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Rassegna Stampa
11.05.2009 Donne afghane: meglio la prigione che la propria casa
Un reportage sulla disperata condizione della donna in quel paese

Testata:
Autore: Nadia Muratore
Titolo: «Herat, quelle donne in carcere La cella? Meglio della famiglia - Raina e i suoi tappeti, passaporto per la libertà»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 11/05/2009, a pag. 16, due articoli di Nadia Muratore titolati "Herat, quelle donne in carcere.  La cella? Meglio della famiglia" e " Raina e i suoi tappeti, passaporto per la libertà " sulla situazione delle donne afghane. Scontro di civiltà ? Nooooooooooooo !

" Herat, quelle donne in carcere La cella? Meglio della famiglia "

Herat - È azzurro come il cielo, il portone che separa la libertà dalla prigione e, spesso, la morte dalla vita. Oltre a quel rettangolo di ferro, che inutilmente i dipinti cercano di ingentilire, c'è il carcere di Herat, la città più grande dell'Afghanistan, dopo Kabul. Al suo interno 1.500 uomini - dei quali 120 condannati a morte - e 95 donne che spesso scontano pene per reati che in Italia non sarebbero neppure considerati peccati veniali.
L'aver amato un uomo diverso da quello scelto dalla famiglia, essere rimasta incinta fuori dal matrimonio o l'aver mancato di rispetto a un padre padrone. Colpe gravissime in Afghanistan, dove la donna vale meno di un gregge di pecore e scostare il burqa dagli occhi per guardare una vetrina può essere considerato un grave affronto alla legge e alla morale. In Italia la maggior parte di loro non sarebbe rinchiusa in carcere: secondo la nostra legge non hanno commesso alcun reato. Qui - paradossalmente - espiare queste colpe in una prigione diventa il modo, l'unico modo, per sfuggire alla vendetta dei familiari, giudici spietati che preferiscono uccidere la figlia accusata di disonore. Il carcere diventa così, senza volerlo e senza saperlo, una struttura di accoglienza per donne che hanno osato ribellarsi.
Quella lastra di ferro, alta oltre otto metri, è il loro lasciapassare per la vita, un biglietto della lotteria che può essere vincente se, una volta uscite, riescono a rifarsi una vita lontano dal proprio villaggio. Le tre guardie che piantonano l'ingresso faticano a trovare i chiavistelli giusti: si vede che sono più abituati a chiuderle le porte, che non ad aprirle. Trovare nel mazzo di chiavi, lunghe diversi centimetri, quelle che si incastrano perfettamente nella serratura, diventa ancora più difficile se invece di guardare quello che fai butti l'occhio sui visitatori che attendono di poter entrare: sono i primi che vedono senza manette ai polsi. Questo portone è solo per visitatori, ma prima d'ora nessuno aveva mai avuto la possibilità di varcarne la soglia. Lungo il corridoio una donna con il burqa, legata con le catene a tre uomini, alza appena il capo quando passiamo, giusto per sbirciare cosa c'è al di là di quella porta. Rumore di chiavi che girano e voci concitate delle guardie fanno ben sperare in un'apertura rapida, ma la voglia di varcare a testa alta quella soglia fino ad ora inviolata, viene immediatamente delusa. Tutto quel girar di chiavi - che dura diversi minuti - non spalanca il portone che svetta sulle guardie armate: ad aprirsi è una piccola porta sulla sinistra, che obbliga i visitatori a fare l'inchino al direttore del carcere che - sorridente e perfetto nella sua divisa scura - attende nel giardino interno. Un'immagine bucolica che non ti aspetti, dove fiori e piante si intervallano a pantaloni e camicie freschi di bucato che svolazzano al vento. «Oggi era giorno di lavanderia», precisa il direttore Majeed Sadiqi, che ha accanto a sé un interprete. È lui a fare da cicerone nel penitenziario costruito grazie al finanziamento del Provincial Reconstruction Team, il Prt italiano che realizza progetti per incrementare lo sviluppo di Herat. Culle e laboratori di tessitura si alternano a celle spartane e alla cucina dove le detenute si preparano i pasti. «Prima le donne erano rinchiuse nel carcere maschile - spiega l'interprete imboccato dal direttore -, ma c'erano sempre problemi, così abbiamo costruito questa struttura, dove accogliamo anche bambini».
Di giorno le celle sono tutte aperte e vuote: le detenute sono al lavoro. Imparare un mestiere fa parte del percorso di riabilitazione che può servire per ottenere uno sconto di pena. I laboratori sono piccole stanze senza finestre dove tre, quattro ragazze con il capo coperto, lavorano al telaio e realizzano tappeti. I movimenti sono lenti e precisi, un tira e molla, un vai e vieni della stoffa che si intreccia, che dura diverse ore, senza mai una pausa. Ragazzine di diciassette anni, sedute per terra con le gambe incrociate, accanto a donne più anziane - che in realtà superano appena la quarantina, nonostante le rughe che solcano i loro visi - non alzano mai la testa dalla tela. L'ultima seduta verso la porta è la responsabile che insegna, controlla, guida i movimenti delle nuove arrivate. Gli occhi fissi sui fili da imbastire, le mani che corrono veloci sul telaio, quei movimenti che a noi sembrano così monotoni, per queste donne rappresentano una via di fuga dal carcere, la possibilità di ricostruirsi una vita. Il comandante Sadiqi snocciola nomi e storie così precise che ti viene il dubbio che stia bluffando: «Lei è Sunia, ha 25 anni e ha commesso reati contro la morale, questa è Turbinai, ha tentato di uccidere l'uomo che da anni la violentava. Le conosco tutte, sono anni che stanno qui». È gentile il direttore, però si irrigidisce quando chiediamo di vedere la stanza dell'impiccagione. Nessuna si volta nel sentir pronunciare il proprio nome: continuano imperterrite a lavorare come se noi non esistessimo, o come se loro fossero in un altro mondo. Alcune sono qui per scontare un reato commesso da mariti o fratelli: per l'economia domestica è meglio mandare una donna in prigione che non un uomo. Alla fine del corridoio la porta si apre su una parte del giardino dove giocano i bimbi delle detenute. «Ci prendiamo cura di loro - conclude il direttore -. Le famiglie li abbandonano perché figli di peccatrici e lasciarli nei villaggi significa spesso mandarli a morte sicura».
Più in là c'è l'uscita: per guadagnarsi la libertà bisogna passare sotto un arco azzurro come il portone d'ingresso, dove campeggia la scritta: Goodbye.

" Raina e i suoi tappeti, passaporto per la libertà "

Herat Ha gli occhi neri, la bocca piccola e le mani veloci, Raina, 27 anni dei quali quattro trascorsi nel carcere di Herat. Deve scontare una pena di dieci anni per aver tentato di uccidere, con la complicità della sorella, il marito che abusava di entrambe. Il velo color amaranto le copre il capo mentre lavora al telaio con un'altra compagna.
Seduta a terra con le gambe incrociate e i piedi nudi, in silenzio, senza un movimento stonato che possa interrompere il viavai dei fili da imbastire.
Solo quando gli uomini si allontanano dal laboratorio, prende coraggio e si volta, incuriosita da questa visita inaspettata. «Chi siete?», chiede in un inglese stentato e non si tira indietro quando scopre che la sua storia finirà su un giornale. Sorride quando le diciamo che siamo italiani e, mettendosi una mano sul cuore, ci fa un inchino.
«Devo scontare dieci anni - spiega parlando sottovoce, senza mai interrompere il lavoro -, ma non sono pentita per quello che ho fatto. Mio marito ci trattava come delle bestie, non voglio più vederlo. Qui sto bene e forse potrò uscire prima del previsto».
Lavorare paga nel carcere di Herat, come un indulto che arriva in base alle tue capacità, come spiega Raina: «Dopo quattro anni passati a fare tappeti, sono diventata una "teacher". Questa qualifica mi serve per uscire prima da qui dentro e forse tra un anno sarò libera».
Diventare la responsabile di un laboratorio è una posizione ambita, che anche dentro il carcere permette piccoli privilegi, come una mezz'ora di aria in più o maggior tempo da trascorrere con in figli. «Ho avuto fortuna - spiega la donna dal volto di bambina -, la mia teacher è stata trasferita e io ho preso il suo posto. Sono brava, chiedilo al direttore, i nostri tappeti sono i migliori».
La speranza di rifarsi una vita rende i suoi occhi ancora più luminosi e le mani ancora più veloci, come se i movimenti rapidi imprimessero un'accelerazione anche al tempo che dentro queste quattro mura sembra non passare mai. «Ho voglia di uscire - prosegue -, di camminare per strada, di incontrare nuovi amici. La prima cosa che farò è cercare mia sorella, da quel giorno non l'ho più rivista, non so che fine abbia fatto. Poi voglio aprire un negozio di tappeti sulla strada principale di Herat».
Quando le guardie tornano indietro per vedere che sta succedendo, Raina si ammutolisce, davanti agli uomini non è conveniente parlare. China il capo e si volta a guardare la sua tela: quei fili che crescono sono il suo biglietto per la libertà.

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