitava a New York». Ronald Reagan alla fine si adeguò.

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