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Corriere della Sera Rassegna Stampa
17.08.2022 Con Salman Rushdie
Commento di Etgar Keret

Testata: Corriere della Sera
Data: 17 agosto 2022
Pagina: 1
Autore: Etgar Keret
Titolo: «Odio, sangue e la libertà di inventare»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/08/2022, a pag.1-13, con il titolo "Odio, sangue e la libertà di inventare", il commento di Etgar Keret.

Etgar Keret: «Israele, nemmeno il virus ha portato il Messia dell'empatia»  - Corriere.it
Etgar Keret

The Guardian view on Salman Rushdie: democracy relies on the right to  dissent | Editorial | The Guardian
Salman Rushdie

Ho conosciuto Salman Rushdie soprattutto attraverso i suoi romanzi. Dopo la pubblicazione de I versi satanici, il libro che aveva scatenato la fatwa contro di lui, ero rimasto sorpreso nel constatare quanti organi di informazione avevano cominciato a definire «coraggiosa» la straordinaria scrittura di Rushdie. Non ho mai condiviso l’idea che la letteratura possa essere coraggiosa.

Ogni volta che mi accingo a scrivere, accedo all’ambito dell’immaginazione, e persino quando escogito trame provocatorie o rischiose, non entra mai in ballo il concetto di coraggio, perché altro non faccio che raccontare una storia mai accaduta, in un mondo di personaggi inventati, in un libro che sfoggia il termine «finzione» sin dalla copertina. Ma chiedere al tizio seduto davanti a me nel cinema di smettere di chiacchierare al telefono nel bel mezzo di una proiezione? Quella sì che è una storia diversa, da far venire la pelle d’oca. Venerdì sera, quando ho appreso la notizia che Rushdie era stato accoltellato, il mio dispiacere è stato duplice: da una parte, il dolore per le gravi ferite inflitte a uno scrittore di grandissimo talento, di cui conoscevo la mente e l’immaginazione attraverso i suoi scritti; e dall’altra, la tristezza per il mondo in cui viviamo, un mondo in cui si va rapidamente sgretolando quell’immunità diplomatica che dev’essere garantita ad ogni ambasciatore creativo del regno dell’immaginazione, che fino a quel momento avevo dato per scontata. Quando le facoltà letterarie si rifiutano di insegnare Lolita, o cancellano le conferenze su Dostoevskij a motivo dell’invasione russa in Ucraina, o quando i vincitori di premi Oscar non sanno trattenersi dal prendere a ceffoni un comico in diretta televisiva, e giornalisti e caricaturisti vengono uccisi per aver pubblicato un pensiero o una battuta che offende i lettori, ciò vuol dire che il mondo è diventato un luogo pericoloso tanto per gli artisti che per l’arte stessa. È una strada a doppio senso: uno scrittore viene accoltellato a causa di idee e fantasie espresse in un’opera di finzione letteraria, mentre la condotta problematica di un artista creativo in campo religioso, morale o politico viene punita attraverso il boicottaggio di una forma d’arte che non nuoce a nessuno. E, a differenza del passato, quando era sanzionata dai regimi totalitari e dai movimenti religiosi, oggi la libertà artistica si ritrova sotto attacco da tutti i fronti, compresa la comunità liberale, che si affretta a vigilare sull’arte attraverso il boicottaggio e l’umiliazione. In una simile realtà, nessun creatore, nessuna creazione artistica ne esce indenne. L’arte non è più la città rifugio, sganciata da ogni vincolo di pragmatismo o interesse di parte, e si trasforma invece in un campo di battaglia dove gli artisti, nell’esprimere idee che potrebbero suscitare l’indignazione di qualcuno, rischiano di ritrovare sé stessi, o la loro opera, grondanti sangue. Devo ammetterlo, sono una persona ansiosa. Potrei dire tante altre cose su di me: che trovo difficile rilassarmi, che sono un po’ vigliacco, e anche leggermente paranoico — diciamo che «ansioso» è il termine più educato, e non siamo qui per scagliare insulti. La verità è che ho le mie buone ragioni per essere ansioso: due genitori sopravvissuti all’Olocausto, pronti ad ammonirmi che il mondo potrebbe rivoltarmisi contro da un momento all’altro; una tipica infanzia israeliana, piena zeppa di armi e terrorismo; tre anni di servizio militare obbligatorio, quanto di più deprimente si possa immaginare. Tutte queste cose mi hanno insegnato che il mondo può essere un luogo crudele e violento, e di conseguenza faccio di tutto per procedere con cautela. Dovunque io mi trovi — al bar, dal calzolaio, su un treno — sono sempre all’erta, sempre a scrutare il mio prossimo, sempre alla ricerca dell’uscita, a tutela della mia sicurezza. Non si sa mai quello che potrebbe accadere. Ma il solo luogo dove mi sento abbastanza sicuro per abbassare le mie difese è proprio, guarda caso, sul palco durante le mie conferenze, e quando scrivo. Non è una decisione razionale, quanto piuttosto una voce interna rassicurante che mi dice: «La vita è piena di pericoli, strade, virus, relazioni. Ognuna di queste cose potrebbe scoppiarti tra le mani da un momento all’altro. Ma oggi sei fortunato, ti trovi in una città rifugio: questo palco è un porto sicuro, protetto dai muri invalicabili dell’immaginazione e delle emozioni. Un luogo che ti offre una panoramica spettacolare sulla vita, eppure rimane al di fuori della sua giurisdizione. Un luogo dove puoi pensare, scrivere e condividere i tuoi timori e i tuoi desideri con tutti coloro che vorranno riunirsi attorno a te per ascoltarti». Non passa giorno che non provi gratitudine per l’esistenza di questi luoghi. Perché se, mettiamo, dovessi confessare al preside della mia facoltà un sogno ricorrente nel quale vado a caccia di cuccioli di koala azzoppati per poi divorarli, ecco che rischio di pregiudicare le mie possibilità di un rinnovo contrattuale. E se dovessi rivelare questo sogno al mio amico vegano, la cosa potrebbe finire con un rimbrotto o uno schiaffo. Ma se racconto quel sogno in una storia o lo rivelo su un palco, so già che non ci saranno conseguenze. Perché il palco, come le parole che scrivo quando compongo una storia, non fa parte del nostro mondo, ma rappresenta una zona cuscinetto tra il mondo reale, fisico, pragmatico e legalistico, e il regno dell’immaginazione. E all’interno di questa terra di nessuno che separa la realtà dall’invenzione, non esistono leggi, non esistono profitti né perdite, ma solo libertà. Se credessi in Dio, pregherei per la pronta guarigione di Salman Rushdie. A dire il vero, anche senza essere un uomo di fede, mi ritrovo a pregare per lui senza sosta, nella speranza che nel giro di qualche giorno mi venga recapitata una nuova newsletter di Rushdie dall’eccellente piattaforma Substack. Mentre prego per la sua guarigione, non posso fare a meno di aggiungere un’altra supplica agnostica: la preghiera per un mondo dove le pagine dei libri, i cinema e i palcoscenici dei teatri possano ridiventare i luoghi in cui è lecito, in tutta tranquillità e sicurezza, pensare, immaginare e scrivere dei nostri timori e debolezze, attraverso storie irrequiete, ambigue, strane e inquietanti. Sì, strane e inquietanti. Perché, in fin dei conti, anche dopo aver letto qualcosa che ci fa andare su tutte le furie, o che ci lascia sgomenti, o scuote la nostra visione del mondo, sappiamo che non è realmente accaduto. È solo una storia.
 (Traduzione di Rita Baldassarre)

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