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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.08.2020 Libano: parole d'odio contro Israele del presidente Michel Aoun, ma nel suo Paese la guerra civile è la regola
Lo intervista Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 agosto 2020
Pagina: 14
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «'Non lascio, il voto forse in sei mesi. E sullo scoppio va seguita ogni pista'»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/08/2020, a pag. 14 con il titolo 'Non lascio, il voto forse in sei mesi. E sullo scoppio va seguita ogni pista', l'intervista di Lorenzo Cremonesi a Michel Aoun.

Le parole di odio contro Israele di Michel Aoun sono eloquenti, e bene fa Cremonesi a fare domande vere al presidente libanese. La realtà sul campo in libano è quella di un Paese dilaniato da decenni dallo scontro tra etnie diverse - sunniti, sciiti, cristiani maroniti, altri gruppi cristiani, drusi - che rendono la guerra civile inevitabile. Per capire la situazione del Libano, è indispensabile leggere l'analisi di Mordechai Kedar, intervistato da Sharon Nizza su Repubblica: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=79123

Ecco l'articolo:

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Lorenzo Cremonesi


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Michel Aoun, Presidente del Libano

Michel Aoun: un uomo solo al comando. Eletto nel 2016, l’85enne presidente rimane oggi l’elemento chiave degli equilibri che dominano la politica libanese dal 2005. Accusato di «tradimento» e di incarnare «il marcio dello Stato» dalle piazze in rivolta, che ne chiedono più che mai la testa in seguito alle dimissioni del governo, Aoun non si lascia intimorire. Dopo le violenze della settimana scorsa, le proteste ora sembrano come stanche, disorientate. «Resto al mio posto. Se lasciassi sarebbe il caos», ripete. Ma in queste ore è atteso il verdetto del tribunale internazionale sull’omicidio, 15 anni fa, dell’ex premier sunnita Rafiq Hariri, e la tempesta potrebbe riprendere. Cristiano maronita, dopo essere stato il simbolo della resistenza contro siriani e milizie sciite durante la guerra civile (1975-1990) e i 15 anni di esilio in Francia, fu proprio lui a fare il salto della quaglia e stringere l’alleanza con gli ex nemici. Ieri ci ha ricevuto per un’ora e mezza nel suo ufficio sulle alture di Baabda, dalle cui finestre si distingue bene il porto devastato.
Presidente perché non vuole una commissione internazionale? «La costituzione prevede che sia il nostro sistema giudiziario ad indagare su problemi interni. Ciò non esclude la presenza di investigatori francesi, americani e altri che stanno già aiutando la nostra polizia».
Da Piazza dei Martiri le folle vi accusano di voler nascondere non solo la gravissima corruzione del sistema, ma anche elementi di responsabilità più gravi. «Certamente abbiamo personaggi corrotti dentro e fuori il governo. Vanno indagati e condannati».
I comandi di Unifil, dopo aver consultato autorità libanesi e israeliane, parlano di un «incidente industriale».
Non sono i soli. Lei non esclude invece l’eventualità di un missile israeliano. Come mai? «Molti testimoni libanesi asseriscono di aver visto o sentito volare aerei poco prima dello scoppio. Vanno sentiti, anche se forse sono poco credibili. Anche se pare sia stato un incidente, vorrei evitare di essere accusato di non aver ascoltato ogni voce».
E cosa risponde a chi sostiene che sia stata la deflagrazione di un deposito di armi dell’Hezbollah a innescare poi quella molto più grave del nitrato d’ammonio? «Impossibile. Ma fatti gravi come questo accendono gli animi e l’immaginazione. Sappiamo che Hezbollah non ha depositi di armi al porto. Comunque anche questa pista verrà investigata».
Le piazze inneggiano alla rivoluzione, esigono che lei lasci, vogliono cambiare tutto. Cosa farà? «Una domanda difficile. Ma sono abituato e resto più radicale di loro, da sempre. Da tempo propongo un programma di rinnovamento totale della costituzione e della legge elettorale. Anch’io sono contrario alle logiche confessionali e alla vecchia consuetudine di avere un presidente cristiano, un premier sunnita e un portavoce del parlamento sciita. Ma queste cose vanno fatte gradualmente. Prima le folle devono calmarsi, non possiamo lavorare sotto pressione, la rabbia va placata. Non lascerò, non posso creare un vuoto istituzionale. Lavorerò per un nuovo esecutivo che traghetti verso nuove elezioni tra qualche tempo».
Quando? Qui urlano, vogliono il voto subito. Il verdetto sulla morte di Hariri? Dopo 15 anni non si può più fare giustizia «Vediamo. Magari entro un anno, oppure sei mesi. Deve essere il parlamento a sciogliersi e deciderlo. Non io, non è nelle mie prerogative».
È davvero disposto a fare la pace presto con Israele? «No. Sono stato citato male. Ho detto che tra noi e Israele vanno prima risolti molti problemi».
Quali? «Per esempio le questioni relative al confine marittimo e alle aree contese sulle frontiere terrestri. Oppure l’intero capitolo dei palestinesi e le centinaia di migliaia di profughi sul nostro territorio».
Intanto però gli Emirati firmano la pace con Israele. L’Iran, grande sostenitore di Hezbollah, appare più isolato. La questione palestinese viene marginalizzata dal confronto regionale tra sciiti e sunniti. Cosa ne pensa? «Non sta a me giudicare le scelte di uno Stato sovrano. Anche se continuo a ritenere che i governi arabi dovrebbero tenere una qualche forma di coordinamento politico nei confronti di Israele. Vorrei fossimo più uniti».
Considera ancora valido il suo patto firmato con Hezbollah nel 2005? Tanti cristiani non glielo hanno mai perdonato. «Allora non formammo un partito comune, bensì ci accordammo per un programma di governo. Poi però Israele lanciò la guerra nell’estate del 2006 e io reputai di dovermi schierare con gli sciiti libanesi, sono miei compatrioti, ci siamo difesi assieme».
Oggi tanti chiedono il disarmo di Hezbollah e la sua integrazione nell’esercito libanese. Concorda? «Israele continua a provocare e lanciare attacchi. Solo quando ciò finirà potremo pensare al disarmo di Hezbollah. Ricordo che negli ultimi 15 anni c’è stato un solo caso di frizioni tra esercito ed Hezbollah, il 7 maggio 2008, e venne presto risolto».
Probabilmente nelle prossime ore il tribunale internazionale punterà il dito contro il governo siriano ed Hezbollah per l’omicidio Hariri. Lei come reagirà? «Attendo il verdetto. Lo rispetterò qualsiasi esso sia. Di più non voglio dire, se non rimarcare che sono trascorsi 15 anni dall’assassinio e la giustizia dopo un periodo tanto lungo non è più giustizia».
Come spiega la gravissima crisi economica che attanaglia il Libano? «Siamo stati vittime della guerra in Siria. Abbiamo tra noi un milione e mezzo di profughi. Uno ogni tre residenti in Libano è un siriano privo di tutto. Ciò è costato 45 miliardi di dollari, oltre a 20 in mancato export. Aggiungete l’aggravarsi del coronavirus e adesso l’esplosione. Per questo stiamo molto apprezzando l’aiuto fornito dall’Italia e dagli altri Stati europei. Ho guardato con grande speranza alla riunione di Parigi dei Paesi donatori con la partecipazione americana dopo la tragedia al nostro porto e mi auguro che l’aiuto continui».

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