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Italia Oggi Rassegna Stampa
22.03.2018 'Vi racconto la mia vita da giornalista e quello che significa AfD in Germania'
Goffredo Pistelli intervista Roberto Giardina

Testata: Italia Oggi
Data: 22 marzo 2018
Pagina: 9
Autore: Goffredo Pistelli
Titolo: «In Germania i populisti non sono demonizzati»

Riprendiamo da ITALIA OGGI, a pag. 9, con il titolo "In Germania i populisti non sono demonizzati" l'intervista di Goffredo Pistelli a Roberto Giardina.

Ecco il video con le dichiarazioni di Rafi Eitan a proposito del partito AfD, oggetto della intervista di Italia Oggi a Roberto Giardina (sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello): http://www.dailymotion.com/video/x6gn3eq

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Rafi Eitan

Ecco l'intervista: 

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Roberto Giardina

 

 

Herr Giardina risponde al telefono dalla sua casa al centro di Berlino. Per i lettori di Italia Oggi, questo siciliano di Palermo, classe 1940, è semplicemente «la Germania». Dal corpaccione teutonico, lui, professionista navigatissimo, corrispondente di Quotidiano Nazionale, estrae, con una freschezza invidiabile, storie minute, quotidiane, fatti che non conosceremmo mai, dentro lo stereotipo merkelliano che usiamo da anni, almeno da quando c'è l'austerità con cui facciamo i conti e che associamo, a torto o a ragione, ai tedeschi. «Io che leggo tutti i giorni 10 quotidiani», mi aveva detto giorni fa, in occasione di un'intervista, Giampaolo Pansa, «se voglio sapere che cos'è oggi la Germania, leggo Giardina su Italia Oggi».

Domanda. Una gran bella carriera, Giardina. Da dove comincia? Nel 56 manifestai a Roma contro i carri armati sovietici a Praga . Fummo caricati dai carabinieri a cavallo guidati da Raimondo d'Inzeo
Risposta. Da Roma, dove la mia famiglia s'era trasferita, quando io facevo il ginnasio. A 18 anni cominciai a collaborare, da Roma, alla Voce Adriatica, giornale di Ancona. E poi mi presentai alla redazione del Messaggero.
D. Varcò il portone dello storico palazzo di Via del Tritone.
R. Esatto, mi dissero di lasciare dei pezzi, cosa che feci. E, quando ripassai, un caporedattore mi fece questo ragionamento: «Le cose che scrivi vanno bene, ma tu sei il figlio del senatore Giardina?». Io risposi di sì: mio padre, Camillo, era un popolare della prima ora, uno della sinistra del partito, fuori dalle correnti.
D. E il caporedattore che cosa le disse?
R. Che, siccome ero il figlio di un senatore, non potevano farmi collaborare, perché poi tutti avrebbero fatto questa osservazione, pensando a un raccomandato.
D. Ci rimase male?
R. Molto, mi offesi. Non lo dissi neppure a mio padre. Ma del resto, con la Capitale non avevo un bel rapporto.
D. In che senso?
R. Lasciare Palermo per me, ragazzino, fu durissima. A scuola ero mobbizzato, si direbbe oggi, per la mia erre moscia. In cinque anni, fra ginnasio e liceo, ho cambiato scuola quattro volte. Non ci stavo: reagivo, anche coi professori.
D. Addirittura nell'Italia degli anni 50, un po' da temerari. Volevo fare lo scrittore, stravedevo per Ernest Hemingway. Ma, dopo aver capito che con i libri non si campa, ho ripiegato
R. Non riuscivo a stare zitto. Una volta, mi presi col professore di filosofia del liceo Visconti. Disse che Manzoni era il più grande scrittore europeo dell'800. «E Dostoevskj?», obiettai. Quello mi redarguì: «Deve dimostrare quello che dice»
D. E lei?
R. L'indomani arrivai con un saggio di Lukacs, che accostava Manzoni a Walter Scott il quale, commentai, «era il Salgari inglese», insomma non proprio un grandissimo. II professore non disse nulla ma mi interrogò subito, e duramente. E così fece nei giorni successivi. E come lui gli altri professori: dovetti ritirarmi.
D. Passioni politiche giovanili?
R. Io sono stato sempre un po' anarchico, anarchico-liberale. Non mi intruppavo. Però nel 1956 scesi in piazza anche io contro i carri sovietici a Budapest. Ci fu un raduno in Piazza Venezia. Scoprii troppo tardi che era una manifestazione organizzata dai fascisti Fummo caricati dai carabinieri a cavallo comandati da Raimondo D'Inzeo, futuro olimpionico.
D. Paura?
R. Moltissima. Riparai nell'Altare della Patria.
D. Senta ma di Roma qualcosa le sarà piaciuto?
R. La città, molto. A 13 anni, la domenica, vagavamo a piedi, alla scoperta dell'Urbe. Abitavamo nel quartiere Trieste, di cui mi affascinavano il palazzoni di sette piani. A Palermo non ne avevo mai visti, vivevamo in via Libertà, a un tiro di schioppo dal Teatro Politeama, dove vivevamo nella casa paterna, una villetta di tre piani.
D. Cosa facevano i suoi?
R. Mio padre era professore universitario di storia del Diritto, come mio nonno, Andrea, che aveva insegnato a Pavia. Mia madre Rina, laureata in Lettere, era originaria di Lampedusa, quando i siciliani stessi praticamente ne ignoravano l'esistenza. Era nipote del re delle spugne.
D. Prego?
R. Si mio il mio bisnonno aveva una flottiglia di cinquanta velieri per la pesca delle spugne. Lasciò tutto all'unico figlio maschio. Ma fece studiare le quattro figlie, in collegio a Palermo.
D. Lei, invece, aveva il tarlo del giornalismo?
R. Volevo fare lo scrittore, per la verità, amavo Ernest Hemingway ma poi mi subentrò un pensiero: a scrivere libri non si campa. E così mi orientai verso il giornalismo.
D. Ma come finì a La Stampa di lbrino, dove fece carriera
R. Avevo cominciato a lavorare, gratis ovviamente, Paese sera, un nuovo quotidiano romano. A un tratto cambiò linea, da centrosinistra divenne fascista. Diversi colleghi erano stati assunti a Torino e si dimisero per tornare in Piemonte. Io li seguii e arrivai alla Gazzetta del Popolo, l'altro giornale torinese, era il 1962.
D. Che cosa faceva?
R. L'ultimo arrivato, in cronaca, e quindi di tutto. Arrivavo presto, portandomi i libri di giurisprudenza, visto che dovevo completare la laurea. E infatti, la mattina 10 ottobre, quando arrivò la notizia del disastro del Vajont, avvenuto la notte precedente, in redazione c'ero solo io. E mi spedirono subito là, al seguito dell'inviato.
D. Che impressione le fece quella tragedia?
R. Fu l'incontro con la morte, a 23 anni. Ricordo lo stupore nel constatare che le notizie erano tutte sbagliate: la diga non era affatto crollata, stava lassù, intatta. L'onda prodotta dalla frana sul monte Toc aveva invece scavalcato la muraglia di cemento ed era precipitata giù, come un scroscio mortale, per cui vedevi le casa rase a zero e, a pochi metri, abitazioni intatte.
D. Nel frattempo si era laureato.
R. Ci volle ancora un anno, si lavorava 12 ore al giorno e io dovetti cambiare università da Roma a Torino. Mi laureai in diritto cinematografico.
D. Ed era arrivato al La Stampa?
R. Dove feci il rituale dell'assunzione. Ferruccio Borio, storico capocronista, mi aveva chiamato perché, bontà sua, «scrivevo bene». Poi mi esaminò Martinotti, il caporedattore, l'unico a quei tempi, scoprì che conoscevo qualche lingua, e mi mise agli esteri, dove non scrissi più, o riscrivevo, senza firmare, le agenzie nello stile Stampa.
D. Lavoro noioso, immagino.
R. Non solo, rischiavi il licenziamento perché lo stile di scrittura di Giulio De Benedetti, era rigorosissimo: guai a scrivere tre genitivi di seguito, un incidente «accadeva» e non «si verificava», e poi dovevi scrivere «truppe di Tel Aviv» e non israeliane per non far rima con egiziane. Ma eravamo in pochi e si sostituivano i colleghi in ferie, Ed ebbi un incidente agli spettacoli.
D. Racconti.
R. Verso De Benedetti c'era una deferenza assoluta. La gente entrava nella sua stanza e usciva rinculando, per non voltargli le spalle.
D. Come per un re.
R. Beh, una volta toccò a me portargli la pagina degli spettacoli, ancora umida di composizione. Avevo deciso di mettere in pagina la recensione prima de La governante di Vitaliano Brancati a Genova.
D. E De Benedetti?
R. La squadrò e disse: «E a Genova, non interessa ai nostri lettori. E non la voglio più vedere».
D. La pagina?
R. Macché, il sottoscritto. E quando gli riportai la pagina.
D. Ah vabbé, ma lei cercava guai.
R. Ero solo in redazione, che dovevo fare? (Ride). Gliela portai, lui la controllò e poi, senza neppur degnarmi di un sguardo, ripeté: «Non la voglio più vedere».
D. Non la licenziò.
R. No, anzi, quando lasciò il giornale, mi fece avere anche un considerevole aumento. Forse per fare un dispetto all'editore, visto che si disse che ci fosse stato un forte contrasto con Gianni Agnelli.
D. Dopo venne Alberto Ronchey.
R. Col quale rimase l'ossessione per lo stile della scrittura, solo che Ronchey aveva idee tutte sue, per esempio i nomi stranieri andavano accordati secondo il genere della lingua originale. Chessò, il Volga doveva essere scritto «la» Volga.
D. Quindi passò a Il Giorno di Italo Pietra.
R. Che per assumermi mi invitò a pranzo con mia moglie. Altri tempi: un direttore voleva capire chi si metteva in redazione.
D. Che impressione le fece?
R. Pietra era un vecchio socialista, che guidava con eleganza. Sapeva difendere il giornale dalle continue ingerenze della politica, essendo dell'Eni. Lui obiettava sempre che il Giorno apparteneva allo Stato, non al governo.
D. La valorizzò?
R. Mi assunse per mandarmi come corrispondente in Germania, ad Amburgo, ed avevo 28 anni.
D. Eccola la Germania. Era la Germania di Bonn.
R. Willy Brandt fu eletto nel 1969, cominciò l'Ostpolitik, la Germania diventò sempre più importante. E Amburgo era splendida, non la patria dei gangster che qualche film aveva rappresentato, ma una città moderna, servita da autostrade enormi. Il giornale mi aveva preso in affitto una casa quasi in prossimità del grande lago, il Binnenalster. Arrivai a maggio e c'erano le barche con le vele al vento in giornate assolate, da palermitano, mi sentii più a casa lì che a Torino o Milano.
D. Fu un periodo intenso, immagino.
R. Cominciò il terrorismo di Baader-Meinholf che raccontai come fenomeno ma soprattutto, in quel periodo, feci interviste importanti, a personaggi del passato nazista di quel Paese.
D. Per esempio?
R. Per esempio Albert Speer, appena uscito di carcere.
D. L'architetto del Reich. E che cosa le disse?
R. Che lui aveva solo 29 anni e che pensava di fare cose belle, insomma Doctor Faust con Mefistofele-Hitler. Poi toccò all'ammiraglio Karl Doenitz, di cui ricordo la villetta nella periferia di Amburgo. Conversammo in un salottino, sul divano, dinnanzi a un tavolino basso su cui erano appoggiate le cornici con le foto dei suoi due figli, entrambi sommergibilisti ed entrambi morti sugli U-boote.
D. Le sarà capitato di raccontare anche la strage palestinese alle Olimpiadi di Monaco del 72.
R. No c'era già Giorgio Bocca sul posto. Io cercai il direttore, Gaetano Afeltra, il quale mi chiese: «Lei dove si trova?» E io gli risposi che ero ad Amburgo. «Beh, rimanga lì» Seguì da là.
D. Ruvido, Afeltra.
R. I rapporti migliorarono. Mi chiamava e mi dava gli ordini in salernitano. Vogliamo un'intervista a Herbert Marcuse, vada alla Scuola di Francoforte. Dovetti spiegargli che stava in California.
D. Come è stata la sua Germania divisa in blocchi? Quelli dell'Est non l'hanno mai avvicinata per arruolarla?
R. No. Una volta anzi, seguendo una telefonata misteriosa da parte di «un amico che aveva importanti rivelazioni da fare». Mi sono trovato, a sera, in un certo piazzale di una stazione secondaria. C'era la neve, ci arrivai a fatica. Ma l'amico non comparve. Un'ora e mezzo dopo, mi chiamava la polizia dell'Ovest, per chiedermi se avevo qualcosa da raccontare.
D. L'avevano messa alla prova. Ma il Muro lo passava?
R. Certo. Pareva una macchina del tempo passare da Check point Charlie: di là in poi erano vecchi palazzi e l'aria era ammorbata da quella puzza di benzina di cattiva qualità. Una volta mi invitarono a un viaggio politico, diciamo.
D. Vale a dire?
R. Di quelli per vedere la repubblica democratica da vicino. Era organizzato per i militanti del Pci e, siccome non mi facevano arrivare dalla Repubblica federale, mi toccò venire fino a Milano.
D. Come andò?
R. Deprimente. Ero con un gruppone di insegnanti emiliani, comunisti duri e puri, che per) si misero a litigare fra per quello che vedevano.
D. Lei ha vissuto anche la stagione del terrorismo della Raf, l'assassinio di Hans Martin Schleyer, il capo di Confindustria, il dirottamento di Mogadiscio, il successivo suicidio di Baader e Meihoff, che molti ritennero dubbio.
R. Si molte cose. La notte di Mogadiscio (dirottamento operato da i terroristi Rafe sventato da un intervento di teste di cuoi sulla pista dello scalo somalo, ndr), in Germania fu imposto il silenzio stampa ma io, che quel giorno, non ero alla Springer, dove facevo base, ma lavoravo dall'albergo, ebbi la notizia da un giornalista di quel gruppo e l'indomani, il Giorno, uscì con le cartine dell'attacco delle teste di cuoio tedesche.
D. Del suicidio-esecuzione di Stammheim, il carcere in cui erano rinchiusi, che idea si fece?
R. Dissi, controcorrente, che si erano ammazzati, sparandosi alla nuca, tecnicamente possibile. Ma i tedeschi saranno crudeli e cattivi ma non stupidi, perché assassinarli in quel modo? Trent'anni dopo si venne a sapere che, con le «cimici», i secondini avevano ascoltato la loro intenzione di togliersi la vita. E li lasciarono fare. Non cambia molto, anzi non cambia nulla.
D. In quegli anni le toccò vedere la copertina di Der Spiegel sull'Italia: la P38 sugli spaghetti.
R. Era il 26 luglio del 1977. Mi arrabbiai coi colleghi tedeschi, anche perché avevano scopiazzato un mio pezzo. Mi risposero che loro lo facevano «perché amavano l'Italia». Ribattei che, con le vicende tedesche, si poteva fare la stessa copertina.
D. C'era uno stereotipo italiano, allora?
R. Un po'. Ma noi lo incoraggiavamo. Nel bel mezzo della crisi petrolifera del 1973, andai a Volfsburg.
D. Alla Volkswagen?
R. Si, che dava incentivi all'esodo, pagava cioè chi dava le dimissioni. In Italia si disse che licenziavano solo gli italiani. Invece li volevano tenere perché i migliori, e i nostri emigrati facevano la fila per prendere i 10 mila marchi di buonuscita per aprirsi la pizzeria al paesello. Poi anche gli italiani sono diventati più tedeschi. Anche sei i turchi restano più integrati di noi.
D. Poi lasciò il Giorno...
R. Sì, per diventare II direttore editoriale in Rusconi.
D. Un bel salto di carreggiata.
R. Non da poco. Però in un anno si vinse lo Strega con Il Natale del 1833 di Mario Pomilio, si entrò in finale al Campiello, e si vinse il Premio Bancarella.
D. Soddisfazioni.
R. Certo, anche se non era un lavoro per me. Io sono essenzialmente un timido, e invece li si doveva rompere le scatole ai giurati dei premi letterari, perorare la causa dei propri autori. Non solo...
D. Non solo?
R. Quando li avevi convinti, dovevi chiedergli la scheda: per essere certi del voto, la spedivamo noi. Finì per un promoveatur di Edilio Rusconi che, un giorno, mi raddoppiò lo stipendio e mi fece direttore culturale di tutta la casa editrice, sostanzialmente per togliermi dai libri.
D. E lei mollò?
R. Tornai a fare il giornalista. In Germania, nel 1986, alla Nazione e al Resto del Carlino, grazie a Tino Neirotti che era stato mio caposervizio alla Stampa.
D. Beh nei libri ci è rimasto, scrivendone. Viaggi nel tempo e nella storia, anche romanzi.
R. Quelli che hanno avuto più successo sono stati quelli sull'Italia per i tedeschi. Quando scrissi riprendendo la frase di mia nipote, mi soffermavo sulle stranezze dei tedeschi, come il cappuccino a mezzanotte, ebbi una recensione di mezza pagina dalla Frankfurter Allgemeine. E piuttosto elogiativa.
D. Qual è il segreto della Germania, Giardina?
R. Il rispetto del patto sociale. Qui il fenomeno degli esodati non avrebbe avuto cittadinanza: se hai detto una cosa la mantieni, caro Stato. Le racconto un episodio.
D. Prego.
R. Al ritorno da una settimana a Roma, vado a riprendere l'auto, in una piazzetta non lontano dal centro di Berlino e non la trovo più. Un negoziante, che mi vede trafelato, mi si avvicina e mi fa: «Guardi che la polizia ha rimosso tutte le macchine, perché c'era la festa per i 200 anni della chiesa». Già, ma nessuno aveva avvisato. Torno a casa, imbufalito, dopo aver recuperato l'auto e scrivo una lettera alla polizia: «Scusate, io sono colpevole certo, ma nessuno ha avvisato». E mi hanno risposto.
D. Ossia? R. Mi hanno risposto, dopo pochi giorni, restituendo i 25 euro di sanzione, perché «effettivamente io non avevo intenzione di infrangere la legge» Mi sono rimasti sul gobbo i 120 di carro attrezzi ma, insomma, sono soddisfazioni. D. In Italia ci sarebbe voluto l'avvocato. Ma con la politica come va? Han fatto le larghe intese, alla fine, ma i populisti sono forti.
R. Questo fenomeno dell'Afd (partito ultra-nazionalista, ndr) va capito.
D. Capiamolo.
R. I capi sono di estrema destra ma il voto è di gente semplice, che non ha simpatie neonaziste ma che è un po' intimorita dalla piega che ha preso il Paese.
D. La Merkel con l'immigrazione s'è presa qualche rischio, com'è la situazione?
R. Che sono aumentate, per esempio, le violenze sessuali. In Baviera del 50%, il 38% delle quali commesse da stranieri, anche dell'Est Europa: se si considera che si parla dell'8% della popolazione, in quella regione, sono moltissimi.
D. Ci fu quella marcia di profughi siriani che, forse, la prese di contropiede.
R. Si è trovata a dover aprire, l'alternativa era schierare l'esercito. Poi però ha sottovalutato l'impatto di un milione di persone.
D. Qualcuno considera Merkel una politica senza visioni.
R. Helmut Schmidt diceva che quando un politico ha delle visioni è meglio chiamare la neurodeliri.
D. Buona questa.
R. Dicono anche che sia una casalinga che amministra giorno per giorno, ma il nuovo programma prevede 46 miliardi in più a favore delle famiglie e questo ai tedeschi basta. Quanto poi ai cosiddetti populisti, invece di demonizzarli come si fa in Italia, Merkel ha detto di voler parlare con quelli che votano AfD, per far cambiare loro idea.
D. Ce la farà?
R. Chissà, chi è intimorito dai profughi, non è sempre un razzista.

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