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Corriere della Sera Rassegna Stampa
16.09.2020 Pace a Washington 4: Trump protagonista degli accordi, Europa non pervenuta
Cronaca di Davide Frattini, Massimo Gaggi intervista Vali Nasr, commento di Yossi Klein Halevy

Testata: Corriere della Sera
Data: 16 settembre 2020
Pagina: 14
Autore: Davide Frattini - Massimo Gaggi - Yossi Klein Halevy
Titolo: «La 'pace' alla Casa Bianca tra Israele e due alleati arabi. Trump: altri seguiranno - 'Un’intesa destinata a durare e a cambiare il Medio Oriente' - Gli errori strategici dell'Europa che resta irrilevante»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/09/2020, a pag.14, con il titolo "La 'pace' alla Casa Bianca tra Israele e due alleati arabi. Trump: altri seguiranno" il commento di Davide Frattini; a pag. 15, con il titolo 'Un’intesa destinata a durare e a cambiare il Medio Oriente', l'intervista di Massimo Gaggi a Vali Nasr; con il titolo "Gli errori strategici dell'Europa che resta irrilevante", il commento di Yossi Klein Halevy.

Ecco gli articoli:

Davide Frattini: "La 'pace' alla Casa Bianca tra Israele e due alleati arabi. Trump: altri seguiranno"

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Davide Frattini

Dei settecento ospiti l’unico a restare a casa è quello che avrebbe dovuto essere invitato. Il premier Benjamin Netanyahu è volato a Washington con tutta la famiglia, i consiglieri, il capo del Mossad. Non si è portato dietro Gaby Ashkenazi, il ministro degli Esteri, avversario di campagna elettorale diventato alleato di coalizione. È lui — stabilisce una norma israeliana del 1951 — a dover firmare i trattati con altre nazioni. Così l’ex capo di Stato Maggiore ha studiato nella notte il documento e ha concesso il permesso a Netanyahu (in termini tecnici una procura legale) prima della cerimonia. In cambio ha ottenuto la conferma che l’intesa non avrà valore fino a quando non sarà approvata dal governo al completo e dal Parlamento. Sull’erba del South Lawn alla Casa Bianca, lo stesso sfondo di colonne bianche della firma degli accordi di Oslo il 13 settembre del 1993, in pochi indossano la mascherina, i più ligi sono gli israeliani, da dopodomani il Paese deve sottoporsi alla seconda quarantena totale per rallentare l’epidemia. Donald Trump ha voluto dare a questo patto tra lo Stato ebraico, gli Emirati Arabi e il Bahrein un nome biblico: gli accordi di Abramo sono i primi dal 1994, dalla stretta di mano con la Giordania. Il presidente americano parla di «sangue che ha bagnato le sabbie del deserto», spiega che anche Netanyahu «è stanco della guerra». In realtà i tre Paesi non hanno mai combattuto, la firma di ieri non chiude un conflitto come con i giordani (e prima con l’Egitto nel 1979). Apre però «una nuova alba di pace in Medio Oriente», proclama Trump, mentre Netanyahu, Abdullah bin Zayed Al-Nahyan (ministro degli Esteri emiratino) e Abdullatif Al Zayani (Bahrein) ripetono: «È una giornata storica». Trump assicura che «almeno altre cinque nazioni sono pronte a seguire questi passi», che anche i palestinesi torneranno a negoziare («ci stiamo parlando»), che potrebbe raggiungere un accordo con l’Iran in poco tempo, «se venissi rieletto». Per ora la cerimonia ha solo riavvicinato i leader palestinesi divisi, il presidente Abu Mazen ha parlato con Ismail Haniye, capo di Hamas, e insieme ribadiscono: «La nostra causa non si svende». Negli stessi minuti della firma, dalla Striscia di Gaza i miliziani hanno sparato razzi contro le città israeliani, ad Ashdod i feriti sono 6. I dettagli del documento sono emersi nella notte. Il riferimento alla pace con i palestinesi resta vago: «Le parti si impegnano a lavorare per una soluzione negoziata che risponda alle aspirazioni legittime e ai bisogni dei due popoli». Resta fuori dalle carte quello che Trump avrebbe garantito agli Emirati e Netanyahu concesso: il via libera per gli Stati Uniti alla vendita dei jet militari F-35 ad Abu Dhabi, sarebbe la prima volta che un governo israeliano rinuncia all’«esclusiva» nella regione sugli armamenti americani. E la promessa israeliana di fermare l’annessione di parte della Cisgiordania e la costruzione di colonie. Il patto ribalta la formula che fino a ora le nazioni arabe hanno voluto imporre per normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele. Il primo passo era terra in cambio di pace. Adesso l’equazione è pace in cambio di turisti, tecnologie e un’alleanza contro l’Iran: gli affari tra i tre Paesi raggiungeranno da subito i 500 milioni di dollari, i pellegrini di Emirati e Bahrein potranno visitare la Spianate delle Moschee, il terzo luogo più sacro per l’islam, mentre i viaggiatori israeliani si immergeranno nelle notti di Dubai. Tre ore di volo.

Massimo Gaggi: 'Un’intesa destinata a durare e a cambiare il Medio Oriente'

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Massimo Gaggi

Vali Nasr - Wikipedia
Vali Nasr

«Non è un accordo di pace come quelli siglati negli anni Settanta e Novanta da Egitto e Giordania perché stavolta non si tratta di Paesi confinanti in guerra, ma la normalizzazione delle relazioni degli Emirati e del Bahrein con Israele è una partnership strategica che può avere conseguenze anche più profonde: il mondo arabo che, davanti al progressivo disimpegno, soprattutto militare, degli Usa dal Medio Oriente, decide pragmaticamente di considerare lo Stato ebraico non più corpo estraneo, un nemico, ma addirittura un alleato nella lotta contro l’Iran sciita e la Turchia». Per Vali Nasr, direttore della scuola di politica internazionale della Johns Hopkins University di Washington, uno dei maggiori esperti di affari mediorientali e profondo conoscitore delle dinamiche del regime teocratico di Teheran, grazie anche alle sue origini iraniane, avverte che sottovalutare l’accordo di ieri, considerandolo una passerella organizzata per sostenere la campagna elettorale di Trump, sarebbe un errore.
Alcuni parlano di accordo tattico, favorito dal timore che una vittoria di Biden alle presidenziali spinga gli Usa a riaprire il dialogo con l’Iran, nemico comune di Israele e del mondo arabo. «L’intesa ha anche un aspetto contingente — aiutare Trump che ha rotto con Teheran e perfino Netanyahu, in grave difficoltà in Israele per le accuse di corruzione — ma il suo valore va molto oltre le presidenziali Usa che, pure, si propone di influenzare. Certo, non ci fosse stato il voto del 3 novembre, l’accordo magari sarebbe arrivato nel 2021. Ma questo è il punto d’arrivo di un processo che va avanti da anni, con un dialogo con Israele che si è sviluppato dietro le quinte e che ha preso quota dopo l’accordo del 2015 per il nucleare iraniano voluto da Barack Obama. E che è stato rafforzato dalla comune preoccupazione per l’espansionismo della Turchia».
Un accordo basato solo su questioni di sicurezza militare o un più ampio valore politico, culturale, con un coinvolgimento popolare? «Il fattore militare conta. Il mondo arabo sunnita ha osteggiato, esattamente come Israele, l’accordo nucleare con l’Iran e ha apprezzato la scelta di Trump di stracciarlo. Ma se il Trump politico piace, quello militare preoccupa: quando c’è stato l’attacco di marca iraniana a petroliere degli Emirati e a impianti petroliferi sauditi, la risposta Usa è stata molto blanda. Da qui la necessità di aprire a Israele: un Paese che ha anche obiettivi strategici più stabili rispetto agli Stati Uniti dove le elezioni presidenziali possono portare a cambiamenti profondi. Detto questo, dietro l’accordo c’è anche molto altro: dalla fine dell’ostilità popolare nei confronti di Israele alla volontà dei Paesi del Golfo, per troppo tempo imprigionati in una logica centrata sullo sfruttamento del potenziale petrolifero, di puntare, invece, come ha fatto Israele, sullo sviluppo del potenziale umano. Gli Emirati hanno cambiato rotta già da tempo avviando la diversificazione: ora vedremo un ulteriore avvicinamento al modello di sviluppo economico di Israele».
Fino a non molto tempo fa l’irrisolta questione palestinese sembrava un ostacolo insormontabile per tutto il mondo arabo. Che fine ha fatto? I palestinesi pagano l’avvicinamento a Teheran? «Sì, ma c’è anche altro. Man mano che si sono moltiplicate le crisi regionali — dallo Yemen alla Libia, passando per Siria e Iraq — nelle quali lo Stato ebraico non ha avuto alcun ruolo, il nemico Israele è uscito dai titoli di testa del mondo arabo e dal radar dell’ostilità popolare. Anche la questione palestinese ha perso peso: le priorità sono diventate altre per i governi ma anche per la gente. Quando Trump ha deciso di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme ci sono state proteste, ma non le manifestazioni di piazza che molti si aspettavano».
Se andrà alla Casa Bianca, Biden invertirà di nuovo la rotta? «Cercherà di riprendere il dialogo con Teheran che aveva avviato da vice di Obama, e di far calare le tensioni tra iraniani e sauditi, ma manterrà il nuovo impianto delle relazioni in Medio Oriente».

Yossi Klein Halevy: "Gli errori strategici dell'Europa che resta irrilevante"

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Yossi Klein Halevy

L’accordo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain si scontra con le convinzioni fondamentali sul processo di pace in Medio Oriente condivise dai capi di Stato europei sin dagli anni Settanta. La prima è che la chiave di volta della pace sia da ricercarsi nella costituzione di uno Stato palestinese. Oggi, invece, gli Emirati e il Bahrain stanno normalizzando le relazioni con lo Stato ebraico senza che la regione abbia fatto passi avanti sulla questione. E uno scenario diverso dagli esiti ipotizzati dai leader europei: anziché arrivare alla pace con il mondo arabo tramite la creazione di uno Stato palestinese, le speranze oggi si appuntano sull'alleanza tra Israele e il mondo arabo, per arrivare a uno Stato palestinese. A questo avrebbero dovuto puntare gli europei sin dall'inizio. La seconda convinzione errata dell'Europa riguarda Israele, ritenuto cardine della questione della pace in Medio Oriente. Si è sempre sostenuto che occorreva esercitare pressioni sullo Stato ebraico per ottenere concessioni nei confronti del palestinesi. L'accordo tra Israele e gli Stati del Golfo rappresenta un argomento formidabile a sostegno della tesi opposta. Ancora a giugno, il primo ministro israeliano Netanyahu minacciava l'annessione del 30% della Cisgiordania, una mossa che avrebbe inferto un colpo tremendo alla soluzione del due Stati. I leader europei pensavano a sanzioni economiche, ma il governo israeliano non si è lasciato smuovere. Solo quando gli Emirati Arabi Uniti hanno offerto di normalizzare i rapporti con Israele in cambio della sospensione dell'accorpamento territoriale, Israele ha fatto un passo indietro. L'unica strada per convincere gli israeliani che la soluzione dei due Stati è nell'interesse del loro Paese sta nella rinuncia, da parte dei leader palestinesi, a rivendicare il diritto di «ritorno» per i rifugiati, il rientro in Israele dei discendenti dei profughi che dovettero lasciare il Paese dopo la guerra del 1948. La terza convinzione errata dell'Europa è che la stabilità della regione dipende da un atteggiamento conciliante nei confronti dell'Iran, quando in realtà è stata la volontà condivisa di arabi e israeliani nell'opporsi all'Iran ad aver spianato la strada all' accordo. Il consenso — ignorato dall'Europa — è che l'Iran debba essere arginato, non ingraziato. L'Europa ha ragione quando parla dell'esigenza di uno Stato palestinese, ma ha travisato la realtà mediorientale e così non è stata d'aiuto alla causa palestinese: finché non ammetterà i suoi insuccessi, resterà irrilevante nel processo di riconciliazione tra arabi e israeliani.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

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