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L'Opinione Rassegna Stampa
14.05.2010 In un negoziato non si può ottenere tutto ciò che si vuole
Solo quando i leader palestinesi lo comprenderanno sarà possibile la pace

Testata: L'Opinione
Data: 14 maggio 2010
Pagina: 9
Autore: Stefano Magni
Titolo: «La pace non è impossibile»

Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 14/05/2010, l'intervista di Stefano Magni a Lior Shilat, ex assistente di Ariel Sharon, dal titolo " La pace non è impossibile ".


Stefano Magni

Sembrano ormai lontani i momenti cruciali del ritiro dell’esercito e dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza nell’agosto del 2005. Sembra ancora più lontano il momento in cui il generale Ariel Sharon fondò Kadima, per “cercare una via alternativa alla pace, rispetto a quella del Likud”. Era il novembre del 2005: lo storico protagonista delle guerre arabo-israeliane, conosciuto in tutto il mondo come un “falco”, aveva lasciato la destra israeliana per facilitare il processo di pace e aggirare la dura opposizione alla politica di disimpegno da Gaza.
Dopo l’ictus che ridusse Sharon in uno stato di coma permanente, nel gennaio del 2006, di acqua ne è passata veramente tanta sotto i ponti. La guida del partito e del Paese passò a Ehud Olmert. Seguirono tre anni in cui Israele dovette combattere due guerre (contro Hezbollah in Libano nel 2006 e contro Hamas a Gaza nel 2008-2009) e il governo di Kadima cadde, travolto anche da scandali che coinvolsero lo stesso Olmert. Le elezioni del 2009 furono vinte da una coalizione di partiti di centro-destra e dei laburisti, guidata dal leader del Likud Benjamin Netanyahu. Kadima resta, numericamente, il più grande partito in Israele e la più importante formazione all’opposizione. E’ accusata dal Likud di aver permesso, a partire dal ritiro da Gaza, l’escalation della violenza che ha caratterizzato i tre anni scorsi e non è ancora del tutto finita. Ora che la crisi pare (almeno momentaneamente) rientrata, ne abbiamo parlato con Lior Shilat. Giovane ingegnere israeliano, è stato assistente personale di Sharon nei momenti cruciali del disimpegno da Gaza e della fondazione di Kadima. Poi ha aiutato, nelle elezioni del 2009, il nuovo leader del partito centrista (ed ex ministro degli Esteri) Tzipi Livni a conquistare la maggioranza relativa in Parlamento. Ora è un privato cittadino. I suoi pareri non coincidono con quelli del governo israeliano.

D. - Lior Shilat, alla luce della presa del potere di Hamas a Gaza, dei continui lanci di razzi contro Israele e poi della guerra del 2008-2009, possiamo ancora dire che il disimpegno da Gaza nel 2005 sia stata la scelta giusta?

R. - Sì, ne sono convinto. Il disimpegno dalla Striscia di Gaza mirava a due obiettivi strategici di lungo periodo fissati dal premier Ariel Sharon. Il primo era la comprensione che gli insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza non sarebbero stati accettati in nessun negoziato internazionale di pace. Una volta stabilito che resistere nella Striscia non sarebbe stato sostenibile nel medio e lungo periodo, continuare ad esporre migliaia di civili e di militari ai continui attacchi di Hamas diventava un rischio inaccettabile. Perché la gente, di solito, non ricorda che gli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, come Gush Katif, erano perennemente sotto attacco, colpiti da razzi, colpi di mortaio e cecchini. Il secondo obiettivo strategico era: per il bene di Israele e anche per quello dei palestinesi era necessario tracciare un confine molto chiaro e netto. Gaza, pur con tutti i problemi che pone alla sicurezza israeliana, ha per lo meno un confine chiaro, indiscusso e comprensibile a tutti.

Hamas, tuttavia, non riconosce questo confine...

Hamas non riconosce questo confine, così come non ne riconoscerebbe alcun altro, perché non legittima neppure l’esistenza di Israele. Non bisogna pensare a Hamas, però, ma ai comuni cittadini palestinesi. Che non la pensano allo stesso modo. E alla comunità internazionale, che può lavorare meglio a un negoziato di pace nel momento in cui il confine fra israeliani e palestinesi è ben definito e non soggetto ad altre dispute territoriali.

Anche dopo la guerra nel Libano del 2006, Hezbollah continua a costituire una minaccia per la sicurezza di Israele. Anche in questo caso, ritiene che l’accordo di pace accettato da Olmert nell’agosto del 2006, attraverso le Nazioni Unite, sia stata la scelta migliore?

L’accordo di pace del 2006 ha prodotto ottimi risultati sul terreno. E lo dimostra l’assenza di conflitto per quattro anni di fila. Si sono registrati solo pochi atti di ostilità fra Israele e le forze di terroristi che operano nel Sud del Libano. Tuttavia, il problema dell’accordo del 2006 sta nel fatto che il governo israeliano ha accettato di cedere la responsabilità dell’applicazione delle sue clausole a una forza internazionale (Unifil2), sperando che questa potesse bloccare il continuo flusso di armi dall’Iran a Hezbollah. Sfortunatamente non è successo nulla di simile. Hezbollah è ora più armata di prima.

Ora si sono riaperti i negoziati indiretti con l’Autorità Palestinese fedele al presidente Abu Mazen. Quanto fu vicino il governo Olmert a un accordo di pace?

Le trattative allora condotte da Ehud Olmert e Tzipi Livni erano giunte a buon punto. Era stato raggiunto un accordo su quasi tutti i punti fondamentali. Stando alle dichiarazioni rilasciate da Olmert ai media, le due parti erano concordi su “quasi tutto”. Sfortunatamente Kadima non è riuscita a formare il governo successivo, pur avendo conquistato, come singolo partito, il più alto numero di voti nelle ultime elezioni. Una volta installato, il nuovo governo Netanyahu ha dovuto ricominciare tutto da capo.

Quante chance hanno questi nuovi negoziati indiretti fra il governo Netanyahu e l’Anp, secondo lei?

Sinceramente penso che un accordo di pace sarà possibile solo quando un leader palestinese sarà sufficientemente coraggioso da dire al suo popolo che, in un negoziato, non si può ottenere tutto quello che si vuole. E spero che, prima o poi, in Palestina, si affermi realmente un leader così coraggioso. Perché a questa stessa conclusione, in Israele, sono arrivati finora tutti i primi ministri, da Ehud Barak a Ehud Olmert, passando per Ariel Sharon. Nel caso di Netanyahu, il problema si complica. E sto parlando di un problema politico, più che di leadership. Perché, in Israele, la maggioranza della gente ha compreso che si devono fare concessioni per il bene delle generazioni future. Ma nella coalizione di Netanyahu è rappresentata anche quella minoranza di israeliani che non vuole comprendere questo principio.

Come spiega, però, l’accanimento dell’opinione pubblica e dei governi europei e americano contro Netanyahu?

Penso, semplicemente, che la comunità internazionale commetta un errore a spingere così tanto nell’angolo il premier. Anche perché, se si preme troppo sul governo israeliano, si dimentica che i negoziati indiretti sono iniziati solo in questi giorni perché sono stati i palestinesi a non voler scendere a compromessi e a non sedere sullo stesso tavolo della controparte israeliana. Netanyahu, certamente, deve ancora dimostrare di essere interessato al processo di pace. Ma la comunità internazionale, almeno, dovrebbe dargli un’opportunità per dimostrarlo.

Il grosso della polemica internazionale, ora, si concentra su Gerusalemme, che Netanyahu vorrebbe unita e capitale di Israele, mentre i palestinesi intenderebbero dividerla e fare della sua parte Est la capitale del loro futuro Stato indipendente. Lei è d’accordo, con Elie Wiesel, che Gerusalemme è al di sopra della politica, in quanto parte integrante della storia e della religione del popolo ebraico?

Prima di tutto dobbiamo ricordarci che Gerusalemme è una città. E’ una normale grande metropoli moderna in cui la gente si sveglia tutti i giorni alla mattina per andare a lavorare e di sera può godere di una vita notturna molto divertente. Non stiamo parlando di nulla di mitologico, né di un campo di battaglia perenne. Per quanto riguarda i sobborghi di Gerusalemme, l’oggetto della contesa, dobbiamo ricordare che ci vive il 60% della popolazione ebraica. Per l’israeliano medio, quei sobborghi sono parte integrante della normale vita cittadina. Non stiamo parlando di nuclei di resistenza ebraica in pieno territorio palestinese, ma di periferie di una metropoli. Sia il presidente Clinton che il suo successore Bush jr., che pure premevano per una soluzione “due popoli in due Stati”, compresa la divisione di Gerusalemme, non mettevano in dubbio che questi sobborghi fossero territorio nazionale di Israele.

E come spiega la crisi nelle relazioni fra Usa e Israele seguita all’annuncio di nuove costruzioni per quartieri ebraici a Gerusalemme Est?

Penso che si tratti solo di un problema di comunicazione e di sensibilità. La decisione delle nuove costruzione è stata annunciata proprio durante la visita del vicepresidente americano Joe Biden. Ma si dimentica che l’annuncio è stato fatto da un ente burocratico di Gerusalemme e deve essere interpretata come una decisione tecnica, perché occorreranno almeno 2 anni prima dell’inizio dei lavori di costruzione. Fra Obama e Netanyahu, dunque, c’è un problema di malintesi. Certo, i governi Sharon e Olmert avevano sempre risolto malintesi simili in modo molto indolore ed elegante.

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