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Rassegna Stampa
02.04.2011 Una pagina intera per proporci il modello talebano
gli incubi di Massimo Fini sul Giornale di Sallusti

Testata:
Autore: Alessandro Gnocchi
Titolo: «Dalla parte del Mullah Omar per provocazione antimoderna»

In genere evitiamo gli articoli di Massimo Fini, l'equivalente alla destra estrema, anti-americana e anti-israele, del compagno di estrema sinistra Giulietto Chiesa. Se riprendiamo del primo l'articolo che segue, il motivo è la testata che ha ospitato una recensione del suo ultimo libro, IL GIORNALE, che definisce 'provocazione antimoderna' l' elogio del mullah Omar e dei suoi talebani, un regime criminale che Fini addirittura propone quale sistema meritevole di rispetto.
L'unico dispiacere per noi sta nella pubblicità involontaria che facciamo al libro, la lettura del pezzo di Alessandro Gnocchi, dal titolo " Dalla parte del Mullah Omar per provocazione antimoderna" a pag.27, è più che sufficiente per conoscerne il contenuto.
Invitiamo i nostri lettori a scrivere a Alessandro Sallusti, direttore del GIORNALE, per chiedergli se valeva la pena dedicare una pagina intera ad un libro simile. Per non dire dell'autore.
Ecco il pezzo:


Il mullah Omar a sinistra, il  mullah Fini a destra

Partiamo dalla dedica «a Matteo Miotto», morto in Afghanistan il 21 dicembre 2010. Alle parole dell’alpi­no di Vicenza, ucciso in uno scontro a fuoco, Massimo Fini affida il compito di condensa­re lo spirito e il significato del suo nuovo libro, Il Mullah Omar ( Mar­silio, pagg. 172, euro 16, 50). Una biografia del leader talebano, da anni inseguito senza risultati da­gli alleati sul campo di battaglia. L’argomento è spinoso,soprattut­to osservato dalla prospettiva di Fi­ni, secondo il quale la guerra con­tro i Talebani è una intromissione (neocolonialista) negli affari di un popolo che avrebbe il diritto di vi­vere come preferisce, lotte fratrici­de incluse.
Torniamo a Miotto e alla sua let­tera aperta sulla questione afgana scritta pochi mesi prima di mori­re: «Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case,invano. L’essenza del popo­lo afgano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ri­tenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste im­mutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie ra­dici, della propria terra e di essa si nutre. Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi».
Queste parole sono il cuore del libro. E sorreggono gli interrogati­vi sollevati da Fini. I costumi degli altri popoli meritano rispetto an­che se diversi dai nostri. Non si può costringere il resto del mon­d­o a vivere secondo i canoni occi­dentali. Soprattutto non si può co­stringerlo con la forza, specie se i motivi per cui si bombarda, al net­to di retorica e propaganda, sono opachi. Siamo dunque di fronte a un nuovo tipo di colonialismo a volte mascherato da missione in favore dei diritti umani? Abbiamo dunque cancellato il diritto inter­nazionale prima in Afghanistan, poi in Iraq e magari oggi in Libia con azioni avventate, nonostante il paravento dell’Onu?
Certo, le possibili obiezioni so­no molte.
Non si può tollerare l’es­i­stenza di governi che coccolano il terrorismo internazionale. Non si può lasciar massacrare i cittadini inermi nel corso di sanguinose guerre civili. Sarebbe meglio non negoziare con regimi che non ri­spettano i diritti umani, ma la re­alpolitik a volte è utile. Bisogna ri­spettare le civiltà altrui, è vero, ma non al punto da mettere sullo stes­so piano dittature e democrazie. Il mercato, e la sua globalizzazione, garantisce sviluppo economico, e quindi libertà e migliori condizio­ni di vita: sono i vantaggi della mo­dernità. Al Giornale la pensiamo così. Fini però tocca un nervo sco­perto, sarebbe sciocco negarlo. Basta ripensare ai dubbiosi com­menti sulla questione libica ospi­tati dai giornali di ogni ispirazione politica.Inoltre l’autore muove da presupposti lontani anni luce dal politicamente corretto;qui la criti­ca dell’Occidente è una critica del­la modernità.
Massimo Fini è un eccellente
biografo. Il Mullah Omar tiene in­chiodati alla pagina in virtù di un ritratto controcorrente. Omar è un bisonte alto 1 metro e 98 centi­metri. Incute timore. È inflessibile quando si tratta di decidere. Eppu­re è timido, gentile, umile. Non vuole esportare la rivoluzione isla­mica, è interessato solo alle sorti del suo Paese. La presenza di Osa­ma Bin Laden, giunto in Afghani­stan prima dell’avvento dei Tale­bani, è un fastidio che tollera suo malgrado. Non è antiamericano, almeno inizialmente. La sua politi­ca si può riassumere così: spazza­re via il sistema feudale afgano, e con esso i signori della guerra; ri­stabilire la pace e instaurare la sha­ria; inaugurare una sorta di «Me­dioevo arabo » in cui calibrate con­cessioni alla modernità non stra­volgano «la natura di una società regolata sul piano del costume e in particolare del diritto di fami­glia da leggi arcaiche risalenti al VII secolo arabo-musulmano».Fi­ni non nasconde le atrocità del re­gime e la discriminazione contro le donne, però fa notare come il ri­sentimento nutrito dall’Occiden­te verso Omar sia speciale, dettato da un sentimento più profondo ri­spetto allo sbandierato rispetto dei diritti umani. Il Mullah incar­na «l’orrore allo stato puro»,«l’alie­no », «l’altro da sé», «il mostro». Perché?Scrive Fini:«nell’era della modernità trionfante, avanzante e conquistante osava proporre l’Antimodernità, una società del tutto diversa, pauperista, in antite­si concettualmente radicale al mo­dello di sviluppo antioccidenta­le ».

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