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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Italia Oggi Rassegna Stampa
10.07.2022 Marina Cvetaeva, non dimentichiamola, la Russia non è cambiata
Ce lo ricorda Diego Gabutti

Testata: Italia Oggi
Data: 10 luglio 2022
Pagina: 12
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «»
Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi, 10/07/2022, la recensione di Diego Gabutti.

Marina Cvetaeva Nemico pubblico - De Piante Editore
Marina Cvetaeva, Nemico pubblico, De Piante 2022, pp. 40, 19,00 euro.

31 agosto 1941. Elabuma, Tartastan sovietico. Marina Cvetaeva, che secondo Iosif Brodskij è la più alta voce poetica del Novecento, s’impicca in una delle izbe gelide e miserabili in cui Stalin mette alla catena i sudditi scomodi esigendo che dalla cuccia scodinzolino in segno d’affetto e riconoscenza, come cani umani. Per impiccarsi, Cvetaeva usa la corda che tempo prima, a Mosca, le ha regalato Boris Pasternak, vedendo che l’amica non riesce a chiudere la valigia. Suo figlio Georgij, quindici anni, detto «Mur», è uscito per cercare del cibo, o per una passeggiata. Tornando, scopre il cadavere della madre. Nella stanza, quasi del tutto svanito, aleggia ancora il sorriso da Orco del Chesire del padre dei popoli.

Marina Cvetaeva e la nostalgia iscritta nei versi: la poesia della  lontananza
Marina Cvetaeva

Un anno e mezzo prima, il 23 dicembre 1939, Marina ha scritto una lettera al capo dell’NKVD, Lavrentij Pavlovič Berija. Non ha il tono d’una supplica: Cvetaeva non prostituisce la lingua (direbbe Brodskij) per comporre preghiere al tiranno. Ma non di meno è una supplica, per quanto fiera e dignitosa. Al capo della polizia politica, braccio armato dell’autocrate, assassino di milioni d’innocenti, chiede l’impossibile: un atto di pietà. Non per sé («per me» è tardi: «la lanterna», di cui parla nella sua ultima poesia, è quasi spenta) ma per «mio marito, Sergej Jakovlevič Efron-Andreev, e» per «mia figlia, Ariadna Sergeevna Efron, arrestati l’una il 27 agosto, l’altro il 10 ottobre 1939». Berija risponde come s’usa all’epoca: non con una lettera, o con una telefonata, ma con la pallottola nella nuca che in un giorno imprecisato del 1941 liquida Efron, e con la condanna di Ariadna Sergeevna al Gulag (sconta otto anni, poi viene liberata, o come si dice tra sopravvissuti ai campi è trasferita in «un lager più vasto», l’URSS intera, a sua volta pattugliato da «cekisti» armati e circondato dal filo spinato).

Sergej Efron, durante la guerra civile, ha combattuto con i bianchi, quindi è emigrato in Germania, poi a Praga e infine in Francia. Lui e Marina, prima della rivoluzione, hanno avuto due figlie, una delle quali, Irina, la più piccola, è morta di fame in orfanotrofio, dove la poetessa le ha sistemate entrambe, nella speranza che lì sarebbero state nutrite meglio che fuori. Cvetaeva ed Efron si ricongiungono a Berlino dopo la disfatta dei bianchi. Nasce Georgij, il loro terzo figlio. Passano gli anni, e Ariadna, cresciuta nella banlieu parigina, nell’atmosfera soffocante dell’emigrazione, rimpiange la sua infanzia russa e vuole tornare «in patria», di cui ha nostalgia. Anche Efron rimpiange la Madre Russia e, mentre Ariadna si converte alla religione staliniana che le sarà fatale, lui entra nell’NKVD, una «talpa» tra gli emigrati. Ariadna torna in Russia, Efron viene coinvolto nell’Affare Reiss.

Nel 1937 Ignatij Reiss, un agente dei servizi russi, passa alla Quarta internazionale e denuncia «il Termidoro sovietico», come l’ha chiamato Trockij, con una dichiarazione pubblica, rilanciata dai giornali: la rivoluzione è tradita, l’URSS ha cambiato cavallo. Berija non esita un attimo. Una squadra di killer (tra cui Efron) saldano il conto a Reiss in Svizzera. Scoperti, gli assassini devono fuggire, braccati dalle polizie europee. Efron raggiunge a Mosca la figlia, che nel frattempo è tornata in Russia, tra i cannibali. Cvetaeva rimane a Parigi con Georgij.

Sapeva o non sapeva, Marina, che suo marito era un «cekista», un agente degli «organi», un assassino? Che anche lei sia una talpa, un’infiltrata dell’NKVD? Forse no. Ma forse sì. Gli emigrati le tolgono il saluto. Più tardi, è vero, se ne pentiranno: Cvetaeva è sola, con un ragazzino, e intorno infuria la tempesta della Storia, per lei come per tutti. Ma nessuno vuole più avere a che fare con Marina, per quanto ammirino i suoi versi, e benché sia stata sempre benvoluta da tutti, dagli scrittori e dai poeti, dagli amici, dagli amanti. La morte di Reiss e la fuga di Efron hanno cambiato tutto. Cvetaeva è diventata il nemico.

Poi, da Mordor, la terra governata dal Sauron bolscevico, viene la notizia che Ariadna ed Efron sono stati arrestati: Lubianka e Cremlino non si fidano di chi è vissuto all’estero. Un «bianco», poi. E sua figlia. Ci sarebbe da stupirsi se fossero stati infiltrati in Unione sovietica dall’Intelligence inglese? Dai crucchi? Dai francesi? Marina, che ha chiesto e ottenuto il permesso di raggiungere i familiari, è di nuovo in Russia, e con lei c’è Georgij: i cannibali s’annodano il tovagliolo al collo e brandiscono forchetta e coltello leccandosi le labbra.
«Mia figlia, Ariadna Sergeevna Efron», scrive Cvetaeva a Berija, «è stata la prima di noi tutti a tornare in URSS, precisamente il 15 marzo 1937. Prima aveva fatto parte per un anno dell’Unione per il Rimpatrio. È pittrice e giornalista di grande talento, oltre che una persona assolutamente leale. A Mosca lavorava per la rivista francese Revue de Moscou, dov’erano molto soddisfatti di lei. Scriveva (cose letterarie) e illustrava: ha tradotto benissimo in versi un poema di Majakovskij. In Unione Sovietica si sentiva molto felice e non si è mai lamentata di difficoltà nella vita quotidiana. E dopo mia figlia, il 10 ottobre 1939, proprio nel giorno del secondo anniversario del suo ritorno in Unione Sovietica, fu arrestato anche mio marito, malato e afflitto dalla disgrazia di lei. Non so di che cosa sia accusato mio marito, ma so che non è capace di tradimento, doppiogiochismo e slealtà. È un uomo di grande purezza, abnegazione e responsabilità. Lo stesso diranno di lui amici e nemici. Persino fra l’emigrazione, nell’ambiente più ostile, nessuno lo ha accusato d’essersi venduto, e il suo comunismo veniva spiegato come “entusiasmo cieco”. Ha servito la sua patria e l’idea del comunismo con anima e corpo, con la parola e nei fatti. È malato grave, non so quanto gli sia rimasto da vivere. Sarebbe terribile che morisse senza essere assolto. Se si tratta di delazione, cioè di materiali consegnati senza scrupolo e per fargli del male, faccia controllare il delatore. Se è un errore, La prego, lo corregga prima che sia troppo tardi».

Conosciamo la risposta di Berija: una pallottola per Efron, la deportazione e i lavori forzati per Ariadna, la corda di Pasternak per Marina. Georgij Efron, «Mur», muore al fronte nel 1944. Ha diciannove anni. Stalin e gli antropofaghi suoi commensali hanno fatto onore al piatto. Non è avanzato neppure un ossicino.

Informazione Corretta
Diego Gabutti

italiaoggi@class.it

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