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Corriere della Sera Rassegna Stampa
16.11.2021 'Sulla strada degli uomini senza nome', di Bernard-Henri Lévy
Recensione di Stefano Montefiori

Testata: Corriere della Sera
Data: 16 novembre 2021
Pagina: 45
Autore: Stefano Montefiori
Titolo: «Cerca l'uomo, non l'obiettività. Un filosofo tra gli ultimi»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/11/2021, a pag.45, con il titolo "Cerca l'uomo, non l'obiettività. Un filosofo tra gli ultimi", la recensione di Stefano Montefiori.

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Stefano Montefiori

Media, attacco al convoglio di Bernard-Henri Lévy in visita in Libia - la  Repubblica
Bernard-Henri Lévy

«Con i reportage e il libro ho voluto rendere il mondo degli invisibili un po' più visibile, e raccontare regioni dimenticate del Pianeta. Nel corso di un anno ho viaggiato in otto Paesi, ho cercato di raccontare la sofferenza dei cristiani in Nigeria massacrati dagli islamisti o l'inferno di Mogadiscio in Somalia». Bernard-Henri Lévy poi ha incontrato i curdi alleati (spesso traditi) dell'Europa in Siria e in Iraq, gli ucraini che tentano di resistere al gigante russo, è tornato in quel Bangladesh dove nel lontano 1971 cominciò la sua avventura di intellettuale che testimonia drammi molto concreti, ha visitato il campo dei migranti rifugiati sull'isola greca di Lesbo, la Libia liberata da Muammar Gheddafi ma in preda alla guerra civile e l'Afghanistan di nuovo in mano ai talebani dove ha incontrato il figlio di Ahmad Shah Massud. I reportage scritti per «Paris Match» sono raccolti nel libro Sulla strada degli uomini senza nome edito da La nave di Teseo. Un volume che ha anche un altro motivo di notevole interesse: la parte in cui Lévy, 73 anni, racconta il perché del suo impegno. E un tema affascinante perché personale, legato alla storia famigliare e in particolare all'esempio paterno, e allo stesso tempo universale, connesso ai motivi che possono spingere giornalisti e scrittori a occuparsi di vicende che si svolgono a migliaia di chilometri di distanza. Perché Bernard-Henri Lévy scrive di bengalesi, curdi, afghani? Perché questo «figlio benestante di una famiglia privilegiata», come si definisce, va a incontrarli sul posto, rischiando in qualche caso la vita? I suoi nemici, soprattutto in Francia, liquidano la questione con il narcisismo. Chi non è convinto da questa spiegazione trova in Sulla strada degli uomini senza nome la versione dello stesso «Bhl», che è molto più interessante. La ragione personale e famigliare, innanzitutto: suo padre André si arruolò in Spagna nelle Brigate internazionali appena diciottenne, e poi durante la resistenza al nazismo combatté nella prima divisione della Francia Libera nella battaglia di Montecassino della campagna d'Italia. «Pensavo a queste imprese quando, nel novembre 1971, normalista abilitato all'insegnamento ma deciso a sganciarmi dagli estetismi professorali e dal destino di fabbricante di libri che allora mi sembrava un vicolo cieco, rispondo all'appello di André Malraux per la costituzione di una Brigata internazionale per il Bangladesh», scrive Lévy. Poi i motivi universali, quelli che Levy forse condivide con altri viaggiatori e inviati di guerra.

Sulla strada degli uomini senza nome - Bernard-Henri Lévy - Libro - La nave  di Teseo - Le onde | IBS
La copertina (La nave di Teseo)

II filosofo francese cerca di rispondere alla domanda classica: ma sotto casa non ci sono già abbastanza miserabili? Perché andare a cercarci nei tuguri del Bangladesh? Una prima risposta è l'attaccamento a una parola ormai desueta e sospetta, ovvero «internazionalismo». Bhl dice di non amare la globalizzazione capitalistica, quella che appiattisce le strade d'Europa in un'unica serie di fast food e grandi magazzini sempre uguale. L'internazionalismo, invece, non implica il rifiuto della realtà locale e del modello nazionale, ma la capacità di uscire dai propri confini e rivolgersi al mondo, in omaggio a un'idea di fratellanza che supera le frontiere. «Il fatto di simpatizzare, per quanto non li si conosca da vicino, per la richiesta di giustizia di una donna iraniana con íl chador, per i diritti di un tibetano o di un eroe pashtun, non è più assurdo che sentirsi vicini al disagio di un giovane di periferia o al dramma di un disoccupato». Bhl fa notare che coloro che si preoccupano delle vittime di ingiustizie nell'Occidente sono molto più numerosi di si chi prende la briga di raggiungere luoghi sperduti come la Somalia o l'Afghanistan. Tanto vale che gli uomini di buona volontà non facciano tutti la stessa cosa, si dividano il lavoro, e che alcuni cerchino di essere presenti dove altri non riescono ad arrivare. In ogni caso, un aspetto distingue i reportage di Bernard-Henri Lévy dagli altri. Lévy rivendica di non essere mai stato, e di non volere diventare mai, un giornalista. Perché il punto di partenza di un reportage giornalistico è mirare, per quanto possibile, all'obiettività, «evitando che l'osservatore modifichi ciò che osserva per il solo fatto di osservarlo». Ma quest'ultimo invece è proprio uno degli scopi dei reportage di Bhl, che rivendica di cercare di influenzare il futuro e di perorare la causa degli uomini e delle donne che sceglie di incontrare nei suoi viaggi. Contro l'obiettività (vera o presunta) del giornalista, il coinvolgimento dichiarato dello scrittore.

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