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Italia Oggi Rassegna Stampa
07.08.2021 Cucina e politica nella Russia di Lenin
Commento di Diego Gabutti

Testata: Italia Oggi
Data: 07 agosto 2021
Pagina: 10
Autore: Diego Gabutti
Titolo: «Mettiamo al governo le cuoche»
Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi 07/08/2021, a pag.10 con il titolo "Mettiamo al governo le cuoche", il commento di Diego Gabutti.

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Diego Gabutti

L'arte della cucina sovietica: Una storia di cibo e nostalgia (Frontiere  Einaudi) eBook : von Bremzen, Anya, Sacchi, Duccio: Amazon.it: Libri
La copertina (Einaudi ed.)

Povera cuoca sovietica, che non soltanto non amministro mai lo Stato, come le aveva promesso uno slogan erroneamente attribuito a Lenin, ma che dovette anche smettere di cucinare perché non c'era niente da portare in tavola. (Forse si consolava pensando che «anche se non è di Lenin, e anche se nessuno pensa di metterlo in pratica, lo slogan almeno c'è, a differenza della zuppa»). Lo formuletta campeggiava su un manifesto murale del 1925, opera di Il'ja Makaryev, grafico futurista: «Ogni cuoca dovrebbe imparare a governare lo Stato». Seguiva la firma: «Lenin». (La cui moglie, Madame Ul'janov, al secolo Nadezda Krupskaja, una bolscevica dallo sguardo particolarmente torvo, era in effetti «una pessima cuoca», come scrive Anya von Bremzen nell'Arte della cucina sovietica, Einaudi 2014, quindi fu un bene che rinunciasse a cucinare «borsch» o «pirozhky» per darsi all'amministrazione dello Stato, settore educazione scolastica e creazione dell'uomo nuovo). Morto da oltre un anno, Lenin non poté disconoscere, come probabilmente avrebbe fatto, la paternità della firma sul manifesto (tanto più che era un manifesto futurista, e lui detestava il futurismo). Forse, però, non avrebbe preso le distanze, ma se ne sarebbe preso il merito: quella della cuoca che «amministra lo Stato» mentre prepara un minestrone era una sciocchezza, ma una sciocchezza efficace. Tuttavia, per appropriarsi dello slogan, avrebbe dovuto rinnegare un vecchio articolo. Qualche anno prima, infatti, come si scopre frugando nelle sue Opere complete, aveva scritto nero su bianco le seguenti parole: «Non siamo degli utopisti. Sappiamo che una cuoca o un manovale qualunque non sono in grado di partecipare subito all'amministrazione dello Stato». Roba dell'ottobre 1917, scritto immediatamente dopo il golpe, l'articolo aveva per titolo I bolscevichi conserveranno il potere statale? E continuava così: «In questo siamo d'accordo con i cadetti, con Plechanov, con Tsereteli [e con gli altri «socialsciovinisti», come li definiva lui]. Ci differenziamo da questi cittadini in quanto esigiamo la rottura immediata col pregiudizio che soltanto funzionari ricchi o provenienti da famiglia ricca possano amministrare lo Stato. Noi esigiamo che operai e soldati coscienti facciano il tirocinio nell'amministrazione dello Stato e vogliamo che si cominci subito». Naturalmente il «tirocinio» non cominciò né subito né mai. Come le cuoche e i manovali, anche gli operai e i soldati (e in sostanza ogni cittadino sovietico, esclusi gli sbirri) dovettero scordarsi di poter amministrare alcunché. Era lo scacco della cuoca «di Lenin» esteso all'intera società: esattamente come non c'era da mangiare, c'era poco anche da amministrare. Herbert Marcuse, che disertò la Scuola di Francoforte per diventare il filosofo della cultura sixtie in California, prese la sua solita cantonata (raramente gli capitava d'azzeccarne una) scrivendo, in chiusura di qualche suo tipico pippone fintolibertario: «Concludo con un'ultima osservazione. Ogni specializzazione pub essere appresa, e in questo senso il detto di Lenin è ancora oggi valido». Anche Aleksandr Solienicyn, nel Primo cerchio, attribuisce lo slogan a Lenin, come tutti i sovietici suoi contemporanei, ma a differenza di Marcuse commenta divertito: «Ogni cuoca doveva essere in grado di dirigere lo Stato!... Ma Lenin come si immaginava la co- sa in concreto? Il venerdì non cucinava per recarsi alla riunione del Comitato esecutivo regionale? Una cuoca, in quanto tale, quello fa, cucina il pranzo». E Stalin, nel romanzo, a pensarlo: «Colpa dell'istruzione!...» riflette quel fulmine di guerra civile. «Che pasticcio era venuto fuori con quelle scuole obbligatorie di sette anni e dieci anni, con i figli delle cuoche che vanno all'università! Bel guaio, aveva combinato Lenin, che aveva fatto promesse senza la dovuta cautela, e adesso quelle promesse pesavano sulla schiena di Stalin come una gobba storta e incurabile». Già era una bella fatica, non solo intellettuale ma anche fisica, tipo scaricare sacchi di farina in un kolchoz, tradire le proprie promesse. Ma non bastava, no.

Al povero Padre dei popoli toccava tradire anche le promesse di Lenin. Meno divertito, il nouveau philosophe André Glucksmann, che proprio la lettura delle opere di Solzenicyn e in particolare diArcipelago Gulag aveva recuperato alla ragione dopo una lunga stagione mab-mab, mise in rapporto la cuoca di Lenin-Makaryev col tradizionale menù stalinista: il cannibalismo (dentro e fuor di metafora). Uscito nel 1977, nel crepuscolo dei Sessantotti, dieci anni prima della crisi finale del comunismo sovietico, La cuoca e il mangiauomini (L'erba Voglio 1977, in Italia mai più ristampato) era una riflessione, come spiegava in dettaglio il sottotitolo, «sui rapporti tra Stato, marxismo e campi di concentramento». Ricordo vagamente il libro, sono passate intere sta giovi storiche da quando l'ho letto; non era un classico della filosofia, era giusto un pamphlet indignato che stabiliva (non era il primo libro a farlo, e fortunatamente non sarebbe stato l'ultimo) la stretta somiglianza tra Shoah nazista e campi di sterminio staliniani. In questi giorni l'ho soltanto sfogliato, ritrovando qualche vecchia sottolineatura qua e là, ma ricordo che mi incoraggiò alla lettura di Solzenicyn, cosa di cui sarò eternamente grato all'auto- re (nato nel 1937, scomparso nel 2015). C'era stato, come spiegava Glucksmann, un rovesciamento delle parti: trasformata la cuoca in amministratrice dello Stato, gli amministratori del medesimo, cioè i marxisti-leninisti, le guardie armate dei lager e la burocrazia sovietica, si erano trasformati in cuochi, comandati a servire, meglio a impiattare, sempre la stessa sbobba cannibale: tartare di carne umana. A molti il sapore della carne umana evidentemente piaceva (a Sartre, ai comunisti italiani, a Pablo Neruda, ai gruppuscoli di sinistra-sinistra) purché a essere serviti in tavola fossero i prosciutti di qualcun altro (di russi, cechi, vietnamiti, cambogiani, cubani, rumeni, albanesi, coreani del nord, polacchi, cinesi).

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