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Il Tempo Rassegna Stampa
08.03.2019 Il libro di Souad Sbai per conoscere le storie delle donne sottomesse dall'islam anche in Italia
Commento di Pietro De Leo

Testata: Il Tempo
Data: 08 marzo 2019
Pagina: 6
Autore: Pietro De Leo
Titolo: «Prigioniere dell'islamismo radicale. E l'Italia fa finta di non vedere»

Riprendiamo dal TEMPO di oggi, 08/03/2019, a pag. 6, con il titolo "Prigioniere dell'islamismo radicale. E l'Italia fa finta di non vedere", il commento di Pietro De Leo.

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Souad Sbai - la copertina (Alter Ego ed.)

Alla complessità occorre piazzarsi innanzi, pronti a riceverla, se necessario, come un pugno in faccia. A questo serve il libro di Souad Sbai, Rachida-Un'apostata in Italia, pubblicato dalla Alter Ego Edizioni. 104 pagine da mandar giù nella consapevolezza che saranno spilli a grattare nella gola, nello stomaco e nel cuore. Anche di riflesso nella coscienza, si spera. La Rachida in questione è Rachida Radi, marocchina di appena 35 anni massacrata a colpi di martello nel 2011 dal marito, che non approvava il suo avvicinamento alla religione cattolica. Delitto avvenuto nei dintorni di Brescello, ironia della sorte. Quel borgo incastonato nell'immaginario collettivo italiano per il dualismo sociologico tra Don Camillo e Peppone così raccontato da Guareschi, simboli del manicheismo cattolico e laico dell'Italia del '900, si trova ad espettorare un virus dei più insidiosi per la nostra civiltà libera, ossia l'Islam fondamentalista. Che segrega donne, deturpa i morti, calpesta libertà conquistate e, soprattutto, macina il valore della persona e della memoria. Si, perché si scopre che, dopo l'orribile delitto, nessuno si sarebbe occupato dei resti della povera Rachida (mamma di due bimbe) senza l'interessamento proprio di Souad Sbai, all'epoca dei fatti parlamentare, che ha reso possibile la sua traslazione in Marocco con una degna sepoltura ad opera dei genitori. Scorrendo le pagine si scopre anche l'ipocrisia connaturata al generone buonista e multiculturale, sempre così solerte nel rivendicare la coesistenza di visioni del mondo antitetiche e opposte, e poi allo stesso modo sordo nel prendere contezza delle conseguenze più amare di queste velleità pericolose. Dunque la storia di Rachida è quella di Hina Salem e delle altre ragazze ghermite nella propria vita dalla mano di un fondamentalismo familiare, che segue i dettami della religione e respinge qualsiasi contaminazione con il modo di vivere "all'occidentale". Mariti, padri e fratelli si trasformano in inquisitori algidi nell'eseguire la propria sentenza. Nella summa dei detti di Maometto, infatti, c'è una perentorietà sull'apostasia da punire con la morte. Il libro di Souad Sbai, accanto ad un racconto di orrore domestico, suscita in noi una serie di domande. L'evidente inesistenza di una reazione preventiva considerando che più volte Rachida aveva denunciato i maltrattamenti. E, soprattutto, il grande paradosso del concetto di libertà. In nome di questo enorme valore è stata promossa la convivenza con altre culture. E proprio da qui, però deriva l'effetto collaterale che mortifica la libertà stessa. Il libro "Rachida", dunque, è anche il manifesto di una battaglia politica, culturale e sociale che Souad Sbai compie da anni alla guida dell'Associazione donne Marocchine in Italia, espressa anche da una notevole attività di sensibilizzazione portata avanti attraverso articoli di giornale e trasmissioni tv. E lo squarcio sul velo di indifferenza, o scarsa attenzione, verso quella parte velata, nel vero senso della parola, di Italia popolata da donne immigrate, o figlie di immigrati, che vengono chiuse in casa, ostacolate nel frequentare amici o fidanzati, addirittura nell'assaggiare cibo italiano o andare a scuola. Una realtà certificata dai numeri (significativo un sondaggio dell'Ipr Marketing di fine 2017 che certificava una significativa percentuale di ritrosia dei capifamiglia musulmani in Italia a far integrare le donne di casa) e raccontata da tantissime storie, spesso culminate nel sangue. E un pugno in faccia, questo di Souad Sbai. Arriva dritto su tutti noi. E soprattutto sui cantori della fiaba politicamente corretta. Quelli che, nella pretesa di guarire la nostra società, finiscono per farla ammalare ancora di più.

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