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Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.09.2020 Gli archivi di Saddam
Commento di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 03 settembre 2020
Pagina: 16
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Gli archivi di Saddam»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/09/2020, a pag. 16 con il titolo "Gli archivi di Saddam", il commento di Lorenzo Cremonesi.

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Lorenzo Cremonesi

Saddam Hussein, l'inexorable chute d'un tyran
Saddam Hussein

Dopo 15 anni di esilio negli Stati Uniti, uno dei più importanti archivi legati a Saddam Hussein è stato riportato a Bagdad. E avvenuto lunedì scorso, quando un cargo militare americano è atterrato nella capitale irachena con il suo carico di documenti, fotografie, lettere e liste di segreti crudeli, memorie di vite spezzate, di prigionieri dimenticati, esecuzioni e gialli irrisolti. Oltre sei milioni di pagine, che raccontano spaccati fondamentali non solo dell'Iraq sotto la dittatura, ma dell'intero Medio Oriente dalla metà del Novecento agli inizi del nuovo millennio. Una storia affascinante, che inevitabilmente raccoglie tante vicende, curiose, contraddittorie, spesso terribili. Ma il significato più rilevante, almeno al momento, di questo ricongiungimento tra l'Iraq e gli archivi del suo passato pare sia la maturazione della società civile adesso pronta a fare i conti con sé stessa. Gli archivi sono infatti quelli del Baath, il «Partito del Risorgimento Arabo Socialista», il cui principale fondatore otto decadi orsono fu Michel Aflaq, un cristiano ortodosso siriano che sognava un Medio Oriente socialista unificato, laico, aperto alle sinistre di tutto il mondo e fuggito in Iraq. Testimonianze e liste Letto alla luce dello sviluppo del radicalismo islamico, quel sogno oggi appare superato, fallito. E infatti, già meno di trent'anni dopo la sua nascita, il Baath vide crescere al suo interno spinte dittatoriali, che ben presto ne avrebbero stravolto i caratteri fondativi, specie nelle sue sedi più importanti a Damasco e Bagdad. Lo stesso Saddam, prendendo il potere con un golpe nel 1979, predicò la necessità di tornare al «purismo» militante delle origini, eliminò nel sangue i suoi avversari di partito e assurse a dittatore assoluto. Gli archivi raccolgono tra l'altro le testimonianze di quegli anni grevi, con le liste degli informatori, dei collaborazionisti e dei traditori. Ad accrescere l'interesse per gli archivi si aggiunge la storia delle loro peripezie, incluso le biografie di due personaggi chiave: l'intellettuale iracheno diventato cittadino americano, il renne Kanan Makiya, ed il 53enne Mustafa al-Kadhimi, che da maggio è primo ministro iracheno, ma in passato fu il capo dei servizi segreti e ancora prima attivista per la difesa dei diritti umani, oltreché amico personale di Makiya. Furono proprio loro due, pochi mesi dopo l'invasione americana dell'Iraq nel 2003, ad unire le forze per mettere in salvo gli archivi, sino ad organizzare nel 2005 il trasporto negli Stati Uniti per evitare il saccheggio o la distruzione. Stiamo parlando di eventi accaduti 17 anni fa. Ma è come fosse un'altra era. Makiya, figlio dell'intellighenzia irachena — il padre era un celebre architetto di Bagdad, la madre una cittadina britannica perfettamente bilingue — in gioventù era stato trozkista, ma nel 1967 era emigrato negli Stati Uniti per poi diventare docente alla Brandeis University. Qui la sua insofferenza per la dittatura di Saddam si fece militante. «La Repubblica della Paura», il suo libro pubblicato con lo pseudonimo di Samir al-Khalil (per proteggere la famiglia) divenne, dal tempo dell'invasione irachena del Kuwait nel 1990, la Bibbia di chiunque volesse affrontare il tema. Makiya diventò uno dei più importanti suggeritori del presidente Bush impegnati a spingere per l'invasione e sostenere le teorie dell'«esportazione della democrazia» perorate dalla destra «Neocon». Appena dopo la caduta del regime arrivò a Baghdad, divenne consigliere dell'amministrazione transitoria guidata da Paul Bremer. Ma nulla andava nel verso da lui auspicato: il Paese scivolò nel caos, il grande saccheggio divenne endemico e iniziò la stagione del terrorismo qaedista. Il passato insanguinato Lui e Kadhimi trovarono gli archivi nei sotterranei della sede del Baath dominati dalla grande statua di Aflaq. «Ho preso gli archivi e li ho portati a casa mia», disse nel 2005 ai giornalisti. Voleva catalogarli, studiarli, renderli accessibili al pubblico. «Non per aizzare vendette, ma per capire la nostra storia», spiegò. Non venne compreso. Baghdad registrava 3.000 morti al mese. Nessun luogo era sicuro. Fu allora che decisero di trasferirli negli Stati Uniti con l'aiuto del Pentagono. Una sconfitta. Lui stesso se ne andò e riprese la docenza alla Brandeis nel 2006. «L'Iraq non era pronto per il mio progetto. Il passato non era affatto passato. Anzi, insanguinava Il nostro presente», ammise più tardi, in polemica con tanti intellettuali arabi sempre più critici dell'invasione americana, tra cui lo scrittore palestinese Edward Said. Oggi il ritorno degli archivi in Iraq marca la chiusura del cerchio. Kadhimi, pur se sciita, è percepito come un primo ministro più legato a Washington che all'Iran. «L'Iraq deve riprendere possesso della sua storia. Kadhimi saprà garantire gli archivi», dicono a Washington. C'è da augurarselo.

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