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Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.03.2021 L'autobiografia in terza persona di Gertrude Stein
Analisi di Alessandra Sarchi

Testata: Corriere della Sera
Data: 14 marzo 2021
Pagina: 15
Autore: Alessandra Sarchi
Titolo: «Gertrude Stein. La mia autobiografia in terza persona»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA - La Lettura di oggi, 14/03/2021, a pag.15, con il titolo "Gertrude Stein. La mia autobiografia in terza persona" il commento di Alessandra Sarchi.

A Look at the Life of Gertrude Stein - CR Muse: The Complicated Words of Gertrude  Stein
Gertrude Stein

L’Autobiografia di Alice B. Toklas fu scritta nel 1933 quando Gertrude Stein era senz'altro una celebrità tra gli artisti e gli amanti del Modernismo, aveva alcuni estimatori fra gli scrittori americani — notoriamente Sherwood Anderson — ma non aveva ancora raggiunto, come scrittrice, la fama cui anelava fin dalla pubblicazione di Tre vite (1909) e che pensava di meritarsi per quello che lei considerava il primo romanzo dell'era moderna, C'era una volta gli americani, scritto tra il 1906 e il 1908, ma pubblicato solo nel 1925 in cinquecento copie dalla Contact Press. Dopo anni passati a riporre fiducia in editori che cambiavano idea e ritiravano le loro offerte, sembrava giunto il momento in cui, con la traduzione in francese di C'era una volta gli americani intrapresa da Bernard Fay, Stein avrebbe raggiunto quel pubblico più vasto di cui sentiva il bisogno per essere riconosciuta appieno, e non solo come guru culturale. L'Autobiografia di Alice B. Toklas fu scritta con la precisa consapevolezza di confezionare un autoritratto che fosse all'altezza dell'ambizione smisurata, e parecchio frustrata, della sua autrice. e Quale miglior stratagemma poteva escogitare Stein che usare la voce in falsetto della propria compagna, Alice Toklas, per parlare di sé stessa in terza persona? Nel testo si contano all'incirca 760 occorrenze del nome Gertrude Stein, lungo 285 pagine, giusto per farsi un'idea di quanto la sua presenza sia pervasiva e dominante. D'altronde esaminando le immagini in cui Gertrude e Alice vengono ritratte insieme, ad esempio quella scattata nel 1936 dal fotografo inglese Cecil Beaton che fa da copertina all'edizione Penguin dell'Autobiografia, la prossemica è chiarissima: Alice, incastonata fra le due ombre che si proiettano dal suo corpo sul muro, sta sul fondo per dare maggior risalto prospettico all'imponente figura di Gertrude in primo piano. La stessa cosa accade nell'Autobiografia: dare voce ad Alice Toklas è solo il modo che Stein ha trovato — un modo a dire il vero ingegnoso e inquietante per i risvolti psicologici che fa intravedere nel loro rapporto — per erigere a sé stessa un monumento letterario, senza dovere pronunciare il pronome «io». In fondo è Alice Toklas a dire di avere incontrato tre geni nella propria vita e uno di questi, insieme a Pablo Picasso e a Alfred North Whitehead, è Gertrude Stein.

Autobiografia di Alice Toklas, Gertrude Stein. Giulio Einaudi Editore -  Letture Einaudi
La copertina (Einaudi ed.)

Di smargiassate come questa è pieno il libro, insieme a un impressionante uso del name dropping, per Stein è fondamentale non solo elencare tutte le persone che ha conosciuto, ma dare risalto a quelle che l'hanno apprezzata e ne hanno favorito la carriera letteraria come Mildred Aldrich, Mabel Dodge, Edith Sitwell, Sherwood Anderson e Bernard Fay, e fra gli scrittori mettere in evidenza solo i giovani che si sono accostati a lei con deferenza, usando il suo salotto come un passepartout — Hemingway e Fitzgerald, ad esempio. e Stein, sempre tramite la voce di Toklas, non esita ad autodefinirsi la più grande scrittrice vivente di lingua inglese quando, a quest'altezza cronologica, Willa Cather e Virginia Woolf, per citare solo due nomi, avevano già pubblicato alcuni dei loro capolavori. Ma Gertrude Stein si guardava bene dal cercare un confronto con le sue contemporanee: durante il viaggio in Inghilterra nel 1914, organizzato allo scopo di incontrare l'editore John Lane, fa visita a Clive Bell, marito di Vanessa Stephen Bell, sorella di Virginia Stephen Woolf, ma a quest'incontro, dietro il quale sarà senz'altro baluginato il Bloomsbury group, non dedica più che un accenno nell'Autobiografia. D'altronde di Bell, conosciuto in precedenza a Parigi con la moglie e Roger Fry, si era limitata a dire che era divertente prima di diventare un critico d'arte; Lytton Strachey, conosciuto nella casa di campagna dei Whitehead, fa la figura dell'intellettuale idiosincratico e diffidente; T.S. Eliot, incontrato a Parigi una decina d'anni dopo, quella del poeta pedante e inattendibile, e Ezra Pound dell'ospite scorbutico e invadente. Gertrude Stein aveva creato a tutti gli effetti, in rue de Fleurus a Parigi, una corte in cui il suo prestigio fosse riconosciuto e non messo in discussione. Lei e il fratello Leo avevano aperto le porte a pittori che all'epoca — siamo fra il 1903 e 111907 — nessuno considerava. Avevano istituito nell'appartamento gli incontri dei sabati sera dove la bohème, composta da artisti e flâneurs in penuria di cibo e carbone, poteva rifocillarsi con un buon pasto e con la possibilità di vedere esposto, comprato e riconosciuto il proprio lavoro. Gli Stein, cresciuti fra l'Europa e gli Stati Uniti, erano cosmopoliti, avevano frequentato ottime università (Harvard Leo, Radcliffe Gertrude), erano genuinamente aperti alla novità, curiosi senza pregiudizi e piuttosto benestanti. e Durante le estati passate a Fiesole frequentavano lo storico dell'arte Bernard Berenson e a Parigi erano riusciti a entrare nelle grazie del mercante con maggior fiuto del momento, Ambroise Vollard, da cui comprarono i loro primi paesaggi e la Donna con ventaglio di Cézanne. L'arrivo a Parigi, nel 1904, dell'altro fratello, Michael Stein, insieme alla moglie Sarah, intenditrice d'arte e collezionista, sarà ugualmente importante: nell'appartamento di rue Madame, questa raffinata coppia, poi committente di una casa di campagna commissionata a Le Corbusier, ospiterà a sua voltai quadri di quegli artisti che già erano piaciuti a Leo e Gertrude. A un certo punto, intorno al 1914, la convivenza e la complicità fra questi ultimi venne meno ma, come nel caso di molti altri episodi raccontati nell'Autobiografia, non bisogna dare troppo credito all'aneddoto secondo cui Picasso avrebbe detto a Gertrude Stein che Leo era noioso con le sue collezioni di stampe giapponesi. Leo fu non meno essenziale della sorella alla costituzione di uno spazio che era mondano, ma al tempo stesso familiare e accogliente, per gli artisti che a Parigi nei primi anni del Novecento si apprestavano a ripensare a tal punto la tradizione pittorica da ottenere risultati rivoluzionari, cambiando per sempre il concetto di modernità.

Le serate del sabato, introdotte da una cena cui seguiva la visita nell'atelier dove a poco a poco cresceva la collezione di quadri e disegni contemporanei — Derain, Juan Gris, Vallotton, Manguin, Picabia —, sancirono quello che forse altrimenti sarebbe stato un momento di dispersione: se per tutti i giovani artisti Cézanne era il maestro indiscusso di una scomposizione della forma e di un uso del colore non più naturalistico ma legato alla percezione soggettiva, gli esiti verso cui ciascuno si avviava non erano affatto comuni. Braque era propenso a uno studio delle geometrie astratte ben prima di conoscere Picasso, il quale nel suo periodo blu era ancora alle prese con rovelli tardoimpressionisti, mentre Matisse seguiva un'altra linea di ricerca ancora più incentrata sul colore. Avrebbero potuto non incontrarsi mai, visto che alcuni di loro non esponevano nei Saloni e non avevano un gallerista importante che li rappresentasse. In rue de Fleurus si conobbero e acquisirono consapevolezza di qualcosa che stava accadendo; Leo Stein era un eloquente e competente critico che illustrava le loro opere, le metteva in relazione, faceva cogliere scarti e continuità con un'estetica sicura che si sarebbe poi riversata nel libro pubblicato nel 1927 con il titolo The ABC of Aesthetics. II salotto degli Stein ebbe la funzione di uno specchio: gli artisti potevano vedersi. E Gertrude Stein cominciò a vedersi tramite loro, tramite lo sguardo di uno in particolare, II giovane Pablo Picasso, con il quale doveva esserci una sintonia caratteriale, prima ancora che estetica: erano entrambi seduttori, amavano liquidare persone e situazioni con battute scherzose quando non proprio tranchant, avevano un'altissima considerazione di sé.

L'insistenza da parte di Stein sulla parola «genio», molto ricorrente anche nell'Autobiografia di tutti, rivela l'approccio celebrativo del proprio gusto, delle proprie scelte estetiche e del proprio pensiero. II ritratto che Picasso realizzò di Gertrude Stein tra il 1905 e il 1906, al solito enfatizzato dal racconto dell'Autobiografia come frutto di novanta sedute di posa — poco credibili considerata la velocità con cui lavorava lo spagnolo —, divenne per la scrittrice la base di una percezione del proprio destino letterario legato alle sorti dell'avanguardia pittorica. Il cubismo era una sua scoperta, o più probabilmente lo sentiva come una creazione alla quale aveva contribuito, avvenuta fra le pareti del suo appartamento, tra i quadri e i versi di Guillaume Apollinaire, al quale peraltro Gertrude Stein assegna l'invenzione del termine stesso, che invece correntemente si attribuisce al critico Louis Vauxcelles in relazione alla celebre mostra all'Estaque di Marsiglia tenuta da Braque nel 1907. II ritratto di Stein eseguito da Picasso, concepito ancora alla maniera del periodo rosa per quanto riguarda l'ambientazione e il corpo della scrittrice, cambia in maniera repentina nel volto, che venne cancellato e ridipinto nel 1906: una maschera, un ovale dai tratti semplificati e arcaicizzati, nel quale si è soliti ravvisare l'emergere della scomposizione cubista Stein percepì acutamente questo passaggio e in un certo senso vi modellò sopra la propria poetica; se l'ispirazione di Tre vite le era venuta guardando uno dei primi dipinti di Cézanne acquistati nella galleria di Vollard, la Donna con ventaglio (1879-1882), il ritratto che le fece Picasso promosse in lei l'idea di una necessità di rottura netta con il passato ottocentesco, e con C'era una volta gli americani si prefisse di scrivere il primo libro dell'era moderna. Ma è possibile tracciare un parallelo tra la prosa di Stein e la pittura cubista da lei scoperta e amata? Molti hanno preso alla lettera le dichiarazioni contenute nell'Autobiografia, tracciando affinità tra la pennellata di Picasso e il fraseggio ripetitivo di Stein, ad esempio. Un parallelo che Picasso stesso definiva ridicolo, stando alla testimonianza di Leo Stein. e Se si spoglia il paragone della sua forza retorica ed evocativa e si considera la prosa di Stein per quello che è, e non per quello che dichiara di voler essere, si incontra la medesima difficoltà in cui si sono imbattuti tutti i suoi lettori: un periodare monotono, ripetizioni continue, divagazioni che talvolta costruiscono scenette apprezzabili, talvolta sfociano nel mero pettegolezzo, una sentenziosità diffusa che raramente diventa profondità e più spesso si accontenta della battuta di spirito, la mancanza di veri dialoghi e di trame. Queste caratteristiche, molto evidenti nei romanzi, sono in parte compensate nell'Autobiografia, dove il contenuto personale e l'aneddotica legata a personaggi famosi fa sì che la monotonia sia rotta e la passione per i dettagli divaganti diventi un modo efficace di entrare nelle pieghe di molteplici esistenze e destini artistici. Talvolta la digressione aneddotica risulta interessante e ci dice molto del metodo di lavoro degli artisti: ad esempio il racconto di come venne dipinto il ritratto della moglie di Matisse con una chitarra in mano, con lunghe pose durante le quali la moglie si assopiva e il marito la riprendeva, a riprova che il disegno dal modello, per Matisse, contava moltissimo.

Altrove invece, anziché venire dirottati sul pettegolezzo mondano, avremmo preferito trovare qualche osservazione sull'opera artistica in sé: l'episodio in cui Gertrude Stein e Alice Toklas assistono, nel 1913, alla prima della Sagra della Primavera con la coreografia di Nijinsky, sconvolgente almeno quanto la musica di Stravinskij, è completamente assorbito dalla descrizione della camicia plissettata di Carl Van Vechten e del battibecco che avvenne fra due personaggi dei palchetti adiacenti. Sul balletto e sulla musica non una parola. Ma anche dal punto di vista formale, la prosa di Stein è tutt'altro che esatta e formata da frasi perfette come lei si compiace di affermare; si consideri l'abolizione arbitraria della punteggiatura e la giustificazione che ne viene data nell'Autobiografia: «Gertrude Stein disse che le virgole non erano necessarie, il senso doveva essere intrinseco e non dover essere spiegato dalle virgole, e che in caso contrario le virgole erano solo un segno che indicava di fare una pausa e tirare fiato, anche se uno doveva sapere da solo quando fermarsi e prendere fiato. Tuttavia, poiché le piaceva moltissimo Haweis e lui le aveva regalato un delizioso dipinto per ventaglio, gli concesse un paio di virgole. Bisogna dire però che nella rilettura del manoscritto finì col toglierle». II paragrafo è un classico esempio di snobismo autoreferenziale. II disprezzo per la punteggiatura non facilita la sua scrittura, anzi le toglie un mezzo espressivo, e quello che forse era intellegibile all'epoca, perché radicato nelle cronache mondane e nel gossip dei circoli culturali ai quali Stein ammicca con l'Autobiografia, diventa ostico per il lettore moderno, tanto che nella presente edizione e traduzione si è preferito aggiungere i segni di interpunzione che mancano quasi del tutto nel testo originale. e È lecito, a questo punto, chiedersi: perché continuare a leggere l'Autobiografia di Alice B. Toklas? Innanzitutto perché, per chi voglia capire quale fosse la vita artistica a Parigi nei primi anni del Novecento, fornisce un panorama molto ricco anche, e soprattutto, per l'attenzione a quei dettagli di vita materiale di cui in genere si sa sempre poco, e che invece conferiscono concretezza a biografie altrimenti astratte: cosa mangiavano gli artisti, come si vestivano, come erano arredati i loro studi, quali lo- cali frequentavano, di che cosa discutevano. Tra le pagine più felici dell'Autobiografia si annoverano proprio quelle dedicate al costituirsi dello studio-scuola di Matisse in un vecchio edificio scolastico nel quartiere degli Invalides, o il racconto della cena che venne data in onore del pittore Henry Rousseau, vero e proprio squarcio della vita promiscua ed effervescente che si teneva nel quartiere di Montmartre. Ma il pregio dell'Autobiografia si colloca a un livello più sottile: abituati a considerare le opere d'arte come oggetti che dalle sale dei musei richiedono assolutezza dello sguardo e una forma di attenzione deferente, grazie al racconto di Gertrude Stein possiamo ricollocarle nelle mura domestiche in cui nacquero — ed erano ateliers mal riscaldati per la penuria di carbone di artisti sempre a corto di quattrini —, ma anche nel contesto di relazioni umane e intellettuali di cui necessariamente sono il frutto. Con il suo esibito disprezzo per gli intellettuali — anche questa è una posa snob —, Stein ha però il merito di rendere accostabili e domestici artisti che invece svettano nel loro titanico isolamento di padri della rivoluzione culturale del primo Novecento. e Infine, se risulta discutibile vedere gli esiti della sua influenza letteraria sulla prosa — la poesia meriterebbe un discorso a parte —, indiscussa è la sua capacità di incarnare un nuovo tipo di figura letteraria: lo scrittore che si auto- promuove, che piega la propria opera alla costruzione di una mitologia personale, spesso appoggiata su fatti extraletterari — i salotti esistono anche per questo —, su faticose manovre per incontrare editori, su estenuanti trattative per vedersi pubblicato un libro. Stein lo racconta nei dettagli dei rapporti personali fatti di compiacenze, passioni e antipatie, tanto che a volte si ha l'impressione che la mondanità sia tutto, e ci catapulta direttamente nella modernità editoriale più feroce: numero di copie vendute, vetrine di librerie occupate, riviste che rifiutano di pubblicare articoli senza dare una motivazione.

Accadeva nei primi anni del Novecento e accade ancora oggi. Quando Hemingway arriva a Parigi come giornalista inviato da un quotidiano canadese, si affretta a incontrare Gertrude Stein e a chiederle consigli, installandosi con assiduità nel suo salotto; in capo a un paio di anni la sua fama e la sua evoluzione letteraria lo porteranno molto lontano da Stein e da Sherwood Anderson, che lo aveva raccomandato. Stein ne ride, ma pur continuando a subire il fascino di Hemingway, lo chiama furfante e imbroglione. Anche il vedersi superata da un giovanotto americano di ventisei anni faceva parte del nuovo sistema letterario, e la raccolta di testimonianze di fedeltà e di culto verso sé stessa da parte di artisti e scrittori, che Stein inanella quasi a ogni pagina, suona da un lato patetica, dall'altro rivelatrice di quanto, pur occupando una posizione apicale nella Parigi dell'avanguardia, per una donna fosse difficile ottenere e mantenere credibilità come scrittrice. e Ci riuscirà proprio con l'Autobiografia di Alice B. Toklas, un libro in cui rivela pregi e difetti di moltissimi artisti e scrittori, e in cui stila classifiche e gerarchie che oggi possono risultare criticabili — ad esempio quando sottostima il pittore svizzero Henry Vallotton, ora considerato una delle figure più interessanti e originali della pittura degli anni Venti, o quando liquida Gino Severini e il movimento futurista —, ma che allora avevano il sapore di un sigillo autorevole perché a pronunciarle era stata Gertrude Stein, l'americana che viveva a Parigi di cui esistevano già cinque ritratti fra dipinti e sculture, una mecenate generosa che aveva favorito la nascita del Cubismo, una donna che non aveva esitato a lavorare insieme alla compagna Alice Toklas per soccorrere i feriti durante la Prima guerra mondiale, una scrittrice che dichiarava di preferire le battute delle cameriere a quelle degli intellettuali, una cosmopolita che si vantava di non sapere dove si trovava Lovanio: insomma una contraddizione vivente. E proprio per questo attraeva e rifletteva le spinte contrastanti con cui il nuovo secolo si era aperto e aveva già concluso una stagione poiché, sempre stando alle parole di Stein: «La pittura adesso, dopo il suo grande periodo, è tornata a essere un'arte minore».

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