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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
27.01.2006 Ora vedremo la vera Hamas
le analisi di Emanuele Ottolenghi e Roberta Bonazzi

Testata:
Autore: Emanuele Ottolenghi - Roberta Bonazzi
Titolo: «E se il peggio fosse meglio? Ora Hamas ha perso la maschera - Dialogare con Hamas un apia illusione»
Dal Riformista del 27 gennaio un'analisi di Emanuele Ottolenghi :
 
Contrariamente alle inquiete e ansiose reazioni ufficiali alla vittoria di Hamas nel parlamento palestinese, il risultato del voto di mercoledì è positivo. Non nel senso datogli dai difensori di Hamas, secondo cui la prossimità col potere favorirà senz'altro un processo di cooptazione del movimento islamista alla logica parlamentare, rafforzandone per conseguenza l'ala moderata. Non esiste un'ala moderata di Hamas e le differenze esistenti nel movimento - tra l'ala armata e quella politica, tra la leadership palestinese e quella in esilio a Damasco - sono differenze tattiche, non strategiche. No, la ragione è che, per dirla con Lenin, «peggio è meglio».
Hamas di certo non sperava nella vittoria, ma in un risultato positivo che collocasse il movimento nella proverbiale posizione della botte piena e la moglie ubriaca: in opposizione ma forte abbastanza da mettere serie ipoteche sulla linea da seguire con Israele. Hamas poteva in quella situazione continuare a denunciare Oslo, rifiutare di riconoscere l'Autorità Palestinese e i suoi obblighi di applicare i principi della Roadmap e allo stesso tempo utilizzare influenza politica e forza militare per sabotare qualsiasi tentativo di riavviare il moribondo processo di pace.
La vittoria di Hamas invece mette il movimento in una situazione impossibile. Nonostante la vittoria, Hamas ha già chiesto a Fatah di governare insieme in una coalizione, ricevendo, per il momento, una risposta negativa. Il premier, Abu Ala, si è dimesso con tutto il suo governo e il presidente Abu Mazen dovrà ora dare a Hamas l'incarico di formare il prossimo governo. In opposizione - o come partner minore in un governo di coalizione guidato da Fatah se Hamas avesse vinto il previsto 35% dei consensi - Hamas poteva permettersi, anche grazie all'ipocrisia morale e intellettuale di coloro che nel mondo occidentale sminuivano la sua retorica come mera tattica, di influenzare la politica palestinese senza dover abbandonare la strada della lotta armata e disarmare la propria milizia. Ma ora quel gioco ambiguo è finito. Vincendo, ora Hamas deve mostrare al mondo il suo vero volto: niente più maschere, niente più veli, niente più doppiezza. Se la teoria della cooptazione promossa dall'International Crisis Group, dall'ex vice dei servizi segreti britannici Alistair Crooke e da altri è vera, questo è il momento per Hamas di mostrare cosa si nasconde dietro il velo della sua retorica.
Da governo dell'Autorità Palestinese ora Hamas dovrà dire se accetta la Roadmap. Dovrà prendere il controllo degli apparati di sicurezza e decidere se usarli per applicare la Roadmap o per far guerra a Israele. Dovrà controllare il valico di confine con l'Egitto e decidere se combattere il traffico d'armi e impedire l'ingresso di terroristi, o favorire entrambi. Dovrà dirci cosa veramente significa lo slogan «L'Islam è la soluzione» in termini pratici, per le donne e i loro diritti, per gli omosessuali e i loro diritti, per i cristiani e i loro diritti.
Non ci sono più ambiguità ora se Hamas continua a sparare missili sulle città di confine israeliane o a lanciare attacchi suicidi contro obbiettivi civili israeliani. Fino a martedì, l'Autorità Palestinese poteva nascondersi dietro la scusa di non essere direttamente responsabili e di non avere abbastanza potere per disarmare e neutralizzare i “militanti”. Ora i “militanti” sono la milizia del partito di governo. Sono loro la nuova Autorità Palestinese. Se bombardano Israele da Gaza - che per inciso non è più occupata e quindi tecnicamente parte di quello stato palestinese proclamato dall'Olp ad Algeri nel 1988 ma che l'Olp non ha mai preso veramente sul serio - si tratta di un atto ostile di guerra cui Israele può rispondere, con la piena giustificazione del diritto internazionale che prevede la possibilità della legittima difesa e del principio di proporzionalità. Niente più scuse dunque secondo cui i palestinesi vivono sotto occupazione, l'Autorità Palestinese è troppo debole per disarmare Hamas e la violenza non è la politica dell'Autorità. Hamas e l'Autorità ora sono un tutt'uno.
Se Hamas continuerà sulla strada della violenza gli aiuti internazionali si esauriranno immediatamente. Forse Hamas intende equilibrare le perdite d'aiuti dall'Unione Europea organizzando conferenze di “studiosi” che negano l'Olocausto o creando nuovi campi di addestramento terroristici a Gaza e Rafah. Ma difficilmente questi nuovi introiti riempiranno il vuoto lasciato dall'Unione, la Banca Mondiale, e tanti altri generosi sostenitori della causa palestinese. Hamas dovrà spiegare al suo pubblico perché la guerra a Israele vale più della ricostruzione economica e la lotta alla disoccupazione.
Nel frattempo, Hamas dovrà anche vedersela con Egitto e Giordania e spiegare le proprie politiche. Egitto e Giordania dovranno anche loro cambiare direzione. L'Egitto ha aumentato la sua presenza militare lungo il confine con Gaza e ha una presenza d'ufficiali consiglieri a Gaza il cui compito è di aiutare l'Autorità a stabilizzare la situazione interna - il che finora ha significato garantire che la violenza non fosse mai troppa da impensierire gli egiziani ma mai troppo poca da rendere la situazione facile per Israele.
Che farà ora l'Egitto? Coopererà con Hamas a Gaza pur temendo il gemello di Hamas, la Fratellanza Musulmana, a casa propria? Agirà con maggior efficacia nel Sinai per bloccare il flusso d'armi dentro Gaza o chiuderà un occhio anche se l'aumento di attività terroristica a Gaza potrebbe avere negative ripercussioni nel Sinai e in Egitto stessa? Anche per l'Egitto, il tempo dell'ambiguità è terminato.
Il resto del mondo arabo osserverà gli sviluppi con apprensione. Hamas deve dimostrare che un partito islamico che vince un'elezione democratica non è un male. Per adesso i palestinesi preferiscono un partito islamista a una leadership laica, un programma islamico guidato dalla Sharia piuttosto che uno laico. E' loro diritto - è questo il significato dell'autodeterminazione - e questo desiderio va rispettato. Dopotutto, lo spettacolo di un governo arabo sconfitto in un'elezione libera che si dimette (si dimette!) non ha precedenti. E questo è buon segno. Speriamo ne vengano altri ora: Hamas è al test democratico e questa sua esperienza di governo ci dirà se il modello di Hamas è la Turchia o se la Palestina diventerà un Iran sunnita. Se la democrazia si radica sotto la guida di Hamas, ci sarà un governo legittimo al potere forte del sostegno e della popolarità del pubblico, due condizioni necessarie per governare bene, e che è senza dubbio più onesto, più competente e più trasparente del suo corrotto predecessore. Se invece ci saranno teocrazia interna e lotta armata contro Israele allora la teoria della cooptazione e l'idea che l'ingresso in Parlamento e al governo trasformi gli islamismi in moderati sarà messa a nudo come pia illusione.
Hamas sperava che una vittoria striminzita di Fatah permettesse a Hamas di adottare il modello Hizballah - ministri nel governo e milizie a far guerra a Israele al confine. La loro vittoria impone invece una scelta, e la comunità internazionale, rispettando il verdetto di un'elezione libera e trasparente, deve ora mettere Hamas alla prova dei fatti. Non si tratta insomma di decidere se Europa, Stati Uniti o Israele devono dialogare con Hamas. No, si tratta di vedere (ed è Hamas ora che lo deve dimostrare) se ci sia terreno per un dialogo con Hamas. Sta a loro dimostrare d'essere degni interlocutori. Se passano la prova, consistente nell'abbandono della violenza, nel disarmare le proprie milizie, nella denuncia del terrorismo, nel riconoscimento del diritto d'Israele a esistere, nell'accettazione del principio dei due stati per due popoli da attuare esclusivamente attraverso il negoziato, allora il dialogo non è solo inevitabile ma è anche doveroso. Se invece continuano sulla strada della violenza, non c'è niente di cui parlare.
Molti commentatori italiani ed esteri hanno recentemente cercato di vedere in alcune dichiarazioni di Hamas dei segnali di moderazione. Dimenticano che il massimalismo di Hamas, come notava ieri il direttore del Jerusalem Post David Horovitz, deriva non da una posizione negoziale d'apertura ma da un dogma religioso, secondo cui nessun musulmano potrà mai accettare una presenza ebraica sovrana in Medio Oriente. Negare questo principio è blasfemo.
I loro difensori d'ufficio stanno già versando fiumi d'inchiostro a teorizzarne la svolta pragmatica, come se fosse già avvenuta. Ma a meno che Hamas rinneghi la sua ideologia per intraprendere un nuovo percorso, la posizione israeliana secondo cui non esiste un partner credibile, secondo cui i palestinesi non accettano la soluzione dei due stati e secondo cui quindi la politica dei ritiri unilaterali è l'unica possibile sarà confermata. E lo uno stato palestinese, senza questa svolta, diventerà una prospettiva sempre più remota. Il messaggio uniforme che il mondo deve dare ora a Hamas deve dunque essere: «Giù la maschera, togliete ogni velo e mostrate al mondo il vostro vero volto e le vostre vere intenzioni». Su questa base soltanto potranno ora essere giudicati, senza più ambiguità.

E una di Roberta Bonazzi:

Hamas è un'organizzazione votata alla violenza, alla distruzione d'Israele e alla creazione di una teocrazia totalitaria e oppressiva in Palestina. La sua visione politica comporta la discriminazione di minoranze religiose, donne e omosessuali. Il dialogo con Hamas, per quanto possa apparire superficialmente ragionevole, è quindi un pericoloso espediente che mette a rischio gli obiettivi politici europei nella regione e che contraddice i valori su cui si fonda l'Unione e che essa aspira a promuovere attraverso i vari progetti di cooperazione con i paesi mediterranei.
La logica del dialogo è che esso favorirebbe un percorso politico di Hamas verso la moderazione e il pragmatismo. Tale logica non tiene però conto della natura di Hamas. La giustificazione data da chi sostiene un dialogo con Hamas è simile a quella offerta a favore dei contatti politici con Hizballah, il partito islamista sciita di ispirazione iraniana presente nel parlamento e nel governo libanese. Occorre incoraggiare un percorso verso il realismo politico e la moderazione dei partiti islamisti. La prossimità col potere che deriva dalla partecipazione elettorale di Hamas - e il probabile successo, come fu il caso di Hizballah - inviterà indubbiamente alla moderazione, specie se accompagnata da un riconoscimento internazionale. L'argomento secondo cui la prossimità del potere incoraggia la moderazione deriva in Europa dalla lettura di due esperienze: l'Irlanda del Nord, dove l'Ira, un tempo organizzazione terroristica, ha accettato di negoziare la sua partecipazione al processo politico in cambio della rinuncia alla violenza, e il processo di Oslo, dove un simile percorso fu seguito, seppur con molta ambiguità, dall'Olp di Yasser Arafat.
Ma l'esperienza europea dovrebbe anche insegnare a tener conto del pericolo costituito da partiti portatori di ideologie estremiste e antidemocratiche e dotati di una milizia privata leale all'ideologia islamista e ai suoi leader carismatici piuttosto che alle leggi dello Stato. Negli anni Venti e Trenta si disse che anche i partiti fascista e nazista in Italia e Germania, una volta portati al governo, avrebbero moderato i toni e accettato le regole democratiche. Presumere lo stesso per Hamas è un errore che deriva dal fatto che se ne sottovaluta la natura, simile, come nel caso di Hizballah, a un partito totalitario ispirato da un'ideologia sui cui scopi non sono ammessi compromessi.
Il precedente Hizballah dimostra come una politica di dialogo con gli estremisti, e la loro inclusione al governo, non li trasforma in forze politiche moderate e ragionevoli, né li incoraggia ad abbandonare la via della violenza a favore del processo politico. Nel caso di Hizballah, evidenziato dagli attacchi sferrati contro Israele a fine novembre, l'estremismo rimane, così come rimane la volontà di proseguire una guerra contro il nemico sionista, attraverso una strategia della tensione, che nulla ha a che fare con le rivendicazioni territoriali libanesi, e che riflette invece un odio fanatico contro la presenza ebraica nella regione e contro l'idea stessa di una possibile pacifica convivenza. L'ideologia islamista di Hizballah si esprime in modo mediatico attraverso la sua televisione satellitare, al-Manar, primo e, ad oggi, unico caso di un'organizzazione terroristica e dedicata alla violenza a possedere una propria televisione satellitare per diffondere i suoi messaggi di incitamento all'odio e a commettere atti terroristici non solo contro Israele ma contro l'Occidente e i valori che esso rappresenta. Messaggi che, tra l'altro, continuano ad arrivare anche in tutta l'Europa fino alla Svezia meridionale e compresi i Balcani, attraverso i satelliti di Nilesat (Egitto) e Arabsat (Arabia Saudita).
Hamas è un'organizzazione guidata da una profonda fede religiosa. La sua ideologia è quindi un'applicazione terrena della volontà divina. Difficilmente questa si presta a rielaborazioni, compromessi o sconti dettati da un cambio della realtà, come potrebbe succedere alla politica economica di un partito socialdemocratico nell'Europa dell'inizio ventunesimo secolo. La fede né si cambia né si negozia. Semmai, ci potranno essere diverse sfumature all'interno di Hamas su quale tattica perseguire, viste le mutate condizioni politiche e militari sul terreno, le rivalità personali e gli interessi diversi tra ala politica e militare, ala palestinese e leadership a Damasco. La decisione di accettare una tregua con Israele deriva per esempio dalla momentanea debolezza militare di Hamas e dall'inopportunità di portare a un'escalation della violenza in prossimità delle elezioni. L'obiettivo strategico di eliminare Israele e creare uno stato islamico in Palestina rimane però immutato, così come immutata rimane la Carta costitutiva di Hamas e così come indicano anche le più recenti dichiarazioni della leadership di Hamas relative al «futuro della lotta». Legittimare l'accesso al potere di Hamas attraverso il dialogo, lasciando che Hamas mantenga una forza armata privata, significa rafforzare l'ideologia di Hamas permettendole di sabotare il processo di pace in futuro.
Le condizioni necessarie a un dialogo per Hamas comportano una rinuncia all'ideologia fondante del movimento che in un contesto di fede ammonta a un'abiura. Ecco perché dialogare con Hamas si fonda su una pia illusione, le cui conseguenze rischiano d'essere disastrose. Non ci può essere dialogo con gli estremisti, anche quando essi ottengono forti consensi e legittimità nelle loro rispettive società. Il dialogo rischia soltanto di dare maggior forza e legittimità ai nemici della pace e della democrazia. L'Europa deve ripensare dunque la recente decisione, presa al vertice dei ministri degli Esteri dell'Unione europea a Bruxelles, di autorizzare contatti diretti con Hamas nel corso della missione europea di monitoraggio delle elezioni palestinesi. Soltanto un disarmo della milizia, una rinuncia alla violenza, il riconoscimento d'Israele e del suo diritto ad esistere, l'accettazione delle risoluzioni Onu sul conflitto arabo israeliano e della roadmap, e l'impegno a perseguire i propri scopi politici nel rispetto delle norme democratiche e dei diritti umani, potrebbero offrire un preludio al dialogo e ai contatti politici ufficiali con Hamas. In pratica, Hamas, per divenire un legittim
o interlocutore, dovrebbe cessare di essere Hamas.
Direttore European Foundation for Democracy

cipiace@ilriformista.it

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