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Rassegna Stampa
03.04.2011 Lo scrittore che va in cerca dei giusti
Ritratto di Gabriele Nissim

Testata:
Autore: Stefano Lorenzetto
Titolo: «Quella bontà insensata dello scrittore che va in cerca di giusti»

Sul GIORNALE di oggi, a pag.13, con il titolo "Quella bontà insensata dello scrittore che va in cerca di giusti ", un ritratto di Gabriele Nissim, autore di molti libri la cui lettura conisgliamo ai nostri lettori. L'intervista è di Stefano Lorenzetto.
Ecco l'articolo:


Gabriele Nissim
 

«C’è un al­bero per ogni uo­mo che ha scel­to il bene», dice lo scrittore Gabriele Nissim. Ma non ci sa­rebbe se non esistes­se un uomo, lui, che da dieci anni dedica la propria vita a piantare questi alberi, a farli crescere, ad annaffiarli tutti i giorni. Nissim ha creato la Foresta mondiale dei giusti dopo aver conosciuto Moshe Bejski, l’artefice del Giardino dei giusti di Gerusalemme, uno dei 1.200 «ebrei di Schindler» finiti sulla famosa «lista»dell’industriale tedesco Oskar Schind­­ler, che li salvò dai campi di sterminio. Ogni anno, nel Giardino dei giusti di Mila­no, Nissim pianta un pruno e interra un cip­po per ricordare a se stesso e al mondo intero che La bontà insensata - s’intitola così il suo nuovo libro edito da Mondadori - esisteva, esiste, esisterà sempre e può prendere il vol­to di chiunque, «nazisti o antinazisti, comuni­sti o anticomunisti, fondamentalisti islamici o musulmani moderati, secondini di un car­cere o prigionieri di un lager, ladri o galantuo­mini ». Per il 2011 gli alberi saranno cinque, dedicati ad altrettanti «testimoni inascolta­ti »: Romeo Dallaire, Jan Karski, Sophie Scholl, Alexandr Solzenicyn e Armin We­gner. Verranno messi a dimora giovedì pros­simo, alle 11, nel parco di Monte Stella. Poi, alle 17.30, al teatro Franco Parenti, le storie dei cinque giusti saranno raccontate con l’aiuto del direttore d’orchestra Ignat Solze­nicyn, figlio del premio Nobel per la letteratu­ra, di Franz Müller, unico sopravvissuto del­la Rosa Bianca, di Misha Wegner, figlio di Ar­min, e di altri testimoni. Numerosi Giardini dei giusti sono nel frattempo fioriti per meri­to di Nissim a Yerevan, Salonicco, Sofia, Var­savia, Sarajevo, Washington, Firenze, Pado­va, Catania, Palermo, Bellaria, Linguaglossa, Levico Terme. L’ultimo sta sorgendo sulla collina di Kigali, in Ruanda.
Giornalista, saggista e storico, nato a Mila­no nel 1950, Gabriele Nissim in passato ha lavorato come documentarista per la televi­sione della Svizzera italiana e per Canale 5 e ha scritto per
Giornale , Panorama , Mondo e
Corriere della Sera .
Oggi dirige Forestadeigiu­sti. it, sito e quotidiano online del comitato di cui è fondatore e presidente. Alcuni dei suoi bestseller sulle persecuzioni antisemite, tra­dotti in varie lingue, lo riguardano da vicino: ad Auschwitz perse tre bisnonni e due zii con la loro figlioletta. Suo padre Joseph, che oggi ha 92 anni, è uno dei 56.000 ebrei della comunità israelitica di Salo­nicco, che per il 98 per cen­to­venne deportata e stermi­nata dai nazisti.
Fu la sua in­telligenza a salvarlo: a diffe­renza del rabbino capo Zvi Koretz, non si fidò delle pro­messe dei tedeschi e fuggì su una nave prima del loro arrivo, arruolandosi come ufficiale paracadutista nel­l­’esercito britannico e finen­do a combattere ad El Ala­mein. In un campo profu­ghi gestito dagli inglesi ad Aleppo, in Siria, conobbe la futura moglie Jeane, tutto­ra vivente.
Lei ha capovolto le liturgie dell’Olocau­sto. Non dev’essere stato facile, per un ebreo.
«Mi sono posto il problema di come si potes­­se conservare, accanto alla memoria del ma­­le, anche quella del bene. Una rottura che mi è costata parecchia ostilità, anche perché l’ho estesa dal nazifascismo a tuttii totalitari­smi. Ricordo la reazione di Giorgio Bocca quando nel libro L’uomo che fermò Hitler rac­contai per la prima volta la vera storia di Di­mitar Pesev: “ Ma era un fascista!”.Sì,però da vicepresidente del Parlamento bulgaro com­pì un atto pressoché unico nella storia del­l’Olocausto: costrinse re Boris III a ordinare che i treni per Auschwitz non partissero, sal­vando così dalla deportazione 48.000 ebrei ».
Un fascista buono. Come Giorgio Perla­sca.
«Non è piaciuto che in Ebrei invisibili abbia scoperchiato il tema dei gulag e delle perse­cuzioni antiebraiche nell’Urss. E che in Una bambina contro Stalin abbia raccontato la storia di Gino De Marchi, militante piemon­t­ese del Pci che per punizione era stato spedi­to dal partito in Russia nel 1921, dove poi fu arrestato con la falsa accusa d’essere una spia fascista. Ai parenti dissero che era mor­to di peritonite. Solo l’ostinazione della fi­glia Luciana portò nel 1996 alla scoperta del­la verità: era stato fucilato nel 1938 a Butovo, su denuncia di alcuni comunisti italiani. Nel 2007 feci incontrare Luciana De Marchi con Piero Fassino nel cimitero di Levashovo, a San Pietro­burgo. La donna scoppiò in un pianto liberatorio da­vanti alla lapide che ricor­da i mille italiani vittime del terrore staliniano: ave­va vinto la sua solitaria bat­taglia cominciata ad appe­na 13 anni, quando a Mo­sca, davanti ai compagni di classe, si rifiutò di rinnega­re il padre come nemico del popolo. Il segretario dei Ds pronunciò un discorso in cui attaccava Palmiro To­­gliatti, che però non ebbe al­cun seguito, né culturale né politico, in Italia. Qual­cuno mi spiegò che s’era messo di mezzo Massimo D’Alema. Alcuni mesi dopo portai Luciana De Marchi da Giorgio Napolitano, il quale nelle stanze del Quirinale dimostrò un’inso­lita ritrosia, manco fosse lui l’ospite. Avrei voluto che parlasse più chiaro anche il presi­dente della Repubblica».
Perché s’è ispirato al giudice Moshe Bejski, che in Israele creò nel 1962 il pri­mo Giardino dei giusti presso lo Yad Vashem, luogo della memoria della Sho­ah, e fece conoscere al mondo la storia raccontata da Steven Spielberg nel film Schindler’s list ?
«Perché ne ho raccolto il testamento spiri­tuale nel libro

Il tribunale del bene .
Avevamo dialogato per mesi a casa sua, ma soltanto negli ultimi incontri che ho avuto con lui nel 2006 in un ospedale di Tel Aviv, pochi mesi prima della morte, ho afferrato il senso pro­fondo della sua esperienza. “Mi sono reso conto che non riusciremo mai a debellare dalla storia il male che gli uomini commetto­no”, mi disse. “I genocidi e i crimini contro l’umanità sono continuati nei gulag stalinia­ni, in Biafra, in Ruanda, in Bosnia nonostan­te il trauma di Auschwitz”. Gli obiettai che mi sembrava troppo pessimista. “Non sono pessimista,sono realista”,rispose. “Ma pos­siamo sempre contare sull’opera degli uomi­ni giusti che in ogni epoca hanno il coraggio di affrontare il male e che ogni volta salvano il mondo”. Bejski mi ha fatto capire che si può essere ragionevolmente ottimisti soltan­to a partire da un ragionevole pessimismo».
La bontà insensata dello scrittore sovieti­co Vasilij Grossman.
«Grossman non si faceva nessuna illusione sulla possibilità degli uomini di resistere ai regimi totalitari perché l’umanità nasce im­perfetta e nel totalitarismo persegue, alme­no all’inizio, un sogno di perfezione, quindi ci cadrà sempre,come oggi dimostra l’avan­zare del fanatismo islamico. Ma i regimi dit­tatoriali non riescono a piegare fino in fon­do l’animo umano, perché è propria di cia­scun individuo la capacità di comprendere, di cambiare, di commuoversi, di resistere, di provare vergogna, anche se pochi lo fan­no. Indro Montanelli mi dava del pazzo quando gli mandavo al Giornale i miei pezzi sui dissidenti russi. Lui pensava, come il mio amico Jirí Pelikán, uno dei protagonisti della Primavera di Praga, che se mai il comu­nismo fosse caduto sarebbe stato solo per un intervento militare degli Stati Uniti. Le insurrezioni in corso dal Nord Africa alla Si­ria dimostrano invece che i regimi cadono quando si consorziano piccoli gruppi di per­sone amanti della libertà».
Bejski non ebbe vita facile in Israele per aver voluto parificare le due memorie, quella del male inflitto e quella del bene ricevuto.
«Sentiva il dovere di esprimere gratitudine ai tanti Schindler della storia, ma non veniva compreso. Da giudice della Corte costituzio­nale si scontrò con Moshe Landau, che ave­va presieduto il processo contro Adolf Eich­mann, scovato dal Mossad in Argentina nel 1960, rapito, portato in Israele, condannato a morte e impiccato. Io stesso nel corso di un incontro privato nel 1999 tentai di ricordare a Landau che la filosofa ebrea Hannah Aren­dt, assistendo al processo Eichmann, non aveva scorto nel carattere del criminale nazi­sta nulla di demoniaco e di mostruoso, né tanto meno una sua propensione al sadi­smo, ma solo una preoccupante normalità».
La banalità del male , per rimanere al ti­tolo del volume in cui la Arendt raccolse le sue corrispondenze sul processo pub­blicate dal New Yorker .
«Esatto. Ma il giudice Landau, parecchio stizzito,mi stroncò con un verdetto inappel­­labile: “ Non mi riconosco nella sua interpre­tazione. Eichmann ha fatto uccidere gli ebrei con profonda convinzione. Altro che banale! Amava con tutto il suo cuore il lavoro che face­va. Ha agito in questo mo­do perché pensava come un nazista, non perché si ri­fiutava di pensare”».
Chi è un giusto?

«La miglior definizione si trova nella Bibbia: “Chi sal­va una vita salva il mondo intero”. Il giusto non è un santo, non è un eroe, non è un individuo politicamen­te corretto. Agisce per ri­spetto di se stesso. Come ha ben spiegato la stessa Aren­dt, la risposta alla domanda “che cosa devo fare?” non dipende dagli usi e dai co­stumi, né da un comando di origine divina o umana: dipende solo da ciò che io decido di fare guar­dando me stesso. In altre parole, io non pos­so fare certe cose perché, se le facessi, poi non riuscirei più a vivere con me stesso».
La bontà insensata parte da Qohèlet, il testo biblico grondante di interrogativi sul bene e sul male, che esclude la possi­bilità di un lieto fine per l’umanità.
«Perché fare il bene? Perché conviene pre­servare ciò che di buono abbiamo. Marco Aurelio non consigliava alcunché di diver­so: “Non sperare nella repubblica di Plato­ne, ma accontentati che una cosa piccolissi­ma progredisca, e pensa che questo risulta­to non è poi così piccolo”. La speranza reali­stica di Bejski è stata esattamente questa».
«Temi Dio e osserva i suoi comandamen­ti, perché questo per l’uomo è tutto», esorta Qohèlet. Ma se io non credo in Dio, perché mai dovrei seguire i suoi co­mandamenti?
«Marek Edelman, il grande protagonista del­la rivolta ebraica nel ghetto di Varsavia, era un laico socialista. Scrisse al suo amico Kon­stanty Gebert: “La fede mi è estranea, non mi piace quando la si ostenta. Io non so anco­ra se credere in Dio, ma la cosa più importan­te è che Dio possa credere in te, che possa credere che tu non sarai vile, che non fuggi­rai dalle tue responsabilità, che non tradirai il bene, indipendentemente dal fatto che tu creda o non creda”».
Lei è ebreo osservante?
«No».

Che atti di coraggio ha compiuto nella sua vita?

«Io non sono coraggioso. Anzi! Negli anni Settanta, alla Statale di Milano, ero vicino al­le posizioni del Movimento studentesco. Un giorno, mentre stringevo la mano a un amico dai capelli rossi che non vedevo da una decina d’anni, sopraggiunsero tre stu­denti del servizio d’ordine che lo gettarono per terra e lo presero a calci in bocca. Io rima­si in silenzio. Feci finta di non conoscerlo perché era considerato un simpatizzante dell’estrema destra. Ma poi, tornato a casa, cominciai a provare disgusto per il mio silen­zio. Cercai affannosamente sull’elenco tele­fonico il nome di quel ragazzo, senza trovar­lo. Non lo rividi più. È un rimorso che mi por­terò dietro per sempre».
Mi parli dei giusti per i quali pianterà un albero la prossima settimana.
«Aleksandr Solzenicyn credo che non abbia bisogno di presentazioni. Sophie Scholl era una studentessa di filosofia che a Monaco di Baviera cercò col gruppo universitario della Weiße Rose, la Rosa Bianca, di risvegliare le coscienze dei giovani tedeschi contro il Ter­zo Reich. Fu torturata dalla Gestapo per quat­tro giorni e infine ghigliottinata. Aveva 21 an­ni. Jan Karski fu il grande testimone inascolta­to della Shoah: per due volte penetrò nel ghet­to di Varsavia e portò al presidente america­no Franklin Roosevelt e al ministro degli Este­ri britannico Anthony Eden informazioni precise sullo sterminio degli ebrei in atto nel­la Germania nazista, ma nessuno gli diede retta. Romeo Dallaire, comandante canade­se del contingente Onu in Ruanda, provò la medesima frustrazione nel 1994: si rivolse al presidente delle Nazioni Unite, Boutros Gha­li, e a quello degli Stati Uniti, Bill Clinton, per denunciare l’imminente genocidio, ma non ottenne mai i caschi blu di rinforzo e un milio­ne di tutsi finirono massacrati dagli hutu».
Infine Armin Wegner.
«Intellettuale volontario del servizio sanita­rio tedesco in Medio Oriente, fu il primo a do­cumentare, anche fotograficamente, il geno­cidio degli armeni. Il 23 febbraio 1919 scrisse invano al presidente americano Woodrow Wilson per chiedere che il suo Paese venisse in soccorso della minoranza annientata dai turchi. Ma la sua lettera più famosa resta quel­la che spedì ad Adolf Hitler nel 1933, quando il Partito nazionalsocialista, da poco salito al potere, varò le prime misure antisemite: “Si­gnor Cancelliere del Reich, non si tratta solo del destino degli ebrei, si tratta del destino della Germania! Fermate queste azioni sen­za senso!”. Fu arrestato, fru­stato a sangue e rinchiuso nei campi di concentramen­to. Riuscì a fuggire in Italia, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1978. Sul soffit­to della casa che si era co­st­ruito sull’isola di Strombo­li incise una scritta: “
Ci è sta­to­affidato il compito di lavo­rare a un’opera, ma non ci è dato di completarla”».
Teme un ritorno della follia antisemita che por­tò alle camere a gas?
«La storia non si ripete mai in modo uguale: ha troppa fantasia».
Perché nell’Italia di oggi c’è tutto questo odio?
«Abbiamo chiuso i conti col fascismo e col nazismo: oggi è normale indi­gnarsi per questi mali assoluti. Ma non abbia­mo ancora fatto i conti col comunismo, che ha introdotto la categoria del nemico. A me non piace un Paese dove c’è una guerra civile permanente, dove il dibattito politico è teso solo all’individuazione del nemico. Il valore più bello è la pluralità di pensiero, la possibili­tà di cambiare opinione. Io non voglio avere nemici. Quando incontro una persona che prima la pensava in un modo e ora ragiona diversamente, mi dico sempre: meno male».

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