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L'Opinione Rassegna Stampa
14.05.2004 Palestinesi contro palestinesi
chissà perchè Arafat vuole tenere tutto nascosto. Già, perchè ?

Testata: L'Opinione
Data: 14 maggio 2004
Pagina: 1
Autore: Stefano Magni
Titolo: «Intrafada, la guerra civile in Palestina»
Dall'Opinione di oggi un articolo di Stefano Magni che affronta un tema ancora nascosto fra le pieghe della censura arafattiana.
Intifada è un termine che ormai conoscono tutti. Significa "scrollarsi di dosso qualcosa" e più in generale è utilizzata per indicare sollevazione. E’ un termine che viene accostato a immagini ben precise: il bambino palestinese che tira i sassi al carro armato israeliano, processioni di donne e uomini urlanti che trasportano bare di combattenti per le strade, check point e case perquisite. Sono immagini che attirano i media, già avvezzi agli scenari della prima Intifada, quella della fine degli anni ’80.

Nessuno, però, sente mai pronunciare un altro termine, un neologismo che ben descrive la situazione interna ai territori controllati dall’Autorità Nazionale Palestinese: Intrafada, cioè la violenza interna alla Palestina, i crimini commessi da Palestinesi contro altri Palestinesi. Dell’Intrafada non vengono diffuse immagini. Si può trovare qualcosa su Internet, su Palestinian Media Watch, dove si può assistere a qualche scena di fucilazione arbitraria di civili e militari accusati di collaborazionismo con Israele.

Qualche volta spuntano notizie che evidenziano come in Palestina non siano rispettati i diritti umani: nel novembre del 1999 venne arrestato arbitrariamente un intero gruppo di intellettuali che aveva firmato una petizione contro la corruzione del regime di Arafat; poi il sindaco di un villaggio palestinese, Zuhir Hamdan, aveva dichiarato apertamente che i suoi cittadini esprimevano chiaramente il desiderio di vivere sotto il governo israeliano e non sotto l’autorità di Arafat e aveva puntualmente subito un attentato, da cui si era miracolosamente salvato.

Qualche sito o quotidiano attento ai diritti dei cristiani fa notare come alcune città sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, si sono svuotate della loro popolazione cristiana e sono ormai interamente islamizzate; infine è stata diffusa di recente una notizia che fa riflettere su come in Palestina non vi sia la benché minima libertà sessuale: Fuad Moussa, un gay palestinese è fuggito in Israele dopo aver subito ogni forma di sopruso, maltrattamento e umiliazione da parte, non solo dei parenti, ma anche della polizia palestinese.

Il suo problema, quello per risolvere il quale varie associazioni gay internazionali si sono battute, era di non essere rimandato a casa: voleva anche essere arrestato per immigrazione clandestina, ma rimanere in una prigione israeliana. Anche se alcuni giornalisti si sono scagliati contro quei "cinici dei magistrati israeliani" che volevano rispedire il povero gay in Palestina, non curanti della sua sorte, è apparso evidente a tutti che qualcosa non va in fatto di rispetto dei diritti umani dall’altra parte del "muro" di Israele.

Questi e altri sono tutti fatti di cronaca che non hanno raggiunto né il cuore, né la mente del grande pubblico, facilmente dimenticabili, difficilmente reperibili a sole poche settimane dalla loro pubblicazione, non accompagnati da immagini, muti. Eppure questi fatti di cronaca, a cui si dedica al massimo un trafiletto nella stampa specializzata, messi tutti assieme fanno quasi 300 morti, l’11 percento del totale dei caduti dell’Intifada e mentre questi ultimi sono a gran maggioranza uomini armati uccisi in azioni militari, i morti di Intrafada sono quasi sempre civili palestinesi, uccisi da altri Palestinesi, civili o militari.

Le prime statistiche su questo fenomeno sono state pubblicate dal Palestinian Human Rights Monitoring Group di Gerusalemme, che è tutt’altro che una fonte di parte israeliana, dato che per gran parte del suo rapporto sull’Intrafada gli autori si sforzano, anche ai limiti dell’acrobazia sociologica, di attribuire all’occupazione israeliana la responsabilità di crimini commessi da Palestinesi contro il loro stesso popolo. Forse proprio per la parzialità della fonte, oltre che per l’assenza di un’informazione libera nei territori palestinesi, si può pensare che i dati della violenza interna all’Autorità Nazionale palestinese siano stimati molto per difetto.

Ciò che emerge da questo studio, comunque, è impressionante: dei 297 morti di Intrafada, 114 sono stati arbitrariamente giustiziati dopo essere stati accusati di collaborazionismo con Israele; vi sono stati 165 scontri armati fra clan rivali e 1202 azioni criminali gravi. Gli atti di violenza interna alla Palestina sono sia privati (delitti d’onore e faide fra famiglie e clan), che istituzionali (arresti ed esecuzioni arbitrarie). I delitti d’onore e la violenza contro le donne sono fra i crimini più diffusi e meno denunciati.

La maggior parte delle donne palestinesi, infatti, non lavora e dipende economicamente dal marito. Molte non hanno il coraggio di denunciare le violenze subite, perché hanno paura delle possibili rappresaglie della loro stessa famiglia. "La famiglia costituisce la pietra miliare su cui è costruita l’intera società palestinese" - ha detto Shadia Sarraj in un’intervista rilasciata al Middle East Research and Information Project - "Lo status sociale della famiglia è determinato in larga parte sul suo onore, che a sua volta è determinato dalla rispettabilità delle figlie, le quali possono danneggiarlo in modo irreparabile attraverso un presunto cattivo utilizzo della sessualità".

Secondo queste "regole d’onore" è stato possibile che, ad esempio, una ragazza ventiseienne di un villaggio vicino a Betlemme venisse sistematicamente picchiata dal marito e stuprata dal cognato, per poi essere picchiata in modo ancor più duro dopo aver denunciato le attenzioni sessuali del cognato: la donna che subisce una violenza sessuale è ancor più colpevole dello stupratore. E sempre secondo la tradizione islamica, è stato possibile per un killer, ancora anonimo, uccidere Layla Kbeila, una sessantanovenne di Rafidia colpevole di aver allevato un figlio così impudente da rifiutare il matrimonio con la figlia di un potente locale.

Quel che c’è di peggio in questi delitti d’onore è che secondo la legge palestinese non sono perseguibili: in Cisgiordania l’Autorità Nazionale Palestinese applica ancora il codice giordano pre-1967, secondo il quale, all’articolo 341, l’omicidio è considerato legittima difesa quando: "l’atto di uccidere un’altra persona è commesso in difesa della vita, dell’onore della vita o dell’onore di qualcun altro" (corsivi aggiunti). Di fatto si tratta di violenza privata legalizzata. Non vi sono statistiche precise sui delitti d’onore, dato che mancano le denunce, così come non vi sono dati sulle violenze subite dai gay, anche se il caso di Fuad Moussa è un buon esempio di come vengano trattati.

Non vi sono, poi, segnali di miglioramento o di ribellione da parte della società civile palestinese al riguardo: da un sondaggio commissionato da due centri di ricerca palestinesi (Society for the Advancement of the Palestinian Working Woman e il Palestinian Center for Public Opinion Polls), risulta che il 56,9 % dei Palestinesi ritiene giusto che il marito picchi la moglie nel caso si senta offeso nella sua virilità, il 73,9 percento pensa che le donne non debbano lavorare, ma badare alla famiglia e il 47,1 percento ritiene che il governo non debba intervenire in caso di abusi e violenze sulle donne, perché si tratta di problemi interni alla famiglia.

La famiglia, la "pietra miliare su cui è costruita la società palestinese", spesso entra in guerra contro un’altra famiglia e nascono faide sanguinosissime anche per motivi futili. Un caso esemplare è quello di una lite fra due tassisti di Ramallah nel gennaio del 2004, che è degenerata con uso di armi e il coinvolgimento delle intere famiglie estese dei due: macchina dell’uno incendiata, nipote dell’altro ucciso e infine casa del primo incendiata e rasa al suolo. Oppure il caso di un incidente stradale banale, per le vie di Nablus, nell’agosto del 2003, che ha dato adito a un litigio e poi ad una faida distruttiva: un morto e tutte le proprietà di una delle due famiglie incendiate.

Vi sono anche faide più sanguinose e prolungate, come il caso di Osama Qmeil. Questi era un ufficiale di un corpo di polizia palestinese che nel corso della I Intifada aveva ucciso alcune persone accusandole di collaborazionismo con Israele; con lo scoppio della II Intifada, le famiglie delle sue vittime si sono vendicate uccidendolo, ma poi hanno esse stesse subito la sanguinosa vendetta del clan di Qmeil e di una folla inferocita di suoi simpatizzanti: i killer di Qmeil sono stati trascinati fuori dal carcere, linciati e i loro cadaveri esposti in pubblico.

Ci si può chiedere dove sia la polizia mentre tutto questo avviene. In alcune città, come Nablus e Hebron, la polizia e qualsiasi forma di autorità governativa è semplicemente assente e le città sono nelle mani dei clan. A Nablus, il sindaco Ghassan Shaka’a dopo aver dato le dimissioni per motivi di sicurezza personale ha dichiarato sconsolato: "Nablus è passata attraverso uno stato di caos e progressivo deterioramento, che hanno condotto alla confusione e all’interruzione della normale vita quotidiana dei cittadini… ma ora il caos è diventata la regola; l’assenza di ordine e sicurezza, la quotidianità; la legge della giungla, un punto di vista".

In altri casi, però, la polizia è parte in causa nelle faide familiari ed è essa stessa causa di criminalità. Ci sono tante polizie che agiscono nel nome dell’Autorità Nazionale Palestinese: la Forza di Pubblica Sicurezza, la Polizia Civile, la Forza di Sicurezza Preventiva, il Mukhabarat (servizi segreti), la Sicurezza Presidenziale, l’Intelligence Militare, ecc… Senza contare, poi, che gli uomini delle Brigate Martiri Al Aqsa svolgono anch’essi un ruolo di "ordine pubblico" per l’Anp. Le gang e la polizia spesso si mescolano al punto che un anonimo dirigente di Al Fatah ha dichiarato che "il 90 percento dei membri delle gang sono nei libri paga dell’Autorità Nazionale Palestinese".

A quanto pare non sono rari i casi in cui due branche della polizia si combattono fra loro, armi alla mano. Ad esempio, a Gaza, il 5 febbraio del 2004, vi fu una scaramuccia fra poliziotti appartenenti a corpi diversi, attorno alla Centrale di Polizia, motivata dal pestaggio del capo della polizia locale, Ghazi Jabaly, da parte di membri di un altro apparato di sicurezza rivale: il risultato dello scontro fu un morto e dieci feriti. Stando a osservatori locali, Arafat non fa nulla per organizzare meglio la polizia. Anzi: il vecchio rais trarrebbe vantaggio proprio dalla divisione interna fra i capi delle varie polizie, per imporre il suo potere.

Se l’assenza del potere genera violenza, la presenza del potere arbitrario della polizia palestinese in una determinata area, se possibile, rende la vita ancor più difficile. Non ci sono regole per le procedure che la polizia dovrebbe seguire e la repressione di qualsiasi opposizione al regime diventa particolarmente brutale. A Gaza, ad esempio, nell’ottobre 2001, la polizia palestinese ha aperto il fuoco sulla folla e non ha subito conseguenze legali.

Vi sono poliziotti che abusano della loro posizione e si comportano come comuni malviventi: emblematico è il caso di un venditore di automobili che si vide sequestrare dalla polizia una macchina che risultava rubata e che il giorno dopo rivide la stessa macchina guidata da un poliziotto: la sua sacrosanta protesta gli è costata l’arresto, ore e ore di pestaggi e torture, quattro giorni di isolamento e altri sei giorni di galera. Il tutto senza un’accusa, senza un processo, senza testimoni… Ma al di là dei casi di corruzione e abusi personali della polizia, quel che è ancora peggiore è la repressione condotta dal regime di Arafat.

L’accusa con cui chiunque può essere arrestato arbitrariamente e fucilato è sempre quella: "collaborazionismo". Basta un semplice sospetto, un pettegolezzo dei vicini di casa, un’accusa senza prove fra rivali, o basta essere nel mirino dell’Autorità per atteggiamenti critici nei confronti di Arafat, per venire accusati di "collaborazionismo" ed essere ritenuti automaticamente colpevoli fino a prova contraria. Ammesso che sia possibile accumulare le prove necessarie, naturalmente perché gli accusati di collaborazionismo sono detenuti in carceri di massima sicurezza, non possono ricevere visite e non hanno diritto ad un avvocato.

Ad esempio, nell’agosto del 2001, l’Intelligence militare di Gaza arrestò un cittadino, Abu Amas, con l’accusa di collaborazionismo, facendolo sparire dalla circolazione. Solo dopo una settimana di silenzio, la sua famiglia seppe che era stato fucilato. Molto spesso i prigionieri sono costretti a confessare sotto tortura il loro rapporto di collaborazione con Israele, come nel caso di un operaio di Betlemme, arrestato nel luglio del 2003 e costretto a confessare dopo che i suoi inquisitori gli ebbero sparato ai piedi.

Oppure il caso di Mohammed Laloh, di cui si sta interessando anche Amnesty International, un venticinquenne di Jenin arrestato, detenuto e torturato per due mesi nel carcere locale: benché sia sopravvissuto alla galera, quando fu scarcerato nel novembre del 2001, non era in grado di camminare e mostrava segni di gravi ustioni alle mani e al volto. Una persecuzione più sistematica e più sottile è rivolta contro i cristiani palestinesi, che spesso devono abbandonare i territori controllati dall’Anp per rifugiarsi in Israele.

Anche se, ufficialmente, non vi è discriminazione e in Europa si è portati a credere che in Palestina i cristiani siano alleati con i musulmani per combattere contro "l’occupazione israeliana", stando a testimoni locali un musulmano non può vendere la propria terra a un cristiano, soprattutto se ci sono altri possibili acquirenti musulmani; un cristiano non può sposare una donna musulmana; nella stessa nuova costituzione palestinese, all’articolo 5 si legge chiaramente: "L’Arabo e l’Islam sono rispettivamente la lingua e la religione ufficiali" e l’articolo 7 stabilisce che: "I principi della sharia sono fonti maggiori di legislazione".

Un musulmano che voglia convertirsi al cristianesimo (benché, formalmente possa farlo) rischia di essere ucciso, come nel caso dei fratelli Salam, che, pur essendo dei fedelissimi di Arafat, sono stati arrestati e torturati in seguito alla loro coraggiosa conversione, naturalmente dietro la solita accusa di "collaborazionismo" con Israele. In città tradizionalmente cristiane, come Betlemme, ora i cristiani sono sparute minoranze.

In molti casi, sono stati allontanati dalle loro case con metodi da pulizia etnica: giusto a Betlemme i miliziani di Hamas picchiavano sistematicamente le donne cristiane che non si coprivano con il velo secondo la legge islamica; in altre occasioni, come è accaduto a Beit Jala i terroristi aprono il fuoco contro gli Israeliani con razzi e mortai piazzati ad arte nel mezzo dei quartieri dei cristiani, trasformati per l’occasione in scudi umani. Quanti morti fra i cristiani? Anche questo dato non è disponibile. Ci sono pochi dati e arrivano poche notizie, anche perché la stampa e la televisione sono fra i maggiori bersagli della repressione di regime in Palestina.

Avere un atteggiamento critico nei confronti dell’Intifada può costare il carcere o la condanna a morte per "collaborazionismo", così come mostrare immagini che non esaltano l’eroismo dei combattenti, evidenziano il volto violento della guerra, può costare la vita. Ne sanno qualcosa i giornalisti italiani che sono stati minacciati di morte dopo aver osato riprendere il linciaggio dei coscritti israeliani in una caserma della polizia palestinese, all’inizio della II Intifada. Ne sa qualcosa anche il corrispondente a Gaza di Al Arabiya, assalito e picchiato ripetutamente da sicari di Al Fatah e poi arrestato per ordine di Arafat a causa dei suoi servizi troppo puntuali sulle divisioni interne al partito del rais.

L’esempio più eclatante di repressione della stampa in Palestina è stato l’11 settembre 2001: riprendere e diffondere le immagini della folla palestinese in festa (con le foto di Osama Bin Laden portate in trionfo) portava a pesanti minacce, se non all’arresto immediato e la vita stessa del giornalista. In altri casi, sicari fanno irruzione nelle sedi degli stessi media palestinesi. Solo per citare i casi più recenti: il 2 febbraio scorso sono stati devastati gli studi di Quds Educational Tv a Ramallah; il 13 febbraio è stata incendiata la macchina del caporedattore di Gaza di Hayat al Jadida, colpevole di aver scritto editoriali troppo critici sulla situazione interna alla Palestina; sempre in febbraio gli uffici della redazione di Al Dar, a Gaza, sono stati devastati; la notte fra l’1 e il 2 marzo, l’editore del quotidiano an-Nashra è stato ucciso fuori dal suo ufficio.

E l’elenco delle aggressioni contro giornalisti palestinesi e stranieri continua ad allungarsi: risale al 22 aprile la notizia del pestaggio di un fotografo palestinese dell’Agence France Presse. I sicari lavorano giorno e notte contro i giornalisti, così che noi comuni cittadini europei possiamo continuare a ricevere dall’interno della Palestina notizie ed immagini edulcorate ed ideologicamente corrette.
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