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L'Opinione Rassegna Stampa
20.12.2007 Rifiutare lo "Stato ebraico" significa voler distruggere Israele
un articolo di David Harris, direttore dell' American Jewish Committee

Testata: L'Opinione
Data: 20 dicembre 2007
Pagina: 0
Autore: David Harris
Titolo: «Il diritto di essere uno Stato ebraico»

Da L' OPINIONE del 20 dicembre 2007:

Vediamo se ho capito bene. Saeb Erekat, il principale negoziatore palestinese, ha rinunciato sommariamente alla prospettiva di riconoscere Israele come uno stato ebraico. Il suo ragionamento? “Nessuno stato al mondo connette la sua identità nazionale alla sua identità religiosa.” Che, chiaramente, è assolutamente assurdo. Cosa hanno in comune, ad esempio, Afghanistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh, Brunei, Comoros, Indonesia, Iran, Iraq, Giordania, Kuwait, Libia, Malesia, Maldive, Mauritania, Marocco, Oman, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Tunisia, Emirati Arabi Uniti e Yemen? Avete indovinato: l’Islam è la religione ufficiale, sebbene molti, come la Malesia, abbiano significative minoranze non-musulmane. Ed in Egitto, la Shari’a, la legge islamica, viene formalmente riconosciuta come la sorgente del diritto. Inoltre, cosa dire precisamente dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), un raggruppamento intergovernativo di 57 paesi, incluso lo “Stato di Palestina”, il cui statuto parla della loro “fede comune” e i cui obiettivi includono l’assicurare “il progresso e il benessere dei loro popoli e quelli degli altri musulmani in tutto il mondo?”

C’è alcuna altra entità simile che vincoli così tanti paesi di altre religioni intorno ad una “fede comune”? E forse il Sig. Erekat potrebbe spiegare perché, se gli stati non connettono le identità nazionali e religiose, noi abbiamo paesi i cui nomi ufficiali sono la Repubblica islamica dell’Iran, la Repubblica islamica della Mauritania e la Repubblica islamica del Pakistan. Ma in verità i paesi musulmani non sono i soli a stabilire religioni di stato e a cercare di associare fede e nazionalità. Per contrasto, in Israele non c’è una religione di stato ufficiale, sebbene la maggioranza della popolazione ed il carattere del paese siano indiscutibilmente ebraici, e inoltre alle comunità di fede di minoranza è concessa la piena protezione. Ma l’asserzione del Sig. Erekat non è solo sbagliata; è anche mal pensata. Per essere una persona impegnata nella ricerca della pace, ha un modo strano di dimostrarlo. Un accordo verrà solamente quando molte condizioni saranno soddisfatte, fra cui il riconoscimento da parte dei palestinesi e del mondo arabo che Israele è uno stato ebraico e che fu fondato, con il sostegno della comunità internazionale, per essere la madrepatria degli ebrei. Altrimenti, i giochi si chiudono.

I palestinesi non possono avere tutto: chiedere uno stato palestinese, entrare a far parte della Lega araba e dell’OCI ed essere Judenrein e, allo stesso tempo, rifiutare Israele come uno stato ebraico, insistendo, ipocritamente, che debba essere uno stato “aperto”. Cosa che, chiaramente, può intendere solamente una cosa: la battaglia per distruggere Israele come noi lo conosciamo, continuerà ad essere intrapresa con ogni mezzo possibile. Un fallimento annunciato. Una volta Yasser Arafat disse al Presidente Bill Clinton che gli ebrei non avevano legami storici con Israele e, in particolare, con Gerusalemme, affermando che il Tempio non era mai neppure esistito. I commenti di Erekat mostrano che questa incapacità e svogliatezza di riconoscere fatti indisputabili non fu limitata ad Arafat. E’ parte dei decenni di rifiuti testardi e voluti. È ora di affrontare la realtà. È ora di capire quello che capì Winston Churchill quando lui definì la creazione dello stato ebraico “un evento nella storia del mondo che non andava visto nella prospettiva di una generazione o di un secolo, ma nella prospettiva di mille, duemila, o anche tremila anni.” E che Jorge Garcia Granados, il rappresentante guatemalteco alle Nazioni Unite, sapeva quando sostenne pubblicamente la fondazione di Israele a causa del suo sdegno al fatto che “nessun ebreo osa rischiare di entrare nel più celebrato luogo della religione ebraica, perché se così facesse potrebbe essere ucciso”.

E quello che sentì il Presidente Harry Truman quando il suo salmo favorito, il Salmo 137, lo portò ad identificarsi con il Sionismo: “Dai fiumi di Babilonia, noi ci sedemmo là, noi piangemmo, ricordando Sion”. E, più recentemente, quello che ha compreso il Presidente francese Nicolas Sarkozy quando ha parlato ad una colazione dell’ American Jewish Committee di una soluzione di “due stati-nazione”, intendendo uno ebraico ed uno palestinese. Il collegamento storico del popolo ebraico alla terra - ed ora allo Stato – di Israele è tanto legittimo quanto è indistruttibile. Israele ha fatto un salto da gigante nel riconoscere le aspirazioni nazionali palestinesi ed il bisogno di uno stato palestinese (con tutti i rischi che ciò comporta per la sicurezza di Israele) come una risposta territoriale alle necessità delle popolo palestinese. Ora i palestinesi devono muoversi sul piano della reciprocità; ed il più presto e il meglio possibile, se si vuole dare un’opportunità di successo al processo di pace corrente. Lo faranno? La settimana scorsa, Hamas rese perfettamente chiaro da che parte sta, se mai vi fosse stato alcun dubbio. La sua richiesta all’ONU di scusarsi per il piano di partizione del 1947 sostiene che “La Palestina è terra islamica araba, dal fiume al mare, incluso Gerusalemme. Non c’è posto in essa per gli ebrei”. Quindi spetta a leader come Erekat mostrare al mondo che altre voci palestinesi, alla fine, riconoscono quello che la Dichiarazione Balfour, la Commissione Peel, il Comitato Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno tutte espresso in modo chiaro: c’è un bisogno assoluto di uno stato ebraico - sì, ebraico - nella regione, che viva accanto agli altri stati, ognuno col suo proprio carattere distintivo. Non c’è da girarci intorno. Non si può fare la pace con qualcuno la cui identità fondamentale si rifiuta di ammettere.
traduzione italiana a cura di Carmine Monaco

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